Lovecraft, lo scrittore disperato e razzista che annienta il pensiero progressista

Nel corso degli ultimi tempi è riemerso il ciclico, soporifero dibattito sul razzismo di H.P. Lovecraft: con l’uscita di Lovecraft Country e dopo le accuse – francamente incomprensibili – rivolte a George Martin, tante anime belle hanno avuto il piacere di indignarsi nell’apprendere che lo scrittore del New England aveva chiamato il suo gatto “negro”.

Al netto della noia che i farfugliamenti liberal necessariamente suscitano, rimane un’osservazione da fare: se, guardando nella misera, ectoplasmica esistenza di Lovecraft la cosa peggiore ci sembra il razzismo, allora non abbiamo guardato bene. Perché c’è un legame angosciante fra la vita vissuta, la visione del mondo e le opere, una sinergia dolorosa da cui emerge una figura umana inquietante ed emblematica.

Lovecraft è un uomo triste, malato, oppresso dall’ossessiva presenza della madre e spaventato da tutti gli altri. Lovecraft è un ateo materialista che ammette tutte le implicazioni esistenziali di una posizione filosofica così pesante. Lovecraft è soprattutto un mitografo, come Tolkien e diametralmente opposto a Tolkien. Il professore di Oxford compone la mitologia di un mondo cristiano, eroico, un lungo medioevo che all’uscita de Il Signore degli Anelli era già in agonia, oggi è addirittura impensabile; il solitario di Providence, invece, scrive i miti per il mondo che verrà, oltre le ingenuità del positivismo, nutrito dai massacri meccanizzati della Prima guerra mondiale: il mondo in cui ci troviamo a vivere.

La potenza dei miti risiede nella loro verità, che è eterna e prescinde dai fatti: “queste cose non avvennero mai, ma sono per sempre”, con le parole di un altro mitografo, Saturnino Secondo Salustio. Dunque, la mitologia di Lovecraft è un cifrario perfetto per leggere il presente. Il saggio che Houellebecq dedica a Lovecraft ha un titolo icastico: Contro il mondo, contro la vita. L’horror di Lovecraft è l’orrore che si prova per la disgrazia di esistere, per l’umanità, per tutte le cose, filtrato attraverso il lessico del mito. Il suo – innegabile – razzismo è solo una manifestazione del disgusto per l’altro, tanto più ripugnante quanto più lontano dal microcosmo di Providence, a partire dagli immigrati di Chinatown fino agli Dei Esterni dall’altra parte della galassia:

“Pochi esseri sono stati posseduti, penetrati così a fondo, dalla convinzione dell’assoluta futilità delle aspirazioni umane. […] La razza umana scomparirà. […] I cieli saranno freddi e vuoti, attraversati dalla flebile luce di stelle quasi spente. […] Bene, male, moralità, sentimenti? Solo fandonie vittoriane. Tutto ciò che esiste è egotismo”.

Per la teologia manichea dei buoni, un razzista è un razzista e basta. Per chi invece pensa, il razzismo di Lovecraft appare lontanissimo da quello, delirante e mistico, di Alfred Rosenberg, l’ideologo di Hitler che ha scritto Il Mito del XX secolo. A Providence non resta, infine, niente da salvare, nessuna gloriosa palingenesi ariana che libererà il mondo dalle razze inferiori: ci sono solo gradazioni di orrore.

La mitologia di Lovecraft è meno pericolosa di quella nazista, ma anche più disperante. Il pensiero di Lovecraft è, infine, soltanto disperazione. Ed è il nostro pensiero, anche se non lo sappiamo. Azathoth, il caos nucleare, è l’immotivata esplosione del Big Bang; Shub-Niggurath, il capro nero dai mille cuccioli, è l’istinto di procreazione che spinge gli esseri viventi a “moltiplicarsi per morire innumerevoli”; Cthulhu è la gelida lontananza dello spazio, Yog-Sothoth l’inaccessibile assurdità del tempo. Sono tutte incarnazioni del nostro scientismo ateo, che domina il dibattito culturale, che insegniamo ai bambini, che spacciamo per progresso.

Se in Cristo si incarna la millenaria storia ebraica, allora i mostri di Lovecraft scrivono coi loro tentacoli la Bibbia della civiltà occidentale contemporanea. Il fatto è che Lovecraft potrebbe avere ragione. È persino probabile che abbia ragione: vivere non ha senso, non c’è niente dopo la morte, siamo soltanto elettricità che corre cieca nel labirinto dei neuroni. L’orrore lovecraftiano sta tutto qui, in ciò che è vero e al tempo stesso inaccettabile. I personaggi di Lovecraft, spesso professori e accademici, scoprono che l’uomo non conta nulla di fronte a potenze primordiali e invincibili, che la ragione non può rendere conto di una realtà senza logica, che l’intero universo è “invenzione di un non-dio la cui malvagità supera l’immaginazione”, come scrive Agota Kristof. La conseguenza è la follia, o il silenzio.

Se si pensa come Lovecraft, allora non si può che vivere come Lovecraft. Diventa, quindi, imbarazzante il contrasto fra lo scrittore eremita e le nostre rockstar dell’ateismo – gente come Dawkins, Pinker, Odifreddi. Diventa nauseante questa melassa di illuminismo scaduto e superomismo capito male che passa per pensiero, offensiva la serenità che “colpisce il dolore accumulato e privo di parole”. Se noi cresciamo con la favola che Dio non serve più perché possiamo essere felici anche senza, Lovecraft muove il suo attacco alla religione dalla parte opposta:

“Vedo che nella vostra filosofia la verità ha un posto minuscolo […]. Nella vostra mente, l’uomo è al centro di tutto, […] l’unico problema dell’universo”.

