Antonio Gramsci, pensatore “popolare” e nemico dell’ortodossia comunista

La genialità e l’attualità dell’intellettuale, del pensatore “popolare” Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937; popolare poiché riteneva che l’intellettuale faccia parte di una casta e dè troppo lontano dal popolo, e “non si può separare l’homo sapiens dall’homo faber”, e in questo senso, Il partito comunista, per lui, è intellettuale collettivo), sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx, fondendo volontarismo e dialettica storica, ponendosi in tal senso sulla stessa lunghezza d’onda di Giovanni Gentile.

Conosciamo davvero la vicenda politica di Gramsci, fondatore del Partito Comunista Italiano, e perché oggi dovremmo rileggere questo poliedrico pensatore, in particolare l’Ordine Nuovo e i Quaderni, quest’ultimi interessanti anche sul piano linguistico? Nel discorso che va componendosi attraverso queste opere, è possibile ravvisare una potente alternativa al Pensiero Unico, alla nostra società paludata incapace di dare prospettive sul futuro, che il filosofo torinese ha più volte presentato come l’ideologia del capitalismo avanzato. Sin dal celebre editoriale della rivista La città futura, del 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera contro chi si lascia andare al fatalismo, alla rassegnazione e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta:

<<Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica>>.

Parole più che mai piene di significato in questa epoca anestetizzata e individualista, manipolata dai mass media e soprattutto, cosa ancora più sconcertante, senza valide alternative. Ci interessa fortemente l’Antonio Gramsci intellettuale-letterato-filosofo, e i suoi giudizi sulla letteratura italiana (nonché sul teatro di Luigi Pirandello):

«Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo […] può essere subordinato all’egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo, tanto gli intellettuali laici quanto i cattolici: la loro insufficienza è uno degli indizi più espressivi dell’intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale; la religione è rimasta allo stato di superstizione […]. l’Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt’al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio».

Sono rimaste famose le parole di Gramsci critico letterario su Alessandro Manzoni, lo scrittore più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, che però secondo Gramsci è una dimostrazione del carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana:

«Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia […] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali […] niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana […] vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo […] non c’è popolano che non venga preso in giro e canzonato […] Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo […] il suo atteggiamento verso il popolo non è popolare-nazionale ma aristocratico».

In effetti l’atteggiamento di Manzoni verso i suoi personaggi è di tipo paternalistico e classista, intriso di un cristianesimo superficiale, ma a proposito di religione, questa per Gramsci costituisce un bisogno metafisico per gli uomini, ma i socialisti devono sostituire la religione con la filosofia come bisogno primordiale ed istintivo. Tornando alla questione politica, Gramsci aveva diversi nemici nel PCI e ha trovato la morte da uomo libero, non in un penitenziaro come molti ancora spacciano per la verità. Il 27 aprile 1937 erano addirittura scaduti da qualche giorno i termini della libertà condizionale imposta all’ex deputato dopo la sua scarcerazione; Togliatti scriveva che i Quaderni sarebbero stati trafugati dalla cella la sera stessa della morte di Gramsci. Il PCI dunque aveva quindi bisogno di un martire da utilizzare nel dibattito politico successivo al termine della seconda guerra mondiale e l’autorevole figura di Gramsci-vittima era perfetta per questo fine. A tal proposito le lettere che Gramsci inviò alla moglie Giulia contengono una serie di riflessioni di fondamentale importanza per l’esegesi di un certo approccio al comunismo.

Di estremo interesse e di grande attualità sono le considerazioni che Gramsci fa a proposito della questione meridionale, analizzando il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall’insurrezione di Milano, poi repressa a colpi di cannone dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, cui fa capo Giovanni Giolitti, di fronte all’insofferenza delle classi dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale. La società meridionale, inoltre è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che gli consente di vivere in città. Per poter spezzare questo blocco è necessaria la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo in questo modo, secondo Gramsci, l’alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano.

In disaccordo con “il reazionario” (dal punto di vista di Gramsci), Benedetto Croce, il fondatore del PCI,  ritiene che il critico abruzzese abbia fornito alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall’altra. Opponendosi anche alla concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, secondo la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da solo, Gramsci ritiene che tale concenzione mascherasse l’impotenza politica del partito della classe operaia, incapace di prendere l’iniziativa per la conquista dell’egemonia. Togliere il potere ad una classe per consegnarlo ad un’altra.

