‘Radure’, il meraviglioso sud nella poesia sintropica di Maria Allo

La raccolta di Maria Allo dal titolo Radure (Landolfi Editore) ricorda Heidegger, la radura del filosofo. Leggendola, si ha l’impressione che ciò fosse un richiamo evidente. Si intende il titolo col significato heideggeriano di apertura, disvelamento, irradiazione dell’essere.

Ma la radura è anche semplicemente un tratto disboscato. È anche ordine, chiarezza, pulizia e forse sintesi. Forse si può intendere anche in questo modo.

La costruzione del verso di Maria Allo

Maria Allo si dimostra maestra nella costruzione del verso e della prosodia. Si sente l’influsso di Dante, anche se la poetessa non ha l’ossessione di ingabbiare metricamente i suoi pensieri.

Rivela però l’abilità tecnica di saper strutturare le sue corrispondenze (“Pozzanghera nella terra scura:/ sopra rumori e inutili rattoppi./ Ti viene addosso un macigno/ minuscola e fragile una farfalla/ il muovere dell’ombra mentre/ tutto sfoca e colore cambia./ Sono una pietra d’inverno./ Pietra dal taglio perfetto/ nel silenzio della neve/ crepata sull’orlo della vita”) in endecasillabi canonici (quasi mai ipermetri o variamenti accentati e perciò irregolari) alternandoli con novenari e settenari.

Non tutti i poeti contemporanei conoscono la metrica, si danno delle regole oppure le sanno rispettare. La Allo dimostra di saper coniugare felicemente le regole della migliore tradizione poetica con la psicologia del profondo. Come ha felicemente intuito Franca Alaimo nella prefazione, la poesia della Allo è contrassegnata dal “coinvolgimento emotivo” per i luoghi.

L’io e la Natura

Viene più volte nominato l’Etna. Il mare da un lato viene descritto nella sua bellezza, ma al tempo stesso anche nella sua terribilità, ricordando le morti dei migranti («Cristo svanisce per il gran marciume», «per il sangue rappreso nei fondali», «per noi e la mancata fratellanza»).

C’è nei suoi versi un Sud magnifico. Franca Alaimo non a caso nota l’influsso di Quasimodo. Come cantava Piero Ciampiil Meridione rugge”. Ciò è vero anche in questa raccolta. Anche se la bellezza è difficile come scriveva Yeats, la Allo riesce a restituirci egregiamente in versi la bellezza della sua terra.

La poetessa siciliana relaziona continuamente il suo io alla natura, si rispecchia spesso nella natura, la sua poesia è innanzitutto conoscenza ed esplorazione del Sé, è percorso di  individuazione. L’autrice scrive l’imprevedibile, l’inafferrabile, l’ineffabile, senza voler rifarsi alla veggenza di un Rimbaud, alla divinazione del simbolismo e del decadentismo, ad un dannunzianesimo di ritorno, ma comunque rimane sempre in attesa di una rivelazione.

Una poesia sintropica

Cerca uno scarto dal senso comune e dal linguaggio convenzionale. Si contraddistingue per la ricchezza lessicale e l’appropriatezza stilistica. Tutto nella sua poesia ha una sua logica ed un suo ordine. Ci sono sostanzialmente due tipi di artisti: quelli che vogliono mettere ordine al disordine e quelli che vogliono aggiungere altro disordine al disordine del mondo.

La poesia della Allo è sintropica in questo senso. Cerca anche l’integrazione (e non l’antinomia) tra istinto e razionalità, ovvero l’espressione più autentica di sé stessa. La poesia della Allo non è riproduzione del reale, ma emanazione, intuizione, rischiaramento.

La scrittura come libertà interiore

Leggendo le sue liriche ci accorgiamo che  all’improvviso un simbolo, una immagine sgorga nell’animo della poetessa ed anche a noi per magia qualcosa ci fa vibrare dentro come una corda.

Talvolta è un’impressione, un dettaglio apparentemente insignificante, un’idea che non si sa dove è nata, però sappiamo che lei sapientemente l’ha fermata. La Allo ci insegna che non si deve scrivere per puro piacere, ma perché è un’attività che può significare l’inizio di una libertà interiore.

Scrivere per la poetessa  significa prendere possesso di sé stessi gradualmente, scoprire sé stessi, conquistare sé  stessi. La sua poesia si pone anche interrogativi metafisici. Esemplare come altre del resto è questa lirica:

Vivere nella nebbia

in un tempo incustodito.