 

Lovecraft, lo scrittore triste e razzista che annienta il pensiero progressista – Pangea

L’ONU ci salverà dal razzismo dilagante in Italia!

10 settembre 2018: ci siamo risvegliati in un paese razzista. Invano La Repubblica e il Corrierone ci avevano messo in guardia dal nefasto ritorno agli anni Trenta; inutili gli appelli dell’Opposizione democratica, dei grandi media e delle ong contro il Governo gialloverde e fascistissimo. Siamo stati ciechi, sordi agli accorati avvertimenti di questi profeti novelli: il ducetto Salvini è andato a risvegliare nell’inconscio di noi italiani tutti i nostri più orrendi e reconditi sentimenti d’odio razziale. Satana ha vinto, siamo peccatori. Non ci resta che aspettare il Messia per la nostra redenzione. Ed ecco che nell’alto dei cieli dell’ONU arrivano le urla imploranti dei profeti, tanto fischiati e disprezzati dal popolino ignorante che si lascia incantare dal demonio, e ci si accorge finalmente di questa Italietta sporca, sudicia e razzista. Così Michelle Bachelet la Misericordiosa, Alto commissario Onu per i diritti umani, ha dato il lieto annuncio della venuta degli Arcangeli dal casco blu: «Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom».

È tutto perfetto: è il frame dei più buoni. Un – fintissimo ed ipocrita – umanitarismo sfrenato per andare a incipriare un discorso prettamente politico: «Il Governo italiano ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili […] Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell’anno ancora più elevato rispetto al passato».

Sono le scelte del governo in politica migratoria a non andare bene; i no agli scafisti e alle Ong; quello della Bachelet è solo l’ennesimo avvertimento. Per questo l’Italia viene accusata ingiustamente di razzismo: un intero popolo viene omologato a fatti di cronaca a sfondo – talvolta presunto – razzista, che sono ben presenti, ma vengono amplificati e sfruttati ad arte dai media per creare inutili allarmismi, attaccare il governo e, soprattutto, il vicepremier Matteo Salvini. Quello della Bachelet altro non è che l’ennesima interferenza, l’ennesimo sprezzante giudizio sulle politiche salviniane; poco importa se, come replicato dalla Farnesina, «si riscontra una riduzione del 52% delle vittime di naufragi nel Mediterraneo, dall’inizio del 2018, rispetto allo stesso periodo del 2017. […] E che i nostri sforzi, umanitari, politici, diplomatici, finanziari, materiali, abbiano determinato la contrazione dell’80% degli sbarchi di migranti sulle coste italiane e dunque, europee, negli ultimi 12 mesi». Poco importa se le forze dell’ordine smentiscano l’allarme razzismo: l’Italia è all’improvviso diventata razzista e i caschi blu ci devono salvare.

 

Alessandra Vio

I truffatori dell’antirazzismo e la sinistra morente salvata dalle uova

Una bravata di alcuni ragazzotti imbecilli nel notturno torinese che ha preso di mira diverse donne tra cui Daisy Osuake, atleta italiana di origine africana, si è trasformata nella punta dell’iceberg di un presunto odio razziale che sta divorando il Paese. I carabinieri per ora stano escludendo il movente xenofobo eppure la recuperazione politica è già in atto per colpire il governo giallo-verde, ritenuto complice e mandante di questa artificiosa ricostruzione dei fatti.

Il razzismo che si traduce in azioni concrete esiste, ma è nella testa e nelle gesta degli piscolabili, che sono pochissimi in Italia, e di certo non rappresentano l’anima profonda del nostro popolo. Il razzismo reale non ci appartiene. Per storia, cultura, geografia. Noi italiani siamo mediterranei, persone semplici, ospitali, a modo nostro, verso tutti gli stranieri, che non abbiamo mai amati né disprezzati, ma rispettati sulla base della decenza comune, quelle regole non scritte di convivenza che hanno caratterizzato una terra di passaggio, un crocevia straordinario di popoli, clan e tribù. Quel fatto di cronaca a Isola Capo Rizzuto che ha visto i bagnanti calabresi soccorrere 56 migranti in spiaggia, racconta perfettamente lo spirito descritto sopra. Del resto anche alla base della crescita elettorale di Lega e del Movimento 5 Stelle non c’è l’emergenza immigrazione (o addirittura “sostituzione etnica” paventata da alcuni) ma la paura di un ulteriore impoverimento della classe media, i cosiddetti sconfitti dalla globalizzazione.

Eppure l’agenda politica insegue i flussi migratori insieme al problema della disoccupazione (vera priorità del Paese). Il rischio è quello, come hanno fatto negli Stati Uniti, in Francia e Inghilterra, di delegare il tema dell’integrazione agli intellettuali – per altro tutti bianchissimi, e non a caso nessuno di loro figlio di immigrati – e dunque alle associazioni, ai giornali e alle istituzioni, invece di lasciare alla strada la facoltà di auto-gestirsi e auto-regolarsi. All’italiana.
Perché è la cultura dell’anti-razzismo in assenza di razzismo ad aver creato negli ultimi decenni in questi Paesi i ghetti, le banlieues, gli slums monoetnici, delineando i confini urbani e non, di un potenziale conflitto sociale, che come controparte, nell’altra barricata, viene alimento da una narrazione sul pericolo di invasione in assenza di invasione. L’Italia è luogo di arrivo ma nella maggior parte dei casi – e lo dicono i numeri – non è quasi mai luogo di insediamento. Eppure rischia di diventarlo se l’Europa continua a scaricarci il barile e a omettere il gioco sporco di alcune ONG. Invece di inseguire dunque modelli occidentali fallimentari (il comunitarismo anglosassone, il modello assimilativo francese, il meeting pot statunitense, ecc.) e aizzare i nuovi arrivati contro gli italiani (e in un domani gli italiani a considerare i nuovi arrivati dei corpi estranei alla società) occorrerebbe raccontare ai cosiddetti “immigrati regolari” l’Italia nella sua natura più intima: mediterranea, ospitale, genuina. Questa è la forza del nostro sistema di integrazione che in nessun modo dovrà essere intellettualizzato da chi fa dell’anti-razzismo uno strumento ideologico per ricompattare il fronte anti-sovranista e puntare allo stesso tempo il dito contro “l’italiano medio” a cui hanno imposto un’immigrazione massiva senza che questa gli portasse reali benefici economici (aldilà di una solidarité réclame sbandierata dalle “zone protette” in perfetto stile neo-coloniale).

