‘Un uomo finito’, la vitalità e le frustrazioni di Papini

“Un uomo finito” è l’opera più celebre di Papini (1881-1956), pubblicata dalla libreria della Voce nel 1913, ristampata più volte e tradotta in tutto il mondo.

Come hanno scritto in molti il romanzo è a metà strada tra l’autobiografia ed il diario. Un uomo finito riassume le vicissitudini, le sfide intellettuali, i percorsi mentali, l‘iter creativo, gli stati e gli strati psichici di Papini. In queste pagine sono racchiusi l’impegno e la vitalità dello scrittore fiorentino, che esplora da par suo il proprio Sé.

Il disincanto di Papini

Grazie alla sua onestà intellettuale riesce ad essere chiaro, lucido, disincantato e non lascia mai spazio ad errori di interpretazioni. Si dimostra capace di introspezione e allo stesso tempo di riflessione senza vana gloria, senza alcuna accortezza. Non si lascia abbindolare dalla memoria  che spesso migliora il passato e lo mistifica, presentandolo come molto diverso da quello che è stato realmente.

Papini si dimostra per quello che è e per quello che è stato, senza filtri, maschere o inganni. Il lettore avverte che si trova al cospetto della testimonianza di un artista memorabile, di una coscienza che, pur tra errori e pecche, ha sempre cercato di essere attenta a tutte le problematiche del suo tempo.

L’anima di Papini

In questa opera c’è tutto Papini: scontroso, ieratico, pensoso, tormentato, inquieto, cinico, autoesaltato, sconfitto, ambizioso oltremodo. In 50 brevi capitoli sono descritti i suoi primi trenta anni di vita. Innanzitutto esordisce scrivendo che non ha mai avuto fanciullezza. È nato povero e fin dai primi anni è sempre stato solo, schivo, appartato.

Da bambino subiva angherie ed umiliazioni da parte dei coetanei, che oggi definiremmo atti di bullismo. La sua vita fu sempre contraddistinta dalla “smania di sapere”.

Iniziò a formarsi con la libreria di soli cento volumi del babbo e poi accrebbe il suo sapere andando nelle librerie aperte a tutti, dove però potevano entrare solo le persone che avevano più di sedici anni.

Un uomo geniale e complessato

L’adolescenza fu vissuta tra la campagna e la biblioteca. Le umiliazioni, i complessi, le frustrazioni per un meccanismo di compensazione, descritto da Adler (secondo cui dietro ad un complesso di superiorità si celerebbe sempre un complesso di inferiorità), faranno scaturire in lui la smania di grandezza, la voglia irrefrenabile di essere tutto, di sapere tutto.

Un poco impropriamente questo atteggiamento mentale ed esistenziale viene chiamato da alcuni complesso di Dio, cioè il desiderio di voler annientare Dio e di farne le veci, di sostituirsi ad una divinità che sembra assente o indifferente. Ma siamo tutti esseri umani e dall’onnipotenza si finisce sempre nel senso di impotenza.

Papini e Dio

A tratti sembra che lo scrittore fiorentino non avesse coscienza del suo declino, della sua decadenza, della sua mortalità.  Tutti ci domandiamo come il cyborg di Blade runner quale è il trucco per non spegnersi, per non guastarsi. Ma essere immortali forse non è la soluzione.

La letteratura con Dorian Gray e il Faust ci avverte che non sarebbe una buona cosa. Forse Papini aveva coscienza di avere scritto opere immortali. Vivere comporta delle contrarietà. Come scrisse Alessandro Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”.

“L’inferno sono gli altri”

Però certe cose di fondamentale importanza purtroppo non è dato saperle. A Papini queste questioni stavano molto a cuore, eppure, nonostante il suo grande acume, non trovò mai la quadra. Infatti sono cose che ci trascendono come si evinci da Un uomo finito.