Dove ritrovare ciò che si è perduto?

Su flutti inascoltati scrive memorie

[il mare.

In un grigio silenzio di voci

siamo noi i vivi?

Tendi orecchio al vento:

più ombre che forme in questa terra.

Le foglie cadranno a una a una

come a ogni raffica i rami mancheranno

[di colore.

Ma tu non abituarti mai.

Tendi l’orecchio e ascolta.

Solo nel sapere profondamente

libero in continuo moto

[c’è salvezza.

 

Molti finiscono spesso col fare della metapoesia e del metalinguaggio o per cadere nel poetichese più stucchevole e più ovvio (sentimentalismo, retorica, narcisismo, autocompiacimento).

Abitare le parole

La Allo fa poesia nel senso più nobile e più alto del termine. Il suo non è diarismo consolatorio ed intimismo patetico. La poetessa cerca comunque di abitare le parole, nel modo più confacente alla sua individualità (ed abitare le parole non significa affidarsi esclusivamente all’ispirazione.

L’ispirazione è un falso mito. Prima che qualsiasi opera abbia una consistenza unitaria definitiva molte sono le revisioni: cancellature, aggiunte, tagli). Scrive perché il mondo è vanità e la scrittura è terapia. La sua poesia fa intravedere l’inaccessibilità dell’essere al linguaggio.

Esiste anche una profondità a cui non si può attingere. Mettere in conto questo non significa predicare l’irrazionalismo, ma premettere che da sola la logica non è sufficiente.

Non ha alcun valore e nessuna efficacia la creazione di freddi schemi concettuali, che catalogano la realtà. Esiste il mistero, l’enigma, l’ignoto, che ci irretisce e ci angoscia. Questo la Allo ce lo ricorda magistralmente. La sua poesia è entità autonoma di conoscenza e produzione, di corrispondenza prelogica e preconscia tra l’essenza delle cose e l’essenza dell’animo umano.

Armonia tra forma e contenuto

C’è armonia tra contenuto e forma. Ai giorni nostri non esiste una “morte dell’arte”, ma il prevalere della poetica sulla poesia e ciò comporta una maggiore consapevolezza del proprio fare artistico e talvolta un eccessivo smontaggio analitico delle opere creative.

Ogni aspetto del reale può ispirare, anche ciò che un tempo poteva essere considerato impoetico per eccellenza. Nel Novecento compare all’improvviso l’inconscio con il surrealismo e il paroliberismo dei futuristi: i sintagmi sono in libertà, non c’è alcuna struttura interna.

Nella poesia sembra essere ammesso quello che ordinariamente non è ammesso nella cosiddetta grammatica. Per seguire i flussi di coscienza i poeti del Novecento spesso procedevano per associazioni, frammenti, immagini-frase.

La Allo si dà delle regole, osservandole sapientemente per strutturare anche l’inconscio individuale e collettivo. La Allo parte dal proprio Sé per indagare il mondo. Per capire a pieno le sue liriche bisogna sapere qualcosa di Jung e di Hillman.

Mai come nel corso di questa modernità l’io si è espanso e contratto a dismisura. Pessoa moltiplica il suo io grazie all’utilizzo degli eteronimi, oggi invece la critica letteraria ha ravvisato nella neoavanguardia un fenomeno di “riduzione dell’io”. In altri poeti neolirici si parla di ipertrofia dell’io.

L’io ha confini?

Non si sa bene dove inizino e dove finiscano i confini dell’io. Sappiamo comunque che inconscio individuale, inconscio collettivo, sovrastrutture ideologiche, bombardamenti massmediatici, iper-informazione, sovrastimolazione sensoriale premono sull’individualità di ognuno, su quel grumo di razionalità, sentimento, radici, che dovremmo chiamare io.

Chiamatelo io, coscienza, Sé, anima, mente, cervello. Chiamatelo come volete. È di questo che la Allo ci parla con il cuore in mano, scandagliando da par suo la psiche.

Ricapitolando l’io è in crisi e il mondo si è fatto così proteiforme e cangiante ad ogni minuto che passa, che è un’impresa titanica rappresentarlo totalmente. La poesia della Allo mi ricorda egregiamente tutte queste problematiche.

La tradizione in Maria Allo

Maria Allo riformula efficacemente i codici espressivi della tradizione, dimostrando di conoscere a menadito la  tradizione aulica, i classici, ma le sue liriche non sono mai intessute di preziosismi, latinismi, grecismi. Le sue conoscenze, la sua cultura umanistica è sempre sottintesa.

Non la sfoggia mai. Potrei affermare serenamente che la sua poesia è permeata interamente dal suo classicismo. Eppure non incorre mai in citazioni a sproposito, in echi e rimandi stucchevoli e ridondanti. In lei non c’è mai eccedenza, non c’è nessun surplus.

Tutto questo equilibrio poetico, tutta questa stabilità sono dovuti alla ponderatezza e all’accortezza. Il linguaggio è sempre sorvegliato. C’è un controllo rigoroso della Parola, che è sempre calibrata, regolata.

Di un tratto nel 1900 ecco una miriade strabiliante di innovazioni sintattiche, morfologiche e lessicali. Ecco affacciarsi l’antilirica, se si paragona la poesia moderna a quella dei secoli addietro.

Un’antilirica, che sempre più si disinteressa della metrica e pone tutto il suo interesse nelle poetiche e nell’ampliamento del lessico. La Allo si oppone fermamente a tutti questi dettami della cosiddetta tradizione del nuovo, cioè della neoavanguardia. L’autrice ci riporta alla tradizione, ci riconsegna in chiave moderna la tradizione con l’innesto efficace della psicologia del profondo.

Questa società è fondamentalmente “efficientista”. L’utile ha sempre la meglio sul  bello e sul buono. Eppure i sentimenti e le emozioni sono indispensabili per vivere in armonia con gli altri.

I sentimenti sono indispensabili, nonostante questo il mercato specula sui buoni sentimenti e a scopo di lucro mette in vendita un sentimentalismo deteriore, come quello presente nei romanzi rosa, nei film strappalacrime e nelle canzoni.

Il punto non è provare sentimenti (perché tutti li proviamo), ma saperli esprimere:  solo il soggetto capace di manifestarli può veramente realizzarsi interiormente. Saper esprimere i sentimenti significa ridurre in modo determinante il non detto.

Tra intuizione ed espressione

Per dirla alla Croce perché un poeta sia veramente tale intuizione ed espressione devono coincidere e a mio avviso è quello che accade nella poesia della autrice. Quando Zanzotto scrive dei fosfeni sappiamo che sono una reazione fisiologica degli occhi alla luce, ma anche qualcosa che riguarda la percezione soggettiva.

Eppure Zanzotto è universale. L’autrice descrive i propri stati d’animo ed il suo mondo, oggettivandoli ed è universale anche essa, come Zanzotto. Sappiamo che anche noi proviamo quelle cose e che ci riguardano. La Allo ci rammenta l’Altro. Dimostra nelle sue liriche l’apertura all’Altro. Ci ricorda la tragedia che avviene nel mare. Ci ricorda i migranti senza mai nominarne la parola.

Come ci insegna l’italianista e scrittrice Gilda Policastro spesso le buone intenzioni ed i buoni sentimenti non sono sufficienti per riuscire a fare veramente poesia. A lei arrivavano molti componimenti sui migranti, ma secondo quanto scriveva sulla sua rubrica molti componimenti erano da buttare.

La Allo riesce ad effondere il dolore senza quella che Sanguineti chiamava effusione. Non bastano le buone e lodevoli dichiarazioni di intenti per essere poeti. La poesia autentica come quella dell’autrice non è sfogo né lamento, ma espressione del dramma, rifuggendo la fisiologia della lacrima.

La Allo si innalza, si eleva spiritualmente, controllando sé stessa e le proprie forme poetiche. La poesia dell’autrice è espressione autentica del dolore.

Probabilmente la migliore opera sul dolore è il “De consolatione philosophiae” di Boezio. All’autore malato appaiono prima le Muse (che gli dettano dei versi), poi la donna Filosofia, che per curarlo adeguatamente lo invita a prendere in esame la fortuna e a considerare con equilibrio le lusinghe e le ingiustizie di quest’ultima.

La Filosofia dice a Boezio che solo ai malati la fortuna rivela il proprio vero volto, la propria perfidia, i propri inganni. Naturalmente per vocazione Boezio scaccia le Muse per dialogare con la Filosofia. La Allo invece decide di ascoltare le Muse.

 

Di Davide Morelli

 

 

Quasimodo: tradizione, impegno civile e società di massa desacralizzata

Quasimodo, nonostante le sue sperimentazioni e le sue revisioni stilistiche, fu sempre legato alla tradizione, grazie alla musicalità dei suoi versi e al suo classicismo (non a caso tradusse i lirici greci).

Inizialmente il poeta cantò il mito della Sicilia, la nostalgia e lo sradicamento dalla sua terra; nelle sue prime raccolte rievocò l’infanzia e i paesaggi che lo avevano visto nascere e crescere.

Quasimodo caposcuola ermetico

In quegli anni fu ermetico. Alcuni lo hanno considerato un caposcuola, mentre altri solo un fiancheggiatore di questa corrente letteraria.  Coloro che lo criticano negativamente per questa sua adesione dovrebbero però ricordarsi che erano gli anni della formazione del suo immaginario e del suo apprendistato poetico: non era ancora nella fase della maturità.

L’ermetismo aveva il grande pregio di proporre “la letteratura come vita” e di opporsi all’autoesaltazione, all’enfasi, alla megalomania di D’Annunzio. Alcuni critici però hanno sempre accusato gli ermetici di essere oscuri e di utilizzare un linguaggio allusivo.

Ma Quasimodo anche in questo suo periodo non fece mai un utilizzo eccessivo dell’analogia. Poteva sembrare di primo acchito non totalmente originale, eppure successivamente si dimostrò unico sia dal punto di vista espressivo che per quel che riguarda la visione del mondo.

Il distacco dalla retorica carducciana e dall’estetismo di D’Annunzio

Il poeta seppe distaccarsi dalla retorica di Carducci, dall’estetismo e dall’irrazionalismo di D’Annunzio, dall’intimismo e dalla stanchezza di vivere dei crepuscolari, dall’esaltazione del progresso dei futuristi, dal nazionalismo di altri artisti; il poeta siciliano non scavò mai nella parola e non distrusse il verso come fece Ungaretti.

Non distrusse mai le strutture logiche e sintattiche; non si abbandonò all’estetismo; non si lasciò corrodere dall’autodistruzione e dalla nevrosi; non fu mai preda dell’intellettualismo e ricordo che ad esempio per Croce l’autentica poesia era priva di sovrastrutture ideologiche, di allegorie, di tematiche filosofiche e teologiche.

Quindi secondo i canoni estetici crociani i suoi componimenti erano poesia. Il grande critico letterario Oreste Macrì scrisse un saggio sulla “Poetica della parola” di Quasimodo. Come poeta sono pochissimi coloro che lo giudicano in modo negativo. Come uomo all’epoca alcuni lo criticarono per non aver partecipato alla Resistenza.

Ma come scrisse lo stesso Quasimodo “il poeta modifica il mondo” e non è detto che lo possa fare soltanto con l’impegno politico-sociale, ma lo può fare anche con i suoi versi. Dopo la fase ermetica non scrisse più dell’Eden perduto ma trattò della sofferenza dell’uomo in guerra.

L’importanza della tradizione

Quasimodo dimostrò di saper compiere una evoluzione dal punto di vista umano, affrontando nuove tematiche. Aveva sempre nostalgia di casa, ma non era più il paesaggio siciliano ad avere la meglio: era piuttosto la coscienza civile ad essere presente in ogni lirica.

Il poeta non poteva stare nella sua torre eburnea, ma doveva esprimere sentimenti come solidarietà, partecipazione emotiva, fraternità.

Evitò così di descrivere l’incomunicabilità e divenne forse il più comunicativo dei poeti del novecento, addirittura forse più di Ungaretti: sicuramente uno dei più semplici e più comprensibili a leggersi, il più efficace a descrivere la crisi esistenziale dell’uomo moderno conseguente alla tragedia e all’orrore della guerra.

I suoi messaggi erano chiari ed espliciti.

Come non ricordare la lirica “Uomo del mio tempo”, in cui scrive che l’uomo è sempre lo stesso di quando usava la pietra e la fionda e che ora utilizza le sue scienze esatte per sterminare i suoi simili?

Oppure come scordarsi “Alle fronde dei salici” che necessita di una parafrasi solo se letta da un bambino delle elementari o al massimo delle scuole medie inferiori? Oppure della lirica “Quasi un epigramma” in cui definisce la società moderna come “la civiltà dell’atomo”? Non era forse questa poesia civile?

Quando la poesia si trasforma in etica

Non era questo un lirismo fatto da parole semplici che potevano arrivare a tutti? Ancora memorabili i versi di “Lamento per il Sud” in cui descrive un meridione dove si moriva di stenti e nonostante ciò ancora bello e incontaminato, a differenza di un Nord industrializzato e già inquinato.

La lirica più celebre di tutte è senza ombra di dubbio “Ed è subito sera” perché in pochissimi versi sono rappresentate sia la solitudine dell’uomo contemporaneo che la brevità della vita e lo scorrere inesorabile del tempo.

Il poeta cercò sempre di descrivere l’enigmaticità e il non senso di un mondo sfuggente e colmo di brutture: una società di massa desacralizzata (“senza Cristo”) in preda alla barbarie.

Da ricordare anche che dopo la fine del conflitto mondiale si avvicinò al neorealismo e si mostrò critico nei confronti del boom economico e del consumismo.

Per avere più  chiara la sua poetica bisogna ricordare che fu proprio Quasimodo nel suo saggio “Discorso sulla poesia” a scrivere che “la poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza”.

 

Di Davide Morelli

Vittorio Sereni, poeta dell’incertezza

“Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace fino a quando restano informi”. Così motiva la passione per la scrittura  in versi il poeta Vittorio Sereni (Luino, 1913- Milano, 10 febbraio 1983), morto il 10 febbraio 1983 a Milano, all’età di 70 anni.

Trascorre la sua giovinezza a Luino, luogo che ha lasciato la traccia maggiore nella sensibilità del poeta, oltre i luoghi del Lago Maggiore dove Sereni ne trarrà la sua ispirazione più alta. Nonostante ciò, egli considera Brescia la sua seconda patria, città dove sono emersi i suoi primi interessi letterari anche in seguito alla  lettura del grande poeta del Novecento, Giuseppe Ungaretti.

Nel 1933 Sereni si trasferisce nuovamente, questa volta a Milano. È qui che si laurea in lettere ed entra in contatto con numerosi poeti, tra cui Salvatore Quasimodo. In questi anni raggiunge uno dei primi importanti traguardi: il promettente poeta Carlo Betocchi nel 1937 pubblica due sue poesie sulla rivista <<Frontespizio>>.

Nel 1937, il poeta entra, con Dino Del Bo, Ernesto Treccani, Alberto Lattuada, a far parte della redazione di <<Corrente>> dopo aver collaborato alla rivista <<Letteratura>>. Nel 1940 la rivista si trasforma in casa editrice pubblicando nel ’41 la prima edizione di “Frontiera” ed in seguito la ristampa che porta il titolo di “Poesie”.

Riportiamo la poesia “Le mani”, da “Frontiera”:

Queste tue mani a difesa di te:

mi fanno sera sul viso.

Quando lente le schiudi, là davanti

la città è quell’arco di fuoco.

Sul sonno futuro

saranno persiane rigate di sole

e avrò perso per sempre

quel sapore di terra e di vento

quando le riprenderai.

E ancora In me il tuo ricordo:

In me il tuo ricordo è un fruscìo

solo di velocipedi che vanno

quietamente là dove l’altezza

del meriggio discende

al più fiammante vespero

tra cancelli e case

e sospirosi declivi

di finestre riaperte sull’estate.

Solo, di me, distante

dura un lamento di treni,

d’anime che se ne vanno.

E là leggera te ne vai sul vento,

ti perdi nella sera.

Scoppia in questi anni la seconda guerra mondiale e la notizia del conflitto sorprende Sereni a Modena dove insegna italiano e latino in un liceo. Viene richiamato alle armi con il grado di ufficiale di fanteria e nell’autunno del 1941 è assegnato ad un reparto destinato all’Africa settentrionale. Come egli stesso racconta : “non arriverà mai a destinazione”. Il 24 luglio del 1943 infatti, viene fatto prigioniero a Paceco, vicino Trapani e trascorre due anni di prigionia in Algeria e nell’allora Marocco francese, facendo ritorno a casa soltanto a guerra terminata. Nel 1947 pubblica “Diario in Algeria”; ricordiamo la poesia “Dimitrios”:

Alla tenda s’accosta

il piccolo nemico

Dimitrios e mi sorprende,

d’uccello tenue strido

sul vetro del meriggio.

Non torce la bocca pura

la grazia che chiede pane,

non si vela di pianto

lo sguardo che fame e paura

stempera nel cielo d’infanzia.

È già lontano,

arguto mulinello

che s’annulla nell’afa,

Dimitrios, su lande avare

appena credibile, appena

vivo sussulto

di me, della mia vita

esitante sul mare.

L’esperienza della guerra è stata traumatica per il poeta lombardo in quanto ha demolito il suo  giovanile sogno di speranza e di attese, come dimostra la seguente lirica:

Un improvviso vuoto del cuore

tra i giacigli di Sainte-Barbe.

Sfumano i volti diletti, io resto solo

con un gorgo di voci faticose.

 

E la voce piú chiara non e piú

che un trepestio di pioggia sulle tende,

un’ultima fronda sonora

su queste paludi del sonno

corse a volte da un sogno.

Negli anni seguenti Sereni lascia l’insegnamento per lavorare presso l’ufficio stampa dell’azienda milanese Pirelli, dove rimarrà fino al 1958. Nel 1981 esce dall’editore Einaudi il quaderno di traduzioni “Il musicante di Saint-Merry” e altri versi tradotti dall'”Orphée Noir”, da Pound, Char, Apollinaire, Bandini e Corneille. Il lavoro di traduttore di poesie gli farà ricevere, nel 1982, il Premio Bagutta. Nel medesimo anno Garzanti pubblica “Stella variabile” che gli farà vincere il Premio Viareggio. Il 10 febbraio del 1983 muore improvvisamente in conseguenza di un aneurisma.

La poesia di Vittorio Sereni è stata inizialmente inserita  sia nel modernismo minore (anche per l’influenza di poeti quali Ungaretti e Quasimodo), sia nell’ermetismo fiorentino, mostrando oggetti, situazioni e sentimenti diversamente concreti. Tale visione muta con la prigionia e la guerra: il mondo diventa ai suoi occhi indecifrabile, così come si nota in “Diario in Algeria” (la voce parlante e gli elementi lessicali arcaizzanti servono spesso a distanziare la realtà, mentre il ritmo modulato tra una strofa e l’altra, simboleggia la condizione di prigioniero simile a quella dello stato umano). Ne risulta un lirismo sfocato, esitante ma al tempo stesso che induce alla scelta, al coraggio seppur intriso di angoscia ed incertezza esistenziale. Al senso di inadeguatezza e di smarrimento (che lo accomunano a Montale) sia psicologici che ideologici, Sereni contrappone pochi momenti di gioia, dei veri e propri “scatti” che hanno il volto dell’amore e dell’amicizia, che compensano in parte la  sua delusione  ( soprattutto per il fallimento degli ideali socialisti  e democratici in Italia) e il  suo sentirsi prigioniero della storia. Il poeta incerto non riesce a non sentirsi estraneo nel mondo tanto che affermerà: <<Non lo amo il mio tempo, non lo amo>>.

 Molto impegnativo risulta il libro  scritto nel trentennio successivo ,“Gli Strumenti umani”, dove è reso palese il difficile e tormentato dopoguerra del poeta. È possibile al suo interno individuare ben tre periodi distinti: PRIMO MOMENTO (1945-50), ritorno dalla guerra e voglia di cancellare le brutture del passato; SECONDO MOMENTO (1950-60): si alterna il rimorso per non aver partecipato alla guerra e aver vissuto ai margini della vita e dall’ altro il timore di un nuovo imprigionamento; TERZO MOMENTO (1960-65): impegno civile e chiarezza intellettuale. Quest’ultima, ben visibile anche nel tema dei morti, ossia coloro che possono svelare il senso ultimo dell’esistenza ed incoraggiare il poeta ad andare avanti per riempire quel vuoto che si è formato.

Per desiderio del poeta, sono usciti postumi nell’ottobre ’83 “Gli immediati dintorni- primi e secondi”, “Il saggiatore” e nel 1986 “Tutte le poesie” (Mondadori) a cura della figlia Maria Teresa. Nel novembre dello stesso anno Dante Isella raccoglie con il titolo “Senza l’onore delle armi”, (Scheiwiller, Milano), i testi : “La cattura”, “L’anno quarantatré”, “L’anno quarantacinque”, “Ventisei”, “Le sabbie dell’Algeria”.

Sereni, al quale nel 1956 era stato assegnato il premio internazionale “Libera Stampa” per alcune poesie di cui facevano parte i “Frammenti di una sconfitta”, è stato anche redattore-collaboratore della <<Rassegna d’Italia>> e critico letterario di <<Milano-sera>>.

Numerosi saggi, scritti vari, poesie, sono state pubblicate in <<Paragone>>, <<Nuova Corrente>>, <<Tempo Presente>>, <<Il Menabò>>, e in numerose altre riviste e giornali. La figlia Maria Teresa ne ha avviato la raccolta in volume. 

 

Exit mobile version