Nel 2018 può avvenire anche questo, se si buttano nel calderone diversi innocui elementi, tra cui una macchina, un mentecatto che lancia uova e un’atleta italiana di origine africana, vittima incolpevole dell’idiozia d’un singolo, allora tale calderone diventerà una bomba ad orologeria, pronta ad esser fatta detonare da quelle stesse personalità, politiche e mediatiche, che lo scontro interrazziale vorrebbero disinnescare. O meglio, ciò è quello che vien detto a parole. Nei fatti, se parliamo di convenienza politica, al Partito Democratico e ai suoi derivati, derelitti oramai privi di qualsiasi progetto politico a lungo termine, farebbe senz’altro comodo se avvenisse un agguato al giorno, come quello di cui è stata appunto vittima Daisy Osakue. Tanto più se pensiamo che il fattaccio è avvenuto in concomitanza con la carismatica presa di posizione di Maurizio Martina, che per contrastare le folli scelte salviniane ha annunciato una manifestazione antirazzista che si terrà a settembre, da realizzarsi con tutti i mezzi possibili (anche i soldi dei contribuenti) affinché rimanga scolpita nella memoria collettiva e giunga fino ai posteri. Pensateci, tra vent’anni si parlerà ancora di Maurizio Martina e della marcia (antirazzista) su Roma: perfetta sintesi tra epica e praxis rivoluzionaria.

Tuttavia, per pubblicizzare ancor più prepotentemente la manifestazione che decreterà senz’altro la fine di Salvini, serviva un bel pretesto. Uno di quei casus belli da mettere in vetrina e da usare come giustificazione universale da qui ai prossimi due secoli. Ed eccoci di nuovo al caso di Daisy Osakue. Basta poco, come dicevamo: prendete una bella pentola, metteteci un’auto, un uovo, un esimio cretino e un’atleta di origine africana. Passate poi il tutto all’interno della cassa di risonanza dei media nostrani ed otterrete un (non) caso montato ad arte, argomento perfetto di cui disquisire a Capalbio coi vostri amici veramente poco proletari, oltre che movente dannatamente perfetto per tirare le orecchie a Matteo Salvini. Poco importa se la polizia ha abbandonato sul nascere la pista razziale, visto che nei giorni precedenti erano già stati denunciati a Moncalieri diversi lanci di uova contro i passanti. Oramai la tavola è imbandita, i commensali sono già seduti e affamati e dal pentolone sale un ottimo odore di fake news da dare in pasto all’opinione pubblica. Non possiamo deluderli, non sia mai.
E lasciamoli allora banchettare con quel poco che gli dona sollievo e gioia, con le verità false, falsissime dentro le quali trovano ristoro. Non ci resta altro che questo, osservare a bordo del ring il Partito Democratico che, come un pugile suonato e oramai messo all’angolo, cerca disperatamente di cingere in un abbraccio il proprio avversario per provare a rifiatare un attimo, per sopravvivere qualche minuto in più alla scarica di colpi e raggiungere la fine dell’ennesimo round. Lasciamo quindi che riprendano fiato con questi mezzucci, poiché sul piano politico l’incontro è già segnato: il Partito Democratico è sul punto di stramazzare al suolo.

 

Sebastiano Caputo, Matteo Persico

Da Virzì a Balotelli, inventarsi un’arte: come, quando e perché si è preso a trattare il film come oggetto artistico, il divo come maître à penser e il regista come autore

Virzì è stremato, non sa più con quali nuove formule lessicali esprimere il proprio disgusto verso chiunque. Eppure continuano a tartassarlo. Lo intervistano, facce ride sembrano dirgli, e lui stanco esegue come chi ha ripetuto troppe volte la stessa barzelletta: quello è fascista, quest’altro razzista, questo qui neonazista e quello mi sta antipatico per fatti miei. E giù applausi. Loro chiedono, lui legittimamente replica e dice apertis verbis quello che pensa. A puntare il dito contro uno che risponde a delle domande – specialmente nel caso di specie – si registra però l’ennesima adesione di certi ambienti al solito orientamento politico e intellettuale, senza procedere oltre. Per farlo andrebbe ricercato il motivo per cui il suo giudizio venga imposto in maniera così autorevole nonostante un’opinione pubblica collocata ormai da tempo su posizioni opposte. Semplice: fa i film, è un artista, si dirà. Sì, e con questo? Cos’è che rende un professionista dell’estetica un filosofo, un analista politico, un sacerdote?

Le recenti critiche di Balotelli e Corona ai nuovi ministri sono state prese ovunque a pernacchie non tanto per il contenuto quanto per il ruolo che ricoprono nella nostra gerarchia di rispettabilità. Mica vorremo farci spiegare le cose serie da un calciatore e da un paparazzo. Però all’opinione personale di un regista diamo credito, e anche se questo ricicla banalità e inesattezze scendiamo sul suo terreno di gioco e lo discutiamo nel merito, quantomeno legittimandolo, rendendolo cioè un interlocutore. Il suo giudizio – così come quello dell’attrice x sul conflitto siriano e dello sceneggiatore y sulla democratica elezione del dittatore di turno (sic!) – vanta una tale onorabilità a seguito di un lungo processo di intellettualizzazione del cinema partito prima nel vecchio continente e poi consolidatosi definitivamente alla fine degli anni Sessanta in America. Il risultato è sotto gli occhi di tutti da un pezzo: i professionisti più in vista del mondo cinematografico non possono non avere opinioni su questioni intricate anche per chi se ne occupa di mestiere, ed è allora normale ripiegare sulla versione mainstream, più legittimata e spesso più semplice, benché qualcuno faccia eccezione.

Risalendo alle origini si nota che in Europa l’assenza di una consolidata industria cinematografica ha sempre lasciato aperta la porta all’autorialità, spianando dunque la strada a quell’intellettualizzazione cui si faceva cenno, mentre negli Stati Uniti il cinema è passato già negli anni Venti da mezzo tecnico capace di duplicare il mondo meglio ancora della macchina fotografica a strumento in mano a banche e imprenditori al fine di intrattenere le masse. In un tale contesto lo statuto artistico della pellicola non è nemmeno un’opzione immaginabile: si produce per generi in modo da agevolare tanto chi realizza i film quanto chi li guarda, si nasconde il più possibile il soggetto dell’enunciazione quasi a fingere che il film emerga dal nulla e si specula sulle vite private dei divi per alimentare il baraccone.
Tutto è funzionale al consumo e al rapido adattamento ai gusti che mutano, così i registi eseguono ciò che lo studio ha chiesto loro e si prestano a qualsiasi tipo di produzione, da quella riempitiva a quella più ambiziosa. Il fine è sempre e solo l’incasso. Il film è difatti per natura il mezzo di intrattenimento mercificato intrinsecamente, non soltanto quindi a partire dalla sua distribuzione, poiché le parti stesse che lo compongono (sceneggiatura, costumi, colonna sonora) sono a loro volta commercializzate, rendendo la pellicola l’incubo ricorrente di chi denuncia una generale svendita della cultura. In altre parole, le opinioni personali dei vari Ford, Capra, Hawks e Wilder non riempiono i giornali degli anni Quaranta, e non li riempiono perché a nessuno importano. Il film è industria e filosofeggiare non è il mestiere di chi lo realizza.

Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, ‘servo umilissimo’, e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi chiamano per nome i capi di governo […]
(Adorno e Horkheimer)

Lo scenario muta col secondo dopoguerra. Il cinema classico va in soffitta e una ventata artistica modifica lentamente la percezione del film fino agli anni Sessanta citati. I registi della Nouvelle vague con la loro Teoria dell’autore iniziano a diffondersi anche negli Stati Uniti, dove la Tv ha già preso il posto del grande schermo come mezzo privilegiato dalle masse, il cinema entra nel discorso accademico, i festival ribadiscono la sua natura artistica, il pubblico diventa giovane e scolarizzato e la critica utilizza artifici retorici per elevare il proprio oggetto di lavoro. Tra tutti i fattori è senza dubbio l’ultimo a contribuire più degli altri all’attribuzione di uno statuto artistico al prodotto cinematografico, riabilitando quei registi della Hollywood classica e convertendoli da mestieranti in autori, per poi creare nelle decadi successive una generazione di attori-intellettuali e cineasti-filosofi.

Il caso di Hitchcock è in questo senso uno dei più significativi proprio perché figlio tanto di un lavoro personale sulla propria reputazione quanto dell’idolatria di quei critici francesi che poi diventeranno i registi sulla bocca di tutti. Le sue interviste a Truffaut lo rendono un mostro sacro, e quando i suoi ultimi film escono nelle sale già molti studenti hanno letto saggi accademici che lo riguardano, i musei d’arte contemporanea proiettano le sue vecchie pellicole e lui si diverte ad alimentare aneddoti, a realizzare backstage e ad ammiccare al linguaggio del cinema europeo più autoriale. È qui che i nuovi critici sfoderano un repertorio di artifici retorici capaci in pochi anni di elevare qualsiasi pellicola ad arte. Shyon Baumann ne individua alcuni:
1) Trattare il film come un testo complesso, cercare cioè il buono anche nella pellicola più deludente e il punto debole in quella più riuscita;
2) Trovare significati impliciti, sintomatici o volontariamente nascosti;
3) Chiamare in causa direttamente il regista all’interno della recensione e personificare il film;
4) Paragonare il regista ad altri suoi colleghi e il suo lavoro ad altre filmografie, in modo da rintracciare o creare artificialmente una rete di riferimenti;
5) Insistere con termini come opera e autore, e contribuire a creare un linguaggio specifico e autonomo.

Con gli anni Settanta questa impalcatura sarà consolidata dalla fondazione di numerosi festival che non faranno che alimentare l’idea del regista come un genio creativo e dell’attore sempre meno divo e più personaggio da interrogare su qualunque argomento complesso. Tutti diventano artisti impegnati e tutti giocano a farlo, il festival diventa tanto arbitro di chi possa essere autore quanto dispositivo che per la propria sussistenza spaccia tutto per arte, dal film che realmente lo è a quello puramente industriale. Ed ecco che torniamo al nostro cineasta livornese, regista di commedie di successo interrogato negli studi tv e nelle redazioni dei giornali come fosse, in quanto regista, depositario di riflessioni interessanti. L’impressione è che se non fosse per un tale, mostruoso, enorme e bellissimo apparato paratestuale, le opinioni degli operatori del cinema cadrebbero nel nulla come quelle del giocatore di calcio sopra citato.