Per Papini come per Sartre gli altri sono l’inferno. Cerca conforto nelle opere dei grandi autori già morti e disprezza “i piccoli vivi”. La sua vita è stata vissuta pienamente, a tratti titanicamente, per alcuni anni all’insegna del superomismo. Non ha mai risparmiato energie. La sua gioventù è stata caratterizzata dal furore idealistico, dall’ubriacatura ideologica, dall’entusiasmo intellettuale, così come nella sua maturità si è distinto per il fervore cattolico.

Ma Papini molto probabilmente era un maniaco-depressivo. A dimostrazione di queste dinamiche psichiche e di questo disturbo dell’umore c’è la sua dichiarazione di scrivere “per sfogo”. Da voler essere un semidio onnipotente e onnisciente, eccolo piombare nel ripiegamento interiore, nel crollo psichico, nella “discesa”, nella malattia, nella depressione.

Papini, Soffici e Campana

Probabilmente se fosse vissuto oggigiorno a Papini gli sarebbe stato diagnosticato un disturbo bipolare, avrebbe fatto analisi, avrebbe assunto giornalmente una pasticca di Depakin e non avrebbe scritto niente di memorabile.

Papini ad ogni modo è un genio che ha il dubbio di essere “un imbecille”, “un ignorante”, che non ha la minima conoscenza di sé stesso né degli altri. È un uomo in fin dei conti che ha chiesto l’impossibile a sé stesso e agli altri.

Nonostante alcune sue tare come i pregiudizi nei confronti delle donne (ma anche lui era un uomo del suo tempo e certi pregiudizi all’epoca erano diffusi), dalla lettura di Un uomo finito è possibile trarre beneficio e godimento intellettuale, interiore. A trenta anni nessuno è un uomo finito, nemmeno uno che come Papini ha iniziato molte cose ed ha cercato di voler essere tutto vanamente.

Un uomo infinito?

Questa impresa era destinata comunque al fallimento. Ma dimostrò nel resto della sua vita che aveva ancora molte cose da dire. Piuttosto Papini è stato dimenticato oggi perché su di lui ci sono luci (il suo ingegno fu ineguagliabile) ma anche ombre: 1) fu interventista durante la prima guerra mondiale, anche se poi ebbe grandi rimorsi di coscienza. 2) per molti nascose insieme ad Ardengo Soffici il manoscritto “Il più lungo giorno” di Dino Campana, che il poeta di Marradi aveva dato loro per un giudizio critico.

Un uomo finito dunque descrive in modo magistrale la giovinezza, la formazione culturale, l’apprendistato, le contraddizioni, le amicizie di un grande intellettuale della sua epoca; un intellettuale che crebbe con Schopenhauer e con Stirner, che fu condizionato da D’Annunzio, che fu da giovane irrazionalista, occultista, nazionalista, idealista, futurista.

Con un semplice gioco di parole Papini più che un uomo finito cercò di essere un uomo infinito, ma ciò è impossibile per tutti. Fu un uomo dalle innumerevoli qualità che a forza di volere troppo rischiò banalmente di non stringere nulla, rischiò di essere un uomo senza qualità, un Ulrich come tanti.

L’interrogativo che lo porta a scrivere questa opera, ovvero “la vita è degna di essere vissuta?”, dopo averla letta, non può che trovare risposta affermativa.

 

Di Davide Morelli

‘Arcipelgo Gulag’, il saggio di inchiesta narrativa capolavoro di Solzenicyn. Cos’è oggi il Gulag?