Tra le maggiori opere dell’intellettuale sardo ricordiamo: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Il Risorgimento, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, La costruzione del Partito comunista. 1923-1926, Americanismo e fordismo, Il Vaticano e l’Italia, Il Vaticano e L’Italia, Critica letteraria e linguistica, Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Piove, governo ladro.

‘I Quaderni’ di Paul Valéry: la poesia come meditazione su ciò che ci accade e come festa dell’intelletto

Discepolo di Mallarmè, Paul Valéry (Sète, 30 Ottobre 1871- Parigi, 20 Luglio 1945), è considerato uno dei maggiori esponenti della poesia simbolista. Dopo aver studiato a Montpellier, si reca a Parigi dove entra a far parte di alcuni importanti circoli letterari. La poesia è per Valéry meditazione su ciò che ci accade, su eventi puramente mentali; ed è per questo che sceglie di dedicarsi intensamente a quest’attività, per non lasciar dubbi irrisolti e conti in sospeso con se stesso. Annoveriamo tra le sue opere più celebri, l‘Introduzione al Metodo di Leonardo da Vinci che riassume, per Valery, l’ideale dell’uomo completo di spirito, figura in cui vengono conciliate alla perfezione arte e scienza. Dopo una crisi intellettuale ed esistenziale, conosciuta come la notte di Genova, ritorna a scrivere grazie ad uno dei suoi più cari amici, Gide e scrive, nel 1896, la Serata con il signor Teste, testo in cui l’attenzione è rivolta, questa volta, all’uomo-intellettuale. In seguito, indirizza i suoi studi anche alle matematiche e alle discipline astratte per tornare ad occuparsi nuovamente di poesia con l’opera la Giovane Parca, seguita dal famoso poema Il cimitero marino. Quest’opera è stata letta come un esercizio spirituale, che gli garantirà, inoltre, un enorme successo come letterato; scriverà, in seguito, Album d’antichi versi in cui racconta la sua giovinezza e Charmes, considerata la sua opera più “inquieta”.
Nel 1925 è membro dell’Accademia Francese e, da questo momento in poi, non smetterà mai di impegnarsi nel suo lavoro di “uomo di lettere”, continuando a scrivere (e lo fa per circa cinquant’anni) quasi ogni giorno, durante le prime ore del mattino, i suoi Cahiers (Quaderni), testimonianza fondamentale per la comprensione della sua poetica. Quaderni che sono preziosi strumenti d’osservazione:

Gli altri fanno libri, io faccio la mia mente

Valéry antepone l’intelletto astratto (”una poesia deve essere una festa dell’intelletto”) ed il dominio delle emozioni al sentimento incontrollato e alla passione e potremmo dire che “il signor Teste” celebra proprio questi aspetti della condizione umana, essendo protagonista-emblema della sua poetica. Il poeta francese tende a governare le leggi dello spirito, attraverso momenti di riconciliazione con il proprio sé, studiandone gli immediati riscontri nella realtà.

Si tratta sicuramente di un’ambizione molto alta che rende, di conseguenza, ambiziosa la poesia e la svincola da tutto ciò che non viene considerato puro ed essenziale. Valéry confesserà, a questo proposito, che l’inconveniente che presenta il termine “poesia pura” è di far pensare ad una purezza morale che non è qui in causa, poiché l’idea di una poesia pura è al contrario per me un’idea essenzialmente analitica. La poesia pura è insomma una finzione dedotta dall’osservazione, che deve servirci a precisare l’idea della poesia in generale e guidarci allo studio così difficile e così importante delle relazioni diverse e multiformi tra linguaggio e gli effetti che produce sugli uomini. Meglio forse in luogo di “poesia pura”…dire ..”poesia assoluta”.

Desumiamo che la poetica di Valéry potrebbe articolarsi in due pensieri: il significato razionale e critico e lo studio attento e scientifico del linguaggio. Linguaggio che è senz’ombra di dubbio critico ed elitario, perché si rivolge ad un pubblico ben preciso e serve a ristabilire l’ordine, quell’ordine che necessita della parola, l’unica in grado di essere e farsi saggia ed universale.
 
La poesia è il tentativo di rappresentare o restituire attraverso il linguaggio articolato queste cose o questa cosa che oscuramente tentano di esprimere le grida, le lacrime, le carezze, i baci, i sospiri. (Paul Valery)

 

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