Quando ancora questi avevano voglia di giocare in estate, per esempio, qualcuno chiese a quello più forte cosa pensasse dei colleghi omosessuali. Gettata l’esca, lui abboccò col fare ruspante di chi non segue la sensibilità del proprio tempo. Figuraccia doveva essere e figuraccia fu. Al contrario, cineasti e attori vengono imbeccati per dire ciò che pensano (o che credono sia giusto pensare) e far la figura degli impegnati, mentre il calciatore lo è per essere messo in difficoltà: chissà cosa ne pensa è la matrice della domanda nel primo caso, chissà come la spara grossa nel secondo. Al netto del finto statuto autoriale di alcune produzioni molto commerciali e poco artistiche – che comunque tengono in piedi economicamente i deliri art house del cinema d’essai – viene da rilevare più genio creativo nel lavoro di Balotelli che in quello di certi attori e registi, per cui o respingiamo le opinioni di entrambi in quanto giudizi poco autorevoli – tanto quella di chi tira il pallone da mane a sera quanto quella di chi filma delle scene da ridere – o le prendiamo sul serio tutte e due ed eventualmente le mettiamo in discussione sullo stesso piano. La terza e più probabile alternativa è quella che ci vede continuare con la manfrina dell’opera e dell’artista anche laddove – per fortuna – vi è solo intrattenimento ben applicato ai codici del cinema. Il giochino probabilmente continuerà: nuovo giro, nuova batosta elettorale/guerra/provvedimento politico, nuova intervista-oracolo all’attore sulla cresta dell’onda.

 

Alessandro Fiesoli

Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti, ipocriti quanto l’ideologia che sostengono

Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giugne in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero.

Nel 1993 si iscrive alla Lega Nord, all’epoca movimento politico a carattere regionale mirante alla secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia e ad una rivoluzione fiscale basata sul federalismo. Come nel mondo del lavoro, ugualmente Iwobi colpisce e fa carriera anche nella politica, soprattutto quando il partito inizia a perdere i suoi caratteri originari per tentare di diventare una forza nazionale facendo leva sull’euroscettiscismo, sulla minaccia dell’immigrazione incontrollata e sulla difesa dei valori e dell’identità cristiana del Vecchio Continente dal relativismo culturale del liberalismo e dall’estremismo islamico. Il colore della pelle di Iwobi non è mai stato un problema per quello che viene descritto come il principale partito xenofobo del paese, sia in Italia che all’estero, ma anzi viene visto come un elemento di forza: Iwobi raffigura lo straniero che ce l’ha fatta, partendo dal nulla e aiutato solo dalle sue capacità, che si è integrato e ha accolto positivamente valori, costumi e tradizioni del paese in cui ha scelto di vivere, l’immagine perfetta per un partito che viene periodicamente accusato di propagandare idee razziste ed alimentare tensione sociale tra le comunità etniche e religiose presenti nella nazione.

Dal 1993 al 2014 è ininterrottamente consigliere comunale a Spirano, una piccola città del Bergamasco, un decennio nel quale le sue posizioni politiche, specialmente sull’immigrazione, raccolgono l’attenzione dei leader del partito e nel 2014 viene designato responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza della Lega Nord su iniziativa di Matteo Salvini. C’è Iwobi dietro alcuni slogan di successo utilizzati dal partito, diventati dei veri e propri tormentoni elettorali, come ‘Aiutamoli a casa loro!‘ e ‘Stop invasione!‘ e al programma riguardante la regolamentazione dell’immigrazione dai paesi extraeuropei, basato sull’applicazione di misure per la selezione e la scrematura delle richieste di permessi umanitari e di soggiorno, sul rimpatrio di tutti quegli immigrati clandestini sbarcati in Italia negli ultimi anni le cui domande d’asilo sono state rifiutate, sulla chiusura dell’accesso ai migranti economici.

L’elezione di Iwobi a senatore della Repubblica italiana – il primo di colore in assoluto – alle recenti elezioni ha scatenato l’ira e l’ironia sui social network, tra i politici e tra il panorama dei vari antirazzisti riciclatisi pseudo-intellettuali dell’ultima ora per deridere la sua candidatura con la Lega Nord. Il clamore suscitato dall’evento ha persino attirato l’attenzione di importanti media globali, come The Guardian, El País, Independent e Times, che ne hanno tratteggiato una breve biografia e raccontato le motivazioni della sua affiliazione ad un partito anti-immigrazione. Addirittura il calciatore Mario Balotelli ha provocatoriamente chiesto, via Instagram, a Iwobi se si fosse accorto d’essere nero; l’ex ministro dell’integrazione Cécile Kyenge ha dichiarato, invece, che l’evento non intacca minimamente la natura razzista della Lega, mentre su Facebook impazzano immagini satiriche che comparano l’accoppiata Iwobi-Salvini alla DiCaprio-Jackson del film Django Unchained.

Un negro di casa come Stephen, lo schiavo domestico della tenuta di Calvin Candie, così la superiore satira liberal ai tempi di Facebook ha dipinto Iwobi, ossia un fratello che – ripercorrendo il pensiero di Malcolm X – si è svenduto ai bianchi, di cui appoggia lotte e rivendicazioni nella convinzione che ciò lo aiuterà ad essere accettato nella società bianca. È proprio in questi momenti che emerge il vero volto delle nuove sinistre occidentali, affiorate nel dopo-guerra fredda come le più importanti manifestazioni politiche della nuova élite borghese globalista; sinistre che hanno vergognosamente abbandonato ogni riferimento al proletariato e alla difesa della classe operaia.

Da anni la propaganda di una certa sinistra martella l’opinione pubblica sulla necessità di una politica fortemente immigrazionista, tuonando slogan come ‘Faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!‘ o ‘Ci pagheranno le pensioni!‘. Flussi migratori costanti e continui nel tempo come un rimedio alla denatalità e alla carenza di manodopera dequalificata a basso costo, anziché politiche incentrate sull’aiuto alle famiglie e su una reale alternanza scuola-lavoro, questo propone la sinistra, accusando poi di razzismo chiunque ritenga che l’afflusso di milioni di persone provenienti da contesti culturali profondamente differenti – senza un’adeguato meccanismo di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, possa alimentare tensioni sociali, il mercato del lavoro nero e la criminalità.

L’assenza di un modello d’integrazione o, meglio, l’assenza di una reale volontà di integrare gli immigrati, ha portato alla proliferazione di ghetti etnici, di no-go zones, all’esplosione della microcriminalità e a sempre più frequenti rivolte razziali. Scenari di disordine ed anarchia che da decenni irrompono nella quotidianità di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia, mai apparsi in Italia, ma a cui il paese dovrebbe iniziare ad abituarsi a meno di un cambio di rotta nel modo di pensare l’integrazione e la convivenza tra etnie e culture. La risposta dei partiti e dei centri sociali di sinistra all’omicidio di Pamela Mastropietro ad opera di un gruppo di nigeriani legati al sottobosco malavitoso di Macerata è stata un corteo antifascista ed antirazzista nel quale i manifestanti hanno lanciato invettive contro i partiti di destra, l’intolleranza e le forze dell’ordine. Un episodio che dovrebbe far riflettere sulla totale alienazione della sinistra dalla realtà e che spiega l’emorragia di voti dal Partito Democratico a partiti anti-sistema come Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Iwobi è solo uno dei tanti nuovi italiani che ha preso atto dell’insensatezza delle politiche open borders e refugees welcome sostenute dalle nuove sinistre occidentali, che hanno soltanto esacerbato un clima già teso a causa della decennale crisi economica e delle tensioni inter-etniche causate dal fallimento dei progetti multiculturalisti in salsa anglosassone e scandinava.

Confindustria, Tito Boeri, Emma Bonino, Laura Boldrini, Paolo Gentiloni, Alessandro Cecchi Paone, Roberto Saviano, tanti coloro che hanno pubblicamente dichiarato di vedere l’immigrazione come una soluzione ai problemi demografici e lavorativi del paese. Nell’immaginario della sinistra l’immigrato ideale dovrebbe costruire famiglie numerose per ripopolare l’Italia (in pratica una sostituzione etnica, ma guai a dirlo) e fare lavori umili, precari e sottopagati come raccogliere pomodori nelle piantagioni del Sud Italia – citando la Bonino, e ovviamente essere ideologicamente allineato a sinistra.

Alla luce di queste cose è facile comprendere perché contro Iwobi sia stata lanciata una campagna denigratoria, oltre che razzista: lo straniero che si integra e non si accontenta dei lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma che attraverso le sue capacità si eleva socialmente e vede nell’accoglienza indiscriminata un male per tutti quegli stranieri onesti che a fatica hanno ottenuto dei meriti, è scomodo, non è stato manipolato dal miraggio dell’antirazzismo, quindi è un suffragio perduto.

No, Iwobi non è un negro di casa, e neanche di cortile, è molto più italiano e fiero di esserlo di tutti quelli che si stanno divertendo a denigrarlo, a ritenerlo un burattino dell’uomo bianco ed un venduto, e il suo ‘Aiutamoli a casa loro!‘ non è un’offesa, ma quello che l’Occidente dovrebbe finalmente iniziare a fare dopo anni di politiche neo colonialiste ed imperialistiche nel Sud globale che hanno portato al saccheggio di risorse naturali, al sostegno verso sanguinose dittature militari e a guerre per procura volte all’accaparramento di metalli rari e preziosi che sono alla base dell’odierna crisi migratoria.

 

L’intellettuale dissidente

‘Men of Honor’: razzismo e senso dell’onore nell’America degli anni ’50

Non mollare mai… sii sempre il migliore, questa è la frase con la quale Mac Brashear congeda suo figlio Carl il giorno in cui parte dal loro paesino di campagna per entrare in marina. Si tratta del monito che segnerà la vita e la carriera del primo capo palombaro afroamericano della marina militare statunitense, una storia vera che ha ispirato il film del 2000 diretto da George Tillman Jr. Men of Honor. Il cast vanta Robert De Niro, nel ruolo di Billy Sunday, Cuba Gooding Jr, che interpreta il protagonista Carl Brashear, Charlize Theron, nel ruolo di Gwen Sunday, e Aunjanue Ellis, nei panni di Jo Brashear.

Men of Honor: la speranza degli ultimi

Men of Honor racconta non solo la carriera e le difficoltà di Carl Brashear nel farsi strada nel mondo della marina nonostante i pregiudizi razziali dell’America degli anni ’50, ma anche il rapporto fra Carl e il suo istruttore Billy Sunday. I due, dapprima in disaccordo viste le convinzioni razziali di Sunday, diventeranno col tempo grandi amici, tanto che nel periodo di maggior sofferenza per il protagonista, quando gli viene amputata la gamba in seguito a  un incidente in mare, Billy sarà il suo punto fermo, l’istruttore che ha saputo spronarlo a dare il meglio di sé e a non mollare mai. Billy andrà oltre i suoi pregiudizi e vedrà in Carl il migliore allievo mai avuto, mettendo da parte per lui il suo carattere difficile e spalleggiandolo durante la sentenza del tribunale militare per riammetterlo in servizio nonostante l’amputazione. Eppure il rapporto fra i due all’inizio sembrava caratterizzato da una distanza incolmabile, come si può notare da questo frammento di dialogo fra Carl e Billy: Aveva ragione, io e lei non abbiamo niente in comune! Io sarò pure un povero stupido negro di campagna ma almeno cerco di migliorare, lei invece è rimasto il piccolo uomo che è, odioso e insignificante! Senza la tuta da palombaro lei non è che un bastardo, un fallito che una volta era qualcuno! 

Un altro rapporto fondamentale in Men of Honor, per comprendere la trama e il messaggio di speranza contenuto in essa, è quello fra Carl e suo padre. I due si salutano per sempre all’inizio del film, il padre sprona il figlio a dare il massimo e a farsi valere nella vita poco prima della sua partenza per arruolarsi in marina, un monito che Carl ricorderà per tutta la vita, provando a non deludere l’uomo neppure dopo la sua morte.

Men of Honor racconta uno spaccato della società americana dal secondo dopoguerra al periodo del boom economico, in cui le differenze razziali erano ancora evidenti, soprattutto nell’ambito professionale. Il messaggio del film da speranza a chi crede di non aver voce, a chi è sempre stato messo da parte e non ha mai avuto il coraggio di ribellarsi, è un monito a lottare nonostante tutto per ciò in cui si crede. Per Carl Breshear quel “qualcosa” era l’onore.

Il film è stato subito un grande successo al botteghino, incassando poco più di 82 milioni di dollari, e anche della critica, ricevendo due nomination ai Grammy Awards nel 2002, tre agli Image Awards nel 2001, tre nomination ai Black Reed Awards nel 2001.

 

‘Il Diritto di contare’: il trionfo delle donne in una pagina sconosciuta della NASA, dall’8 marzo al cinema

Per celebrare la forza e la caparbietà delle donne, l’8 marzo debutterà nelle sale italiane Il Diritto di contare con la regia di Theodore Melfi. Il film è basato sul primo libro della scrittrice Margot Lee Shetterly intitolato “Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”. Al centro della pellicola la storia di tre donne afroamericane di eccezionale intelligenza costrette, a causa dei pregiudizi razziali, ad insegnare matematica in scuole per “neri”. La protagonista Katherine Johnson (interpretata da Taraji P. Henson), grazie alle sue capacità nel settore scientifico e matematico, sarà pronta a collaborare con l’industria aeronautica americana durante la seconda guerra mondiale. Ma in questa avventura non sarà da sola, al suo fianco le amiche e colleghe di vita Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe), insieme alle quali cambierà il destino degli Stati Uniti.

Il diritto di contare: Le afroamericane alla conquista dello spazio

Chiamate a lavorare per la Nasa le protagoniste, con non poche difficoltà, riusciranno a far trionfare gli americani nella corsa allo spazio contro L’Unione Sovietica. Infatti è, grazie a persone come loro, che le missioni dei grandi astronauti come John Glenn, Neil Armstrong ecc. sono state portate a termine ed hanno avuto i successi che tutti oggi conosciamo. Tema centrale del film è sicuramente la lotta contro le discriminazioni sessuali e razziali. Le tre protagoniste incarnano perfettamente i principi e gli ideali che inaugureranno la lotta per la parità di diritti. Aiutate in questa battaglia da Al Harrison (interpretato dal pluripremiato Kevin Costner), capo del team della Nasa che pianifica insieme ai suoi collaboratori di mandare l’uomo in orbita. Sarà proprio lui, infatti, a comprendere il genio delle tre donne e a portare avanti il progetto nonostante tutti gli ostacoli incontrati. Partecipano al film altri volti noti come quelli di Jim Parsons (Sheldon Cooper in “The Big Bang Theory”) e Kirsten Dunst (diventata famosa per la sua interpretazione di Mary Jane Watson nella saga “Spider Man”) che, a differenza degli attori precedenti, interpretano due personaggi fittizi. Elemento non di secondo piano è la colonna sonora, anche qui compaiono firme interessanti come quella di Pharrell Williams, Alicia Keys, e Mary J.Blige che contribuiscono al progetto con 10 brani inediti.

Si spera che il regista Theodore Melfi famoso per diversi cortometraggi come “The Story of Bob” (2005) circa un uomo gay che vive sulla luna e “Roshambo” (2010) su tre atleti che si scontrano per vincere la gara della loro vita, e per il musical “St. Vincent” (2014) grazie al quale ha ottenuto numerose nomination a premi importanti, tratti un argomento di tale levatura ponendolo in evidenza con un film di altrettanto valore, appassionante e non melenso, sebbene certamente la qualità più grande de Il diritto di contare sarà quella di far conoscere in maniera convenzionale una pagina sconosciuta della NASA, pagina coniugata fino ad oggi al maschile.

‘Le digressioni del cuore’: l’esordio di Luca Barbanti

Le digressioni del cuore (Edizioni Epsil) è il romanzo d’esordio di Luca Barbanti, classe 1992.

Le digressioni del cuore di Luigi

La vita di Luigi De Stradi, trent’anni, romano, prosegue tranquilla fra il lavoro in hotel e la frequentazione con Giulia, quest’ultima destinata a tramontare a causa del prossimo trasferimento della ragazza in Galles per fare del volontariato. Come se non bastasse questo cambiamento radicale nella sua vita, interviene un’amica di vecchia data, Faysa, la quale chiede al protagonista il più difficile dei favori: occuparsi per qualche tempo di suo figlio Issah, nato dal matrimonio della donna con un italiano. Lei infatti deve tornare in Nigeria per lavoro e non può portarlo con sé a causa dei pregiudizi razziali del padre; il marito, inoltre, è una persona violenta e incapace di prendersi cura del figlio.

Luigi si ritrova dunque con un bambino che ha subìto forti pressioni psicologiche da cui è uscito insicuro, disorientato, vittima di bullismo razziale da parte dei compagni di classe. Dopo un primo scontro, i due diventano però amici, al punto che Luigi arriva a combattere in prima persona le battaglie del piccolo Issah e a insegnargli il rispetto di sé e la cura del prossimo.

Le digressioni della trama

Le digressioni del cuore è un romanzo solo in potenza e su diversi fronti. I temi trattati sono tipici del genere di formazione: abbiamo a che fare con la genitorialità, il passaggio verso la fase adulta, i rapporti interpersonali. Ma quasi tutti questi temi – così come molti altri sotto-temi quali il razzismo, il femminismo, i rapporti lavorativi, il tradimento, le difficoltà nell’affrontare i cambiamenti ecc. – risultano poco approfonditi e s’intersecano senza veramente intrecciarsi. Sembrano quasi chiusi in camere stagne, separati fra loro.

Tutto ruota intorno al protagonista de Le digressioni del cuore che, come suggerisce il titolo, si perde spesso in digressioni mentali dalla carica debolmente emotiva; queste però, a causa di una mancata cura della struttura narrativa, anziché dare spessore al romanzo lo indeboliscono. Il lettore arranca appresso alle divagazioni (che sono cosa ben diversa dalla digressione narrativa, anzi ne sono forse la controparte negativa), senza riuscire a seguirle né a interessarsene in quanto sono puramente descrittive e collegate al solo Luigi, che spesso sciorina eventi accaduti oppure opinioni personali senza mai dar loro un vero spessore psicologico, intellettuale ed emotivo. Un esempio:

«Due mesi passarono molto velocemente – nemmeno me ne resi conto – e ci avvicinammo al Natale, la mia festività preferita, quella che un po’ tutti adorano. Il Natale mi fa tornare bambino, mi fa pensare ai ricordi più belli, alle canzoncine delle scuole elementari, ai regali che vorresti ricevere, al carbone che vorresti evitare, alla volontà di credere in qualcosa di magico: le renne e il Babbo Natale che ognuno sognava di vedere e con cui sperava di parlare almeno una volta.

Quel giorno salii sul treno come al solito […]»

Terminato il passo, che nulla aggiunge allo sviluppo della trama o alla comprensione di situazioni o personaggi, il lettore non può che chiedersi: “E allora? Perché mi parli di questo?”.

Stesso problema accade con interi capitoli: il libro consta di 180 pagine, ma la vera trama inizia a pagina 71, quando Faysa irrompe nella scena. Ciò che viene prima, fatte salve le descrizioni del rapporto di Luigi con Giulia e con i colleghi di lavoro (utili a farci comprendere la sua personalità ingenua e sognatrice, ma anche salda all’occorrenza), risulta a tutti gli effetti inutile. Lo stesso accade con ciò che viene dopo: ci sono due interi capitoli, il quinto e il decimo, in cui il protagonista ci racconta eventi che non hanno alcuna rilevanza nella trama: nel quinto avviene uno strano e sconclusionato scontro con un gruppo di femministe, durante il quale si leggono purtroppo perlopiù stereotipi da una parte e dall’altra («Tutto ciò che riguarda noi donne è bello! Tutto ciò che è rosa è potente: noi siamo il passato, il presente e il futuro!»; «la prossima volta cerchi anche di indossarli gli abiti da donna, come, ad esempio, tanto per dirne uno, il reggiseno»); nel decimo si parla di come, anni prima, Luigi sia stato vittima di frode da parte di un suo collega. Anche qui ci si chiede: “E allora? Perché mi parli di questo?”.

A questo bisogna aggiungere due ulteriori problemi riguardo a Le digressioni del cuore. Il primo è l’assenza di un vero e proprio conflitto interiore del protagonista, poiché la maggior parte delle situazioni (il tradimento nei confronti di Giulia con la sensuale Valentina, il rapporto con Issah, le minacce del padre del bambino) si risolve da sé, senza un reale intervento di Luigi. Manca, insomma, quel che in gergo si definisce “arco di trasformazione del personaggio”, elemento fondamentale per uno sviluppo del plot narrativo che sia anche interessante per il lettore.

Il secondo problema è l’assenza di un vero e proprio finale: il romanzo termina con Luigi che decide di mandare a quel paese il padre del ragazzino; poi lui, Giulia e Issah escono per andare al cinema. E allora ci si chiede: che succederà col padre che, legalmente, ha tutto il diritto di vedere il figlio? Come andrà a finire la storia con Giulia dopo la sua partenza? Quando Faysa ritornerà dalla Nigeria si riprenderà il figlio?

C’è da dire che questi gravi problemi non sono colpa solo dell’autore Luca Barbanti, le cui potenzialità da scrittore sono tutte lì in mostra pronte a essere sfruttate; bensì anche (o soprattutto) dell’editore e dell’editor: del primo perché ha mandato alle stampe un testo nient’affatto pronto per la pubblicazione, ma che anzi avrebbe necessitato di una revisione strutturale; e del secondo perché semplicemente non ha svolto il suo lavoro, o comunque l’ha svolto male, lasciando evidenti buchi di trama, ripetizioni, capitoli superflui e refusi.

In definitiva Le digressioni del cuore è un romanzo che avrebbe richiesto almeno un altro anno di lavoro, e che si è avuta invece la fretta di pubblicare. Ed è un vero peccato.

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