Arcipelago Gulag scritto dallo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn sotto forma di saggio di inchiesta narrativa, tra il 1958 e il 1968, rappresenta spaccato di storia dolorosamente vissuta sulla Russia stalinista. Dal Circolo polare artico alle steppe del Caspio, dalla Moldavia alle miniere d’oro della Kolyma in Siberia, le “isole” del Gulag – l’organismo che gestiva i campi d’internamento nell’Unione Sovietica – formavano un invisibile arcipelago, popolato da milioni di cittadini sovietici. Nei Gulag è vissuta o ha trovato fine o si è formata un'”altra” Russia, quella di cui non parlavano le versioni ufficiali, e di cui Solzenicyn, per primo, ha cominciato a scrivere la storia. In un fitto intreccio di esperienze dirette, di apporti memorialistici, di minuziose ricostruzioni dove non un solo nome o luogo o episodio è fittizio, Arcipelago Gulag racchiude una tragica cronaca di quella che è stata la vita del popolo sovietico “del sottosuolo” dal 1918 al 1956. Un’opera corale che ha visto la luce per la prima volta a Parigi nel 1973. Solzenicyn è più che un scrittore, in Russia è un mito, un filosofo, rispettato tantissimo per le sue idee, per la sua inflessibilità e per il suo coraggio di scrivere sempre e comunque la verità.

Arcipelago Gulag è un’opera corale la cui versione francese recepisce sia le aggiunte e integrazioni apportate al testo dallo stesso Solženicyn nel 1980 sia i successivi interventi volti a esplicitare nomi e luoghi effettuati nell’edizione curata da sua moglie nel 2006.

L’opera è lunga (poco più di 1300 pagine), a tratti difficile per un europeo in quanto si rimanda a fatti o avvenimenti della storia russa (ci sono ovviamente note a fine libro) ma questo non rappresenta un ostacolo per la resa dell0opera che risulta avvincente e coinvolgente.

L’autore russo è coscienza della Russia, implacabile accusatore del regime comunista e di quello degli oligarchi e di Boris Eltsin, che lui definiva pseudo-democratico. E adesso sostenitore convinto della «democrazia guidata» appena trasmessa da Vladimir Putin a Dmitrij Medvedev.

Il grande scrittore premio Nobel per la letteratura, compiuti i novant’ anni molti anni fa, ha visto pubblicare la prima monumentale biografia (quasi mille pagine) letta e approvata dallo stesso ex recluso nei campi di lavoro e dall’ inseparabile seconda moglie Natalia. Lui è malato, quasi non può camminare e da cinque anni non esce di casa. Ma scrive tutti i giorni, cura la pubblicazione della sua Opera omnia e, soprattutto, continua a sparare bordate contro l’ Occidente, l’America di George W. Bush e coloro che criticano la politica del governo russo.

Così Solzenicyn descrive l’ossessione della scrittura, una ossessione che perde e che salva. Raccontando la storia, Solzenicyn vive “come in sogno”. Ogni gesto di scrittura, se grande, accade dal carcere, scavando il tempo dalle pareti, come i carcerati, gratificando le unghie.

Da dissidente a supporter del «suo» presidente e del «suo» primo ministro. Tanto da arrivare a difendere persino il passato nel Kgb di Vladimir Putin e a sostenere, lui che per anni è stato vittima dei servizi segreti, che «servire nello spionaggio estero non è una cosa che viene vista negativamente in molti Paesi».

La biografia scritta da Lyudmila Saraskina – per le edizioni Molodaya Gvardiya – è stata pubblicata a Mosca. Novant’ anni che coprono quasi per intero il «secolo breve», dalla nascita in una famiglia di ex proprietari terrieri subito dopo la rivoluzione (e in casa non si doveva mai parlare del nonno ufficiale zarista), alla partecipazione alla guerra come comandante di una compagnia di artiglieria. Il giovane Aleksandr era un comunista convinto, ma in una lettera privata criticò Stalin e finì nelle grinfie dell’ Nkvd, predecessore del Kgb. Otto anni di campo di lavoro e poi il confino.

Dalla sua esperienza in Kazakistan e in altri luoghi di «espiazione» nacquero i grandi capolavori. Una giornata di Ivan Denisovich, che raccontava la quotidianità dei lager, venne pubblicato durante il breve disgelo kruscioviano nel 1962 e fece un immenso scalpore. Giubilato Kruscev, il nuovo potere sovietico impedì allo scrittore di pubblicare alcunché e alla fine lo cacciò dall’ Unione Sovietica. Dopo che uscì all’ estero Arcipelago Gulag, la dettagliata analisi del mondo della repressione nata con Lenin e proseguita con Stalin, i tentativi di persecuzione continuarono. «Contromisure attive», come le chiamavano i ragazzi degli «Organi» repressivi.

La sua biografa ci racconta che Jurij Andropov, allora direttore del Kgb, era ossessionato dallo scrittore. Fece pubblicare in Italia e in Giappone un libro denigratorio scritto della ex moglie di Solzenicyn. Poi fece uscire sull’ Unità, l’ 11 luglio del 1975, una lettera della figlia del direttore di Novy Mir, la rivista che aveva pubblicato Una giornata di Ivan Denisovich. Dopo lo scioglimento dell’ Urss, il Vate riebbe la cittadinanza russa e poté tornare a casa dal Vermont, dove si era stabilito. Giunse in Estremo Oriente nel 1994 e attraversò tutto il Paese in treno, con migliaia di persone alle stazioni.

Ma ben presto il feeling con il Paese venne meno, anche a causa delle sue opinioni assai particolari. Profondamente antidemocratiche, le hanno definite i suoi critici. Anatolij Chubais, uno dei più brillanti tra i giovani riformisti degli anni Novanta (e tra i più criticati) ha detto: «Un odio simile verso la Russia moderna non l’ho visto nemmeno nei comunisti di Ziuganov».

Per un po’ l’ideale di Solzenicyn è stato il ritorno a una Russia agraria e religiosa. Poi, più recentemente, ha sposato la «democrazia guidata» di Vladimir Putin. Ha appoggiato le sue campagne contro l’ ingresso nel Paese della Chiesa cattolica e delle sette protestanti; se l’ è presa con l’Ucraina che ha accettato «l’abbraccio mortale dell’ Occidente e della Nato», che vogliono solo «accerchiare totalmente la Russia e farle perdere la sua sovranità».

Solzenicyn è morto 13 anni fa ed è diventato un’icona buona per le conferenze e i servizi in tv: d’altronde, chi ha oggi il coraggio di dire che il Gulag sono stati una azienda sovietica efficiente e che la sopraffazione è un atto buono e giusto? Così, leggiamo Arcipelago Gulag come la testimonianza di un tempo che fu. Ma non è oggi il Gulag, in un’altra forma, magari più sofisticata e sagace questo sistema di di frustrazione, smarrimento patente che viviamo? Cosa dire poi della Russia di Putin, del suo microcosmo oligarchico.

Già. Chissà cosa penserebbe oggi Solzenicyn di quello che sta accadendo in Russia, di Putin, di Navalny, degli scontri nelle piazze, dell’attenzione dell’Europa.

 

Fonte: Q-Libri

‘Il peccato’ di Giovanni Boine: la necessità di peccare per immergersi nella Vita e arrivare alla purezza

Il peccato (1913) è il romanzo d’esordio dello scrittore italiano Giovanni Boine, morto di tisi a soli 30 anni, che tratta un amore peccaminoso nella provincia ligure: lui artista, lei novizia in procinto di prendere i voti. L’amore è visto da Boine come spaesamento, conflitto interiore, peccato.

Struttura e tematiche del Peccato

Micro-romanzo di formazione diviso in tre parti – «Il limbo», «La qualunque avventura», «Il tormento» -, Il peccato è il racconto del processo di umanizzazione del protagonista, B., intellettuale ventiseienne che, attraverso l’amore per una giovane novizia – il peccato appunto -, distrugge le catene dell’astrattezza, che lo tenevano legato, vincolato a una dimensione asettica, sterile, gelida, iperuranica dell’esistenza, e assume consistenza fisica, carnale, sanguigna, passionale, immergendosi finalmente nel tumulto della vita. Il peccato si configura così come una sorta di esortazione alla vita, ma la vita vera, disinquinata dalle categorie aristoteliche e dai tradizionali lacci morali, riportata alla sua dimensione originaria, primordiale e barbarica quasi, che affonda le radici, tra gli altri, nel Nietzsche più puro e autentico – non il Nietzsche ridicolo e semplicistico, dozzinale feticcio, di D’Annunzio -, in cui è possibile ravvisare numerose analogie con alcuni degli esiti filosofico-letterari più importanti dell’epoca, dalla Persuasione e la rettorica di Michelstaedter al Mio Carso di Slataper.

Oltre ai temi, ciò che colpisce leggendo Il peccato è il modo in cui essi sono espressi. La scrittura di Boine è un vero e proprio fenomeno letterario: franta, spaccata, lacerata, spericolatamente funambolica, riproduce con incisività le spaccature, le lacerazioni e le acrobazie interiori del soggetto, rinunciando a qualunque mediazione – la punteggiatura stessa viene spesso abolita – e imponendosi così come uno degli esiti migliori di quel fenomeno raro che è l’espressionismo letterario italiano.

Boine non ricerca il bello stile, non ricerca la pulizia, la compostezza, la placida fluidità, l’artificiosa scorrevolezza. Boine ricerca l’efficacia e lascia che la personalità del protagonista – la sua personalità, vista l’indiscutibile portata autobiografica del racconto – e la vita irrompano sulla pagina liberamente, inondandola e travolgendola.

L’alterità

All’inizio del Peccato Boine evidenzia subito lo stato di alterità – condizione tipica dell’artista nella modernità, da Baudelaire in poi, rappresentata con grande efficacia, restando sempre nell’ambito della letteratura italiana alternativa del primo Novecento, da Campana e Sbarbaro – in cui si trova il protagonista all’interno della piccola e gretta realtà paesana, nella quale è rientrato al termine degli studi universitari, senza un lavoro stabile, comodo «nell’agio noncurante e discreto di una famiglia di patrizi antichi». Del giovane B. la gente del paese ha «un certo diffidente rispetto come per uno che è d’altra razza che noi», i politicanti del consiglio comunale lo giudicano un «originale».

Né socialista né anti-socialista, oppure entrambe le cose, non prende parte alle conversazioni nei caffè, non gioca, non ha una donna: le «compagnie allegre», composte da quei «giovanotti che capiscon la vita e come si deve […] se la godono», lo hanno «in concetto tra di “prete” e babbeo». Per quanto riguarda le amicizie, B. si circonda di originali come lui, individui più o meno emarginati estranei alla beghina e angusta logica paesana: «ragazzi di diciassette diciotto anni senza un soldo, ragazzi di liceo smilzi a passeggio con sotto il braccio un libro; un giovane capitano di mare che chissà perché aveva piantato il mestiere d’un tratto, specie di matto solitario tutto il giorno a leggere libri […], tutto il giorno in un canto al sole a legger pallido, torvo i suoi libri in disparte…

B. se ne sta in disparte, «come non degnandosi», e per questo suo atteggiamento di distacco, d’indifferenza e per le sue amicizie originali è vittima della «grettezza maligna di una città di provincia e contrasti grotteschi».

In realtà il degnarsi non c’entra, il protagonista non è «di quelli che fanno i “puah!” schifiltosi ad ogni cosa fuori di regola»; partecipa alle questioni cittadine, ai dibattiti, si esprime attraverso i giornali, ma l’incomprensione dei concittadini – «ma con chi è? ma cos’è dunque lui per suo conto?» si domandano questi ultimi perplessi leggendolo, proclamando un giorno la sua fede socialista, il giorno dopo rinnegandola – lo porta alla conclusione «ch’era meglio star zitti in disparte.

Non c’era presa, non c’era glutine fra lui e questi altri d’intorno. E forse che in ultimo il torto era suo. Chi lo sa? Affondata così com’era nella sua torbidità elementare chissà che questa gente non avesse un suo più sicuro senso di vita, un suo fiuto a condurla diritta, che non lui maculato d’astratto e di poesie sebbene poi a parole sdegnasse la poesia e l’astratto».

Come tutti i giovani B. è «assoluto», agogna la perfezione, «ma le cose del mondo son di loro natura imperfette e perciò non andate d’accordo». L’«idealità» giovanile non è frutto dell’esperienza, ma «presa fatta e come artificialmente aggiunta sulla iniziale coscienza morale loro. Non ci son giunti vivendo, togliendo, aggiungendo, vivendo. Non l’han fatta in loro, l’han di colpo affermata». Per questo motivo, perché priva della prova fondamentale della vita, l’«idealità» dei giovani è astratta e inconcludente, nient’altro che un cliché. Essi «ipostatizzano l’istinto morale, ne traggon l’essenza assoluta e la fan metro del mondo». Vogliono l’eroismo e detestano qualunque forma di compromesso.

Peccare per giungere alla Vita

B. dice di odiare l’astrattezza, la poesia, esorta se stesso e gli altri a mescolarsi «alla vita degli uomini così come viene», «ma in verità gli piaceva il guardarla come da una specola alta dal mezzo di questo suo cenacolo […] di strambi scontenti e di giudicarla inattivo e da lontano invece che farla, viverla tormentosamente ogni giorno».

In questi passi, in questa aspra critica – e autocritica – della giovinezza è racchiuso il senso del racconto di Boine, il senso della vicenda del suo protagonista ovvero il passaggio, attraverso il peccato – definito tale perché definito e giudicato tale dalla morale pubblica, incatenata a vecchi e stantii pregiudizi che l’autore esorta a scardinare -, dalla «purità della morte» alla «purità della vita», l’emancipazione dall’astrattezza, dall’«idealità», l’uscita dal limbo in favore della vita, del fare la vita, vivendola «tormentosamente ogni giorno».

Dimostrazione di quanto l’astrattezza sia radicata in B., rappresentando la sua condizione esistenziale, è la scelta di tornare, terminati gli studi universitari, nella casa natale, che ama nel profondo, con tutto se stesso, e che rappresenta il rifugio ideale nel quale invecchiare tranquillamente, placidamente – invecchiare è il pensiero del protagonista ad appena ventisei anni, non gioire, non soffrire, non odiare, non temere, vivere insomma, ma invecchiare -, immerso nel silenzio, nel vuoto, nella sottile malinconia antica, decadente. Ma ecco che giunge l’«avventura», subdola, insinuante a stravolgere completamente i suoi piani:

«[…] amava la sua casa tranquilla, lo zittire dormiente della sua grande casa dove fin da bimbo era cresciuto su solitario (penombra per tutto, eco di vuoto, sottile odore di antico ed anche fuori, chiassuoli deserti nella calda quiete del sole); amava i suoi libri ordinati ed anche questo qualcosa di triste come un dolore sotterrato, affondato negli anni, nel pur placido e semplice viso della madre affettuosa. Amava starsene in pace qui e chissà? anche lui distillare pian piano qualche discreta dissertazione, qualche commentario alla maniera dei mistici tutto polposo, tutto buono di vita modestamente profonda e disperderlo anche lui come il nonno, qui, fra i testamenti e gli atti a far meditare e sognare qualche lontano nipote…

La conoscenza di Suor Maria

B. riesce finalmente a conoscere Suor Maria, alta, «gli occhi nel viso ovale grandi, maravigliati neri, ridenti». I due parlano, mentre addobbano l’altare con fiori freschi, odorosi, il parroco accaldato assopito in un angolo, ed è come se si conoscessero da un pezzo. La donna racconta di sé: è in convento da tre anni, ne ha ventuno ed è novizia da un anno; vi è entrata dopo la morte del padre – non le resta che una zia, badessa nell’Ordine, che l’ha convinta a farsi suora.

Durante il racconto della donna è «come se quel che di stilizzato disumano e lontano ch’è in una figura ammantata dall’abito sacro, si disciogliesse pian piano, si rimpolpasse di buona vita vicina, si rifacesse comprensibile e vivo». Della sua conoscenza con Suor Maria B. non parla con nessuno: «Fu, ch’egli, senza volere, s’era dentro creata come una nicchia di segreto romantico dove ci stava in un religioso ondeggiamento d’armonium una figura di giovane monaca da nessuno conosciuta e solo da lui».

Insomma, è come se la conoscenza della novizia, e la novizia stessa, fossero un frutto della sua immaginazione, una piacevolissima fantasia, o meglio, un piacevolissimo sogno nel quale rifugiarsi a occhi aperti, tra una riflessione e l’altra. Il narratore stesso sottolinea l’aspetto sognante, onirico dell’avventura: «la cosa, un po’ strana, gli pigliò dentro l’aspetto vago di un sogno a cui egli cedesse nel torpore della estiva calura». Tra i due giovani intanto si sviluppa una «curiosa amicizia», «amicizia tutta riguardose delicatezze quasi fanciullesche, fatta di cento cosette tollerate-proibite, ma infine ingenua ed onesta».

B. scivola così, giorno dopo giorno, in un perenne stato di ebbrezza in cui tutto vibra di vita, tutto vive, ogni singolo oggetto inanimato, morto, acquisendo un significato misterioso, come un geroglifico: «era come in una sconfinante ricchezza, come in un gorgogliante abbondare di sentimento su ad invadergli la netta intelligenza, a parlargli di vita gli oggetti e le più consuete cose». L’armonium di Suor Maria, ascoltato – precipitasse il mondo – quotidianamente, agisce sul protagonista come una droga, come hashish, come oppio, eccitandolo, fumigandogli la fantasia, mentre il mondo s’arricchisce, tripudia «abbondante e più vasto al di là della geometricità definita».

Il Peccato: due prese di coscienza

La prima parte del Peccato si conclude con la presa di coscienza, da parte di B. e della novizia, del sentimento profondo – troppo profondo -, passionale – troppo passionale, per entrambi, aspiranti asceti – sbocciatogli dentro, inesorabilmente, dopo un lento processo interiore lungo un intero anno, e l’ultima esecuzione di Suor Maria all’armonium risuona angosciante e disperata, lacerante come «un grido, un grido umano d’aiuto», seguito dal tonfo sordo dello sgabello rovesciato e dal rumore dei passi della donna «precipitosi in fuga». Qualcosa in entrambi si è strappato per sempre.

Boine cattura sulla pagina quel «vario tumultuare dell’universale vita», da lui percepito violentemente in tutta la sua caotica fluidità, che si allinea all’ampiezza disomogenea e totalizzante dello spirito. Quanto più la distinzione tra interno ed esterno si potenzia, tanto più i confini tra le due parti si assottigliano fino a scomparire nel risultato artistico: c’è nel suo mondo, che mostra sincronicamente «cento miliardi di variissime vite armonicamente viventi», anche il foglio stesso impiegato da Boine e la sua idea concepita nell’atto della scrittura. Il suo mondo è una ‘vallata chiusa’, come quella in cui si svolge la vicenda del signor B. e di Suor Maria, una cavità in cui gli echi interiori e quelli della realtà si intrecciano sonoramente: «la mia vita è amalgama, è pienezza aggrovigliata e commossa di pensiero e d’immagine».

Allo scrittore non interessa raccontare una storia, ma denunciare il dramma della sua anima, colma di contrasti insanabili. La necessità di compiere il peccato, per immergersi nella vita, è denunciata alla quarta pagina del romanzo, quando ancora la storia non è iniziata e lo scrittore è impegnato a presentare la scenografia: i giovani, dice, «non sanno il peccato: hanno la purità della morte, non la purità della vita».Boine è consapevole che arriva alla «purità sostanziosa» soltanto chi ha molto peccato: fare, vivere, