‘’L’uomo he parlava alle vigne’’ di Pierpaolo Palladino: il realismo magico e l’ancestrale legame degli uomini con la natura

L’uomo che parlava alle vigne è un libro di Pierpaolo Palladino edito dalla casa editrice La Mongolfiera, in cui storia, natura ed elementi magici si intersecano per raccontare le vicende della famiglia Lulic, al confine con la Slovenia.  Sono tre le generazioni protagoniste del romanzo: Jozef, il figlio Gaspere e il nipote Pavel.

Ma il vero elemento di narrazione di tutto il libro resta il vino, filo conduttore e guida all’interno del testo. Il racconto inizia durante la Prima Guerra Mondiale e termina negli anni ’80; l’autore ripercorre diversi momenti storici salienti di questi anni, senza tralasciare le avversità del periodo, sottolineando aspetti ancora tristemente attuali come la discriminazione, l’oppressione delle minoranze, la violenza dei conflitti, il liberismo imperante. La storia è così scandagliata e descritta dai soggetti che la subiscono e, annaspando nel mare di tumulti storici e di vita vissuta, cercano di sopravvivere non tradendo sé stessi.

I Lulic si sentiranno ostracizzati e quasi distaccati dalla loro stessa comunità, estranei nella loro stessa terra: condizione che spesso si è verificata su persone di origine balcanica. Un altro personaggio importante è Padre Italo, la cui condizione di esilio in Sud America e l’ emarginazione attuata dalla sua stessa chiesa ricordano la figura di Don Milani. La minuziosità in cui l’autore presenta il contesto storico è intervallato da elementi di realismo magico che rimandano ad autori come Gabriel García Márquez, sottilmente a Jorge Luis Borges ma anche agli italiani Italo Calvino, Dino Buzzati e al contemporaneo Stefano Benni. Ma l’elemento-collante e centrale dell’opera è il rapporto con la natura e, in particolar modo, il legame viscerale con la terra e i suoi frutti: il barlume di speranza emblema di un  filo dorato che, nonostante le vicissitudini, terrà salde tre generazioni.

L’uomo che parlava alle vigne: ‘’l’oblio degli affanni’’

Ciò che accomuna le tre generazioni dei Lulic è la ricerca instancabile di una formula che mira alla produzione di un vino perfetto. Una motivazione così forte che li porterà a fare delle scoperte sulla loro progenie, a effettuare le prime ricerche scientifiche di genetica vegetale ma anche a conoscere e imparare tecniche di coltivazione e conservazione del vino. Un viaggio, quindi, anche nella parte più tecnica dei metodi di vinificazione; il vino si trasforma nella sua accezione più pura convertendosi in elemento magico: l’unica ragione che porta la famiglia Lulic a non soccombere. Per parafrasare Alceo, antico poeta greco e cantore della bevanda, il vino è  come un amico incapace di tradimento ed è definito, dallo stesso poeta, ”l’oblio degli affanni”.

La correlazione simbolica data a questo nettare derivante dall’uva riprende, in parte, il messaggio che il testo veicola: nell’antica Grecia era infatti considerato un dono che la natura offriva agli uomini e che andava a sottolineare il legame di quest’ultimi con la Terra attraverso la  metamorfosi di un frutto che si trasforma in un prezioso liquido magico. La famiglia Lulic tratta le sue viti proprio come doni: parlando, cantando, sussurrando a queste elargizioni della terra.

L’insegnamento più importante de L’uomo che parlava alle vigne, tuttavia, rimane l’accoglimento delle altre realtà da parte dei Lulic: nonostante l’ostracismo subito, si confrontano con altre culture accogliendo l’altro e facendone tesoro, un’evidenza che si percepisce anche nell’apprendimento delle tecniche nel vino. Un atteggiamento che rivela, ancora una volta, la struttura di una famiglia coriacea ma dalla lucida fantasticheria: che non si è data per vinta e nelle radici del passato ha seminato il proprio percorso futuro.

‘Almanda’ di Ennio Maria Petruzzella: il realismo magico che descrive una città ideale tra sogno e realtà

Il desiderio di sopravvivere alla morte lasciando una traccia terrena della propria esistenza è da sempre l’ambizione di tutti i grandi uomini, che per merito delle loro opere vorrebbero ottenere fama imperitura. Ed è di questo che tratta “Almanda, il viaggio” dello scrittore Ennio Petruzzella (Les Flâneurs Edizioni), raccontando la storia della fondazione dell’omonima città e della sua condizione un secolo dopo l’edificazione.

Stridente in Almanda, è il contrasto tra l’entusiasmo dilagante che ha condotto alla nascita di Almanda rispetto all’atmosfera grigia come il suo cielo funereo soltanto cent’anni dopo. Una città destinata a grandi fasti e nota in tutto il mondo per le sue manifatture esportate ovunque, anche nel Vecchio Continente, ritrovarsi improvvisamente al buio e senza più speranza.

Agli antipodi sono anche i protagonisti: da un lato, Giulio Flaiano, il ricco avventuriero patrizio che si imbarca in quest’impresa folle e convincendo i più talentuosi della sua epoca a seguirlo; dall’altro Julius, il giovanissimo ragazzo che vuole scoprire il mistero del sole e donare nuova luce alla città, mettendo a rischio la sua stessa esistenza. Entrambi curiosi e aperti al nuovo, sono disposti a tutto per Almanda: un luogo magico dove tutti sarebbero stati liberi di essere se stessi, sognare e amare senza limiti o condizionamenti.

«Questo era il segreto di Almanda.  Questo velo di impalpabile follia che teneva uniti gli sforzi di tutti per consentire ai sogni dimenticati del mondo di affrontare ancora il mare e raggiungere gli uomini per i quali erano stati sognati. La convinzione che aveva spinto tutti a seguire Giulio, che la grandezza di ogni uomo abita nei propri sogni, nella semplice e immateriale fuga che compie quasi ogni giorno nelle sfumature della vita».

Profonda è l’introspezione sui personaggi, di cui l’autore delinea sia gli umori che gli affanni, descrivendone a pieno l’anima, le ambizioni e le sofferenze con uno stile a tratti onirico, che riecheggia il realismo magico del premio Oscar Gabriel Garcia Marquez con le sua “prosa immaginifica”.

«… Questo prima che sorgesse il suo nuovo sole, e prima che una mano invisibile la disegnasse nei suoi confini circolari e la posasse sulla terra… come un’opera visionaria a lungo cercata, nelle pergamene del pensiero, e ideata e fissata nelle pietre del mondo”. Almanda era già lì, dipinta in forma di città onirica e perfetta, attraversata dal taglio luminoso del fiume Dieng che dall’alto delle montagne scendeva lentamente al mare. Era lì, concepita dalla mente di un uomo che si era scoperto visitatore notturno di mondi fantastici e impossibili».

 

Casa Editrice: Les Flâneurs Edizioni

Collana: Lumière

Genere: Narrativa contemporanea

Pagine: 202

Prezzo: 15,00 €

 

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Il fantastico nei racconti di Massimo Bontempelli: da ‘La scacchiera davanti allo specchio’ a ‘Eva ultima’

In particolare sono due i generi affrontati da Bontempelli che più hanno risentito dell’influenza del fantastico, il meraviglioso fiabesco delle Due favole metafisiche e i racconti.

Quali sono i procedimenti narrativo-retorici e i sistemi tematici che dimostrano l’influenza di tale modo sui diversi generi? Attingendo ai contributi di Ceserani, sarà importante illustrare ora gli elementi specifici più ricorrenti del modo fantastico.

Introduzione al fantastico di Bontempelli

Nel volume Il fantastico, Ceserani dedica un capitolo alla ricerca e alla catalogazione di questi procedimenti, distinguendo fra quelli tematici e formali. Tra questi ultimi troviamo la narrazione in prima persona, accompagnata talvolta dalla presenza di destinatari espliciti, per accrescere il coinvolgimento del lettore e la sua identificazione con il lettore implicito, la messa in rilievo dei procedimenti narrativi nel corpo stesso della narrazione, al fine di attirare il lettore e al tempo stesso renderlo continuamente consapevole che di narrazione si tratta, o l’interesse per le capacità proiettive e creative del linguaggio, che si esplica per esempio nell’utilizzo in termini narrativi della metafora, tramite il quale il rapporto verbale tra i mondi semantici diventa materiale, creando passaggi di soglia e di frontiera dalla dimensione del quotidiano a quella del perturbante.

Il passaggio di soglia è raggiunto anche attraverso i cosiddetti “oggetti mediatori”, la cui presenza nel testo dimostra la veridicità del viaggio compiuto dal protagonista nell’ “altro mondo”, dal quale ha portato con sé il suddetto oggetto.

Ancora importante è la teatralità, cioè la tendenza ad utilizzare procedimenti appartenenti alla tecnica e alla pratica teatrale, che comprende anche l’attivazione di elementi di figuratività sia materiali, come gli specchi, relativi al vedere, sia come esaltazione della gestualità, per esempio “mettendo in scena”. Frequentemente utilizzata è poi la figura retorica dell’ellissi in momenti cardine del testo, dove cioè la narrazione raggiunge il culmine, con effetto di sorpresa e di incertezza nel lettore, incapace di trovare risposte alle proprie domande. Ma, come sostiene la Bessière, «Per sedurre, il fantastico ha il dovere di deludere».

Dal punto di vista tematico spiccano la contrapposizione fra luce e buio legata soprattutto all’ambientazione notturna, l’attrazione verso la vita dei morti, l’individualità borghese come soggetto della modernità, con tutte le contraddizioni che lo portano sovente anche alla follia, intesa non più come una differenza fra il folle e l’uomo normale, ma come tramite verso una più profonda conoscenza.

Legati a quest’ultimo sono poi il tema del doppio, che nel fantastico si unisce a oggetti come lo specchio e mette in crisi il concetto di soggettività, e quello del nulla, tematica fortemente moderna che si spinge fino al nichilismo. Lazzarin pone, accanto ad una tematica e ad una stilistica e retorica del fantastico, anche una topica, cioè un insieme di luoghi comuni utilizzati in diversi contesti e con diverse funzioni, come per esempio il tòpos dello sguardo inquietante ed ardente del personaggio fantastico.

La scacchiera davanti allo specchio, trama e contenuti

Scritto nel 1921 e pubblicato presso l’editore Bemporad a Firenze nel 1922 nella «Biblioteca Bemporad per ragazzi» con illustrazioni di Sto (Sergio Tofano), La scacchiera davanti allo specchio seguirà Viaggi e scoperte nel volume Mondadori del 1925 e, infine, con Eva ultima, costituirà il volume Due favole metafisiche (1921-1922), sempre presso Mondadori, dal 1940.

L’originaria pubblicazione in una collana per ragazzi, il nome scelto dall’autore per l’ultimo volume, e la dedica al figlio Mino, complicano ulteriormente la già difficile categorizzazione dell’opera; si potrebbe, infatti, ingenuamente essere indotti a considerarla solo come una semplice storia per bambini. Tuttavia, ad un occhio più attento, essa si potrebbe situare alla convergenza di più generi, traendo elementi in particolare dal mondo della fiaba e dal fantastico.

Il soggetto si riconosce quindi solo nel momento in cui si vede nello specchio. Interessante, a questo punto, riprendere le considerazioni espresse da Mangini nel capitolo del volume Letteratura come anamorfosi dedicato allo specchio e alla sua stretta relazione con l’anamorfosi; il «riconoscimento della propria immagine speculare, costitutivo dell’identità del soggetto (e cioè della sua presunta autonomia dall’oggetto), è in realtà un riconoscimento di sé nell’Altro (o di sé come Altro) e dimostra innegabilmente che il soggetto non può incontrarsi e ri-conoscersi altrimenti che così: come Altro, appunto».

Il protagonista vive lo sdoppiamento fra sé e la sua immagine nel momento in cui compie l’attraversamento della soglia. Le parole del Re sono eloquenti: «Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte».

Molto forte è poi l’influenza della pittura metafisica nell’ambientazione che circonda il manichino; in seguito alla sua esplorazione, il protagonista arriva infatti in un «vasto fossato, riquadrato come una piazza d’armi ma sprofondato molto più basso del suolo», all’interno del quale si stagliano vari oggetti, che «stavano in certo modo come stanno gli alberi e le rocce nella campagna. […] Erano, ecco, erano una specie di paesaggio, fatto di oggetti invece che di piante e altri prodotti naturali».

Saltano subito alla mente le pitture di Giorgio De Chirico, dove a popolare le grandi piazze squadrate sono, oltre le architetture, oggetti come statue e manichini, che arrivano a fondersi in una sorta di ibrido in opere come Le Muse inquietanti (1919). Per Piscopo, Bontempelli accetta l’opzione “saviniano-dechirichiana” del manichino, assumendolo «non a stereotipo funzionale, ma a referente materiale per eccellenza nell’atelier dell’artista, in quanto suggeritore e moltiplicatore di metafisicità, ovvero di spettralità; ma anche in quanto valore da recuperare in contraddizione col consumismo volgare e col Kitsch di massa. La presenza del manichino presso i metafisici ha una funzione complessa. È cifra di misteriosità e d’inquietudine».

Nei suoi scritti teorici, Bontempelli esplicita di volersi riallacciare all’antica tradizione omerica, per riavvicinare la narrazione alla lirica, come accade in ogni primordio, dove «poesia coincide con l’invenzione della favola».

Come osserva Bosetti, però, la soluzione da lui proposta non è irrazionalistica, ma anti-intellettualistica, in quanto Bontempelli intende distaccarsi da “quella deprecanda orgia di verismo documentario” di cui la prosa era rimasta vittima. Questa sorta di primitivismo bontempelliano è, però, complicato dalla distinzione che egli introduce tra la meraviglia del fanciullo e lo stupore dell’artista. Solo quest’ultimo è, come accadeva ai pittori quattrocenteschi, attivo e capace di «popolare il mondo di creature immaginate in cui le esperienze quotidiane si sono totalmente risolte e trasformate.

Eva ultima, l’opera problematica di Bontempelli

Scritta nel 1922, quindi ad un anno di distanza dalla Scacchiera, ed uscita per la prima volta presso l’editore Stock di Roma nel 1923, Eva ultima è la seconda delle due “favole metafisiche”, ma ciò non deve trarci in inganno nel considerarla affine alla prima, con cui sicuramente condivide l’atmosfera magica e meravigliosa, ma da cui si discosta anche ampiamente, soprattutto per la maggiore artificiosità.

Eva ultima è un’opera problematica, ma che costituisce un tassello imprescindibile in un discorso sul fantastico bontempelliano. Anche di fronte ad essa ci si trova in difficoltà a doverla incasellare in un genere specifico; fin dall’inizio, infatti, sono ripresi temi e stilemi dei generi maggiori dell’800, ma subito rovesciati in una sorta di parodia.

I racconti più propriamente “fantastici” di Bontempelli sono considerati da molti critici, non a torto, come i risultati più felici della sua produzione artistica. Se già nel 1943 Carlo Bo afferma che in Bontempelli «il racconto ha una soluzione intatta: ha la misura stessa dell’invenzione», Baldacci, nell’introduzione al Meridiano dedicato alle Opere scelte dell’autore, auspica l’uscita di un volume, sempre nella collana dei Meridiani, incentrato solo sui racconti.

Anche Luigi Fontanella afferma che le raccolte degli anni ’20 sono da considerarsi come espressioni della maturità artistica del narratore. Nonostante ciò, una raccolta completa di racconti non è ancora stata pubblicata, e quelle già esistenti sono pressoché irreperibili. Anche per quanto riguarda la critica, se fioriscono pubblicazioni sui romanzi e sul teatro, non si trova altrettanta letteratura sul racconto.

La produzione novellistica di Bontempelli si snoda lungo tutta la sua attività, a partire dalle prime opere rifiutate, Socrate moderno e Amore, passando per la filosofica raccolta Sette Savi e la sperimentale Viaggi e scoperte, arrivando fino alla magica Miracoli e alle più mature Galleria degli schiavi e L’amante fedele.

 

 

Fonte: https://www.academia.edu/36651096/Il_lavorio_delle_fantasime._Il_fantastico_nei_racconti_di_Massimo_Bontempelli

Jorge Luis Borges, tra mito e logos, amante dell’Europa, con una vocazione universale opposta al cosmopolitismo straccione odierno

Destra o sinistra, poco importa, uno scrittore deve pensare ad altro: «I comunisti – raccontò Borges ad Alberto Arbasinomi considerano un fascista, i fascisti mi considerano un comunista, dunque non sono da nessuna parte, sono un vecchio individualista». Lo accusarono di “cosmopolitismo culturale”, lui, amante dell’Europa, ebbro dell’idea di sintetizzare Oriente e Occidente, con una vocazione universale (non universalistica) che rigettava l’idea di esaurirsi in una letteratura, in una nazionalità. Considerava la storia del mondo come uno spartito, (la sola) in grado di far incontrare culture diverse senza spargimenti di sangue. Una vocazione, ça va sans dire, opposta a quel cosmopolitismo straccione che oggi è la madrelingua di un mondo globalizzato e sradicato.

Un uomo sogna di essere una farfalla. Poi si sveglia: è ancora un uomo. Elementare, no? Ma se fosse a sua volta un sogno della farfalla? Non c’è modo di saperlo. È possibile però scriverci su. È quello che fece Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), cartografo dell’onirico, geografo dell’immaginario. È forse il sogno a costituire la cifra più autentica di questo realista magico argentino, tra i massimi scrittori del secolo breve, che ci ha regalato capolavori come L’Aleph e Finzioni. Vero erede di Calderón de la Barca, era dotato di una memoria straordinaria, che gli permise, nonostante la cecità in cui il destino lo precipitò, di garantirsi un repertorio di opere sempre presenti nella sua biblioteca intellettuale. La cecità… In uno dei suoi racconti più intensi, Günther Anders parla di due prigionieri, costretti in una cella buia: è solo il sogno a restituire i colori a Olo e Yegussa, in un singolare ribaltamento di prospettive. Il giorno è la loro notte, e viceversa. Lo stesso potrebbe valere per Borges, la cui vivida immaginazione riempì d’immagini il buio perenne nel quale si trovò a vivere.

Nobel mancato (per via di un apprezzamento su Pinochet che non riscosse particolari entusiasmi tra i suoi colleghi svedesi), nella sua opera immortale ha sviluppato il gioco di scatole del Lewis Carrol di Through the Looking Glass. La sua Alice è un sogno del Re Rosso («Cosa credi stia sognando?» le chiede ironico Tweedledum) e non è più o meno reale di quella al di qua dello specchio. E l’autore, a sua volta, non è un ennesimo sogno di se stesso? Una fuga di saloni, insomma, attraverso i piani dell’essere, fino all’Ente Sommo e più oltre ancora: che accadrebbe al risveglio? Forse, «se l’Eterno / Spettatore cessasse di sognarci / Un solo istante, ci incenerirebbe, / Bianco e improvviso fulmine, il Suo oblio».

A Borges, tra l’altro, non interessava tanto il sogno in se stesso, quanto la sua irruzione nella realtà. La storia? «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli» – ed è probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. È la somma ironia di Borges, la quale – come la danza di Shiva – edifica mondi dal nulla e, in un batter d’occhio, solvet saeclum in favilla. «Noi – scrisse – abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso». La storia è un lungo sonno, d’accordo. Ma questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Spetta all’artista – e non allo storiografo – viverli in modo più lucido, sognar più vero, come scrisse Nietzsche (non molto amato dallo scrittore argentino, invero). Ebbene, continua Borges, i sogni ricorrenti della storia sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi, verità antiche, eterne, ribadite di secolo in secolo, di generazione in generazione. Dietro all’artista agisce un sostrato profondo – l’Inconscio Collettivo di Jung, la Grande Memoria William Butler Yeats – che modula su nuove variazioni temi antichissimi. Il principale è la segreta simpatia che lega l’uomo al cosmo, le correspondances cantate da Baudelaire, l’idea che ciò che siamo non si esaurisca in un’individualità ma sconfini in un destino molto più ampio… Lo raccontò a Ronald Christ, nel corso di una lunga intervista:

«L’intero universo è attraversato da legami; ogni cosa e connessa al tutto, […] è uno specchio segreto dell’universo».

Anche se spesso poeti e scrittori non ne sono del tutto coscienti, è questa simpatia universale che narrano. È ad essa che accordano il loro canto. È la Grande Arte, bellezza. Il resto non è che feticcio. È sempre la Parola a compiere questo piccolo miracolo. È il linguaggio, evento anzitutto simbolico la cui genesi non si esaurisce nella sfera mentale o sociale, come una pessima filosofia del linguaggio ci ha fatto credere. L’origine del verbo è sacra, come instancabilmente hanno ripetuto intellettuali di ogni latitudine – Attilio Mordini, Thomas De Quincey e Arthur Machen, solo per fare qualche nome –, e non un imprecisato e vacuo flatus vocis. Scintilla divina che il tempo ha usurato, spetta al poeta «restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primissima e oggi nascosta virtù». Basta ascoltare il Robert Browning cantato da Borges per capire quale sia la quintessenza del linguaggio secondo lo scrittore argentino:

«Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / Dirò a mia volta le cose eterne».

Nasce proprio qui la supremazia dell’estetica su discipline come etica, filosofia, storia, teologia… Prima di essere ingabbiato nelle morali e nelle filosofie, prima di essere trascritto su tavole di pietra o in dottissime trattazioni, il mondo accade come fenomeno estetico. Guai a chi riduce a prodotto storico l’arte, che non dovrebbe servire il tempo ma combattere la tirannia di Chronos. L’arte, scrive Borges, è «un piccolo miracolo […], che sfugge, in qualche modo, all’organizzata casualità della storia». Se la storia invade il terreno dell’arte, ecco nascere la storia della letteratura, la sociologia della letteratura e via dicendo. Discipline che mettono definitivamente a tacere le Muse. Dove comincia l’analisi termina la bellezza. Ma art happens, l’arte accade, ripetendo ogni volta il prodigio della genesi, aprendo squarci d’assoluto sulle nostre vite. L’arte legittima la storia, non viceversa: in aperta opposizione agli eruditi e ai collezionisti di dati, per giustificare l’universo basterebbero pochi versi, «la bellezza di qualche sillaba, di un quadro, di una statua […]. È una difesa dell’estetica. Se l’estetica è invece intesa come giustificazione della storia risulta pesante, addirittura vanitosa». Naturale che il critico americano Harold Bloom abbia inserito Borges tra gli alfieri del Canone Occidentale, i quali non concepiscono l’esistenza che come fenomeno estetico. Al diavolo le scuole letterarie, sepolcri dello stile! E al diavolo la cosiddetta “arte impegnata”, ancella della morale o della politica:

«È un’ingenuità […]. Uno scrittore può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Egli deve essere leale verso la propria immaginazione e non verso le ovvie, effimere circostanze di una supposta “realtà”».

Mai piegarsi alle mode del momento: meglio cogliere nel divenire ciò che si ripete – i sogni ricorrenti, appunto, gli archetipi. Siamo tutti variazioni viventi di un tema antichissimo. Lo scrisse nelle sue Altre inquisizioni: «Forse la storia universale è la storia di alcune metafore». Non sono poi tantissime, a dire il vero: l’assedio di una città, il ritorno dell’eroe, la queste, il sacrificio di un dio, gli specchi e i labirinti, le tigri e i pugnali, l’enigma del tempo, le biblioteche… Un ventaglio di immagini, a esaurire la storia universale. Inafferrabili alla comprensione logico-razionale, continuano a sottrarsi, per poi rivelarsi fulmineamente. Ed è dall’abisso del loro ritrarsi che sorge l’opera d’arte:

«Quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico».

Queste metafore non vengono “inventate” da qualcuno ma attraversano i secoli e gli uomini, in cerca di qualcuno che dia loro architettura estetica. Costui è il poeta, il cui lavoro «è di natura passiva; si ricevono doni misteriosi e poi si cerca di dar loro una forma, ma si comincia sempre da qualcosa che non siamo noi». È un’alchimia di corsi e ricorsi, ché «al destino piacciono le ripetizioni, le varianti, le simmetrie». Peccato che la memoria degli uomini («copie temporali e mortali / di un archetipo inconcepibile») sia corta, cortissima – complice anche la storiografia, che l’ha atrofizzata, con il culto del dettaglio e la mania dell’esattezza. Meglio affidarsi alle cose, più antiche degli uomini: le spade, che hanno attraversato diversi costati, le pietre, sopravvissute ad assedi e devastazioni, gli specchi, i labirinti, il senso delle stagioni, le nascite e le morti… Una visione metastorica sulla storia, insomma, giacché «nel tempo durano solo le cose / Che non appartennero al tempo». Ed ecco che un capodanno diventa l’occasione, in una poesia giovanile poi pubblicata in Fervore a Buenos Aires, di riflettere su ciò che nel tempo non si esaurisce:

«Il sospetto generale e confuso / dell’enigma del Tempo; / è lo stupore di fronte al miracolo / che nonostante le infinite sorti, / che nonostante siamo / le gocce del fiume di Eraclito, / qualcosa in noi perduri, / immobile».

È forse una delle immagini più efficaci del nostro Sé, il cui luogo naturale è un’origine non esiliata all’inizio dei tempi ma che è illud tempus, che si ripete ad ogni istante regalandoci il crisma dell’immortalità. È qui che sgorga la vera Arte, è qui che affondano le radici del Grande Stile. Nel corso dei secoli sono stati dati molti nomi a questo Altrove: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, subcosciente collettivo e via dicendo, ma è sempre la stessa cosa». Ecco il punto: ogni epoca ha le proprie mitologie, ma Borges preferiva quelle antiche alle mistiche dell’inconscio di Freud (che aveva definito «un ciarlatano ossessionato dal sesso»), cui preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung. A patto che, ovviamente, venisse letto come un creatore di miti. Lo stesso dicasi per Plinio o Il ramo d’oro di Frazer. Tutte enciclopedie dell’immaginario. Un immaginario – aggiunse, con quell’ironia che abbiamo già conosciuto – il quale, molto probabilmente, nemmeno esiste. Al pari della realtà. Palla al centro.

La morte, lo scrivere, il leggere, l’amore, l’amicizia, il karma, la cecità.

Ora, verrebbe da chiedersi: poteva un uomo che si muoveva entro queste coordinate intercettare in qualche misura la politica del suo tempo? Certamente no. E, infatti, i suoi rapporti con l’attualità furono disastrosi. Antiperonista, avverso alle aristocrazie come alle plebi, pagò cara la sua opposizione, come raccontò in quello che dovette essere un abbozzo di autobiografia: poco dopo l’ascesa di Peron, «mi fu data la bella notizia che non avrei più lavorato nella biblioteca ma che ero stato “promosso” a ispettore di polli e conigli ai mercati». Andò in municipio, chiedendo perché fosse stato destinato proprio a lui questo onore: «Be’ – rispose l’impiegato, – lei era dalla parte degli Alleati. Che cosa si aspettava?». Cosa rispondere? Il giorno dopo diede le dimissioni. Era pedinato costantemente da un detective (antiperonista, tra l’altro), con il quale finì per stringere amicizia. Quei pedinamenti divennero delle lunghissime conversazioni. È quel che accade quando il destino forza le sbarre della realtà. Questo impolitico conobbe la disgrazia di sottoporre la contemporaneità al vaglio della sua visione del mondo, nulla risparmiando. Conservatore, a chi gli chiedeva cosa pensasse delle rivoluzioni rispondeva:

«Solo una rivoluzione nel petto di ciascun uomo potrebbe riportarci a quella dignità che, per essere antica, è sempre nuova».

Meglio stare lontani dalla politica e dall’attualità. La democrazia? «Un curioso abuso della statistica». Le masse? Costruzioni dei politici: contano solo gli individui. Spenseriano fino al midollo, detestava lo Stato, occhiuto e onnipresente, quello raffigurato dal suo amato Kafka, nei cui racconti gli individui, ridotti a variabili statistiche, si perdono nei labirinti di un meccanismo antiumano.

Un destino la cui espressione più straordinaria è quel piccolo capolavoro che è l’Antologia della letteratura fantastica, realizzata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, «uno dei pochi libri che meriterebbero di essere salvati nel caso di un nuovo diluvio universale», come disse egli stesso ridendo. Un giudizio che non si può non sottoscrivere. Oltre a condensare tutte le sfaccettature della Weltanschauung borgesiana, quest’antologia è il manifesto ideale di tutti gli antimaterialisti, di chi non si ferma alla superficie delle cose, di chi crede nella forza dell’immaginazione. È un manifesto universale, poiché tutta la letteratura è fantastica. Lo è sempre stata, come Borges raccontò ad Arbasino, «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono ramificazioni di questo genere. Ne condividono gli archetipi e i simboli, modulandoli in base allo Spirito del Tempo. È per questo che «bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura». Il realismo? Un episodio funesto, che ha infestato qualche secolo ma ben presto tramonterà. La grande letteratura, ci dice Borges, non è mai stata realista. Ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di tutti i tempi. Non ha mai celebrato, sic et simpliciter, la realtà. E scrivere di letteratura fantastica significa emendare questo errore, tornare alla normalità:

«Io non sono affatto un innovatore, e […] non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante».

Più chiaro di così… E la letteratura fantastica altro non è che il campo di battaglia degli archetipi. Selezionando i testi, disse a María Esther Vázquez nel corso di una lunga intervista pubblicata in italiano negli anni Novanta, Borges, Bioy Casares e la Ocampo verificarono che, «anche se molto diversi fra di loro e provenienti da diverse epoche e paesi, sempre ruotavano intorno ai medesimi temi». L’identità personale, scissa e traslata, plurale e proteiforme, la metamorfosi, i talismani, «la causalità magica, che si oppone alla causalità reale, le interferenze del sonno e della veglia, la fusione dell’onirico con il quotidiano e – il filone forse più ricco – l’argomentare sul tempo. In questa ultima categoria rientrano le profezie e i sogni profetici». Tutto si tiene, insomma, il reale e il fantastico. Senza soluzione di continuità. «La realtà lavora in aperto mistero» amava dire Macedonio Fernández, amico di Borges. Potrebbe essere il titolo di una sua opera, scrisse Fernando Savater, che ricorda anche come Borges, sul letto di morte, tenesse una selezione delle lettere di Voltaire e i Frammenti di Novalis, che l’infermiera gli leggeva di continuo.

L’illuminista e il mago, il reale e l’onirico, Platone e Aristotele: queste le polarità che scandirono la sua vita, e che egli fu capace di combinare e sintetizzare, intravedendo nelle architetture speculative e teoretiche un prodotto dell’immaginazione creatrice. Tra mito e logos Borges scelse di non scegliere, avventurandosi in una realtà dalle continue contaminazioni magiche. Non è un caso che Louis Pauwels e Jacques Bergier abbiano inserito un frammento dell’Aleph nel loro Mattino dei maghi, breviario del realismo magico. Non si conosce il mondo se non lo si affronta nei suoi frangenti magici. La vita è sogno. E L’Aleph può trovarsi ovunque, anche nei sottoscala. E così procedette, attraverso labirinti e biblioteche, l’Europa e il Nuovo Mondo, Oriente e Occidente, sbozzando l’immaginario collettivo intorno a un centro unico (ciò che è in alto è come ciò che sta in basso) che sempre si sottrae, lasciando come caput mortuum un segno su un foglio di carta, a dirimere un’immagine, che troviamo nell’epilogo de L’artefice:

«Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

 

Fonte: L’intellettuale dissidente

In ricordo di Michel Tournier, mitografo-indagatore

Si è spento il 20 gennaio scorso, all’età di 91 anni lo scrittore e germanista francese che si è sempre tenuto lontano dalla mondanità e dagli ambienti editoriali, esponente del realismo magico, Michel Tournier. Tournier ha vissuto la sua gioventù a Saint-Germain-en-Laye e a Neuilly-sur-Seine. La sua educazione è intrisa di cultura francese, influenzata dalla musica e dal cattolicesimo e poi segnata anche brevemente dalla cultura tedesca. I suoi primi lavori sono stati nel mondo della radio e della televisione come giornalista, ha condotto la trasmissione “L’ora della cultura francese”, ha lavorato per la radio Europe 1 e collaborato con <<Le Monde>> e <<Le Figaro>>. Nel 1967 ha pubblicato il suo primo romanzo Venerdì o il limbo del pacifico ed è stato premiato con il Grand prix du roman della Académie française. Il libro è una rivisitazione del personaggio di Robinson Crusoe coniugato al pensiero di Jean-Jacques Rousseau.

Quattro anni dopo Tournier riscrive una versione per bambini. Nel 1970, ottiene il Prix Goncourt all’unanimità, per il cupo ed inquietante romanzo Il re degli ontani, storia del perverso gigante Abel Tiffauges ambientata nella Germania del Terzo Reich e del nazismo. Nel 1972, diventa membro dell’Académie Goncourt. Nel 1975 pubblica il suo terzo romanzo Le Meteore. Nel 1958 si trasferisce a Choisel un paesino nell campagna di Chevreuse. «Per amore della società» – ha sempre affermato- «ho abitato a Parigi in mezzo a quella folla indistinta in un palazzo dove non conoscevo neanche il nome dei vicini. Qui almeno conosco le poche persone che incontro, ci parliamo, abbiamo un rapporto umano». Da Gaspare, Melchiorre e Baldassarre a Gilles e Jeanne, fino ad Eleazar ovvero la sorgente e il roveto e a Pierrot e i segreti della notte, Tournier pur vivendo lontano dal mondo e distaccato dal mondo, è riuscito a conquistare un’enorme popolarità grazie alla potenza dei suoi libri e al rapporto con i lettori. Ha sempre sostenuto che la cosa più importante per lui fosse il lettore come dimostra questa dichiarazione: “È per lui che scrivo. Mi capita spesso di pensare a lui quando sono seduto alla scrivania. Questa scena gli piacerà, sarà contento, o commosso. Questo mi basta per essere felice”. L’universo delle sue storie è popolato dal mito, dalla religione, dalla magia, dalla realtà e dalla fiaba: tutto si mescola in un tumulto immaginifico che rende così caratteristica la sua narrativa. mai come ora sembra così attuale e colma di senso la sua frase: «Il mio proposito non è d’innovare nella forma, ma di far passare in una forma il più tradizionale, preservata e rassicurante possibile una materia che non possiede alcuna di queste qualità».

Un grande visitatore di testi classici, un mitografo che turba, Michel Tournier, che non ha mai temuto di indagare nel profondo, di sondare il mistero, mescolando suggestive atmosfere orientali con riflessioni filosofiche sulla natura, sulla fede, sul valore della cultura occidentale, né di andare contro le ideologie correnti, riservando parole forti e dure verso chi consente l’aborto e schierandosi contro la legge Gayssot che punisce le dichiarazioni razziste, antisemite e xenofobe, ritenendo che bisognasse invece salvaguardare la libertà d’espressione, altrimenti «un fatto storico si trasforma in un atto di fede la cui negazione diviene una blasfemia».

Anna Maria Ortese, solitaria sacerdotessa della scrittura

La solitaria e “antipatica” (come si definiva lei stessa) Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è stata una scrittrice di rara sincerità, forse è proprio per questo suo modo di essere che, quando era in vita, era poco ascoltata, e oggi quasi per nulla ricordata. Il suo vivere deliberatamente in solitudine e il suo carattere riservato che non si sposava affatto con la mondanità sono da considerare soprattutto in riferimento all’insofferenza della Ortese per i circoli letterari, le apparizioni in pubblico, le promozioni editoriali e i salotti culturali.

Questi aspetti (spesso noiosi) che fanno parte della vita di uno scrittore in realtà contribuiscono in buona parte al successo di un’opera, intendendo però qualsiasi opera, anche non di qualità se pensiamo soprattutto ai successi improvvisi ed effimeri di alcuni “scrittori” che utilizzano selvaggiamente il  web per promuoversi, nonché alla mediocrità di certi eventi letterari. Anna Maria Ortese avrebbe mal sopportato tutto questo ma bisogna anche ammettere che molte volte il carattere di uno scrittore ha determinato anche se poco la buona o cattiva riuscita di un libro da un punto di vista commerciale. Farsi conoscere quanto più è possibile se si ha talento non è certo un male e accusare sempre l’ambiente culturale, gli addetti ai lavori e gli accademici di fare ostruzionismo non del tutto realistico, sebbene nel caso della Ortese ciò abbia un fondo di verità.

La scrittrice romana è stata osteggiata inizialmente da una platea maschile di letterati criticata a sia volta dalla Ortese in Il silenzio della ragione,e  poi costretta a chiedere  di usufruire della Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, condizione che oltre ad umiliare la persona umilia la letteratura stessa. Ma la Ortese ha saputo lottare con dignità, ma non facendo la rivoluzionaria, bensì rinnovandosi, nella forma e nella sostanza, lasciando parlare al suo posto i propri libri che mettono a nudo l’anima della scrittrice, nonostante ella non abbia mai voluto piacere per l’immagine che la rappresentava.

Ma come si “palesa” l’anima di Anna Maria Ortese?Cosa ci dicono le parole contenute nei suoi libri? Prima di tutto si percepisce uno stretto legame con realtà, quella realtà con la quale la scrittrice era sempre stata in polemica, ma anche un desiderio di giungere al bene, all’amore e alla giustizia. In bilico tra realismo e surrealismo che ricorda il realismo magico di Garcia Marquèz e di Bontempelli (che tenne a battesimo la scrittrice), la Ortese si contraddistingue per un potente autobiografismo lirico mai influenzato da canoni ideologici e poetici, partendo dalle esperienze dolorose.

Prendiamo in esame il libro Poveri e semplici del 1967, un meraviglioso racconto  di atmosfera da bohème, che si muove tra l’esistenzialistica e comunistica, un racconto fatto di tanti nomi e luoghi che trovano riscontro nella realtà e precisamente nella città di Milano, dove si svolge la vicenda. Qui, persino le discussioni politiche appaiono incerte, scivolando in chiacchiere di svago, tale aspetto insieme a ai personaggi che appaiono  scompaiono non sembrando affatto figure determinanti del racconto, rende Poveri e semplici un libro di incanto, di invenzione che però non sfocia nel sogno.

Anna Maria Ortese trasporta la realtà in una dimensione tutta sua come dimostra già uno dei suoi primissimi romanzi Angelici dolori, opera che trasuda patetismo sentimentale e istintivo realismo.

In Il mare non bagna Napoli la scrittrice trova un felice compromesso tra realtà e fantasia fotografando la meravigliosa confusione di una città particolare ed unica come Napoli cogliendone le più disparate e differenti voci affidandosi ad un’ agile scrittura “giornalistica”, in L’iguana l’autrice si lascia andare ad una fantasia carica di simbolismo. Ma l’opera più significativa della Ortese è senza dubbio Il porto di Toledo, romanzo che si aggroviglia giocosamente su molteplici dimensioni spazio-temporali.

Minor fortuna hanno i romanzi Il cappello piumato (1979), Il treno russo (1983) e In sonno e in veglia (1987). Ma gli ultimi anni riservano delle belle sorprese alla scrittrice: Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996), hanno un ottimo riscontro sia di pubblico che di critica. Successivamente pubblica  testi poetici come La luna che trascorre. Tra le ultime pubblicazioni, appare la riedizione del secondo libro della scrittrice, L’infanta sepolta, e la ristampa di due racconti giovanili raccolti in Il monaciello di Napoli (2001). Nel 1997 finalmente la giuria del premio Campiello le assegna il meritato riconoscimento alla carriera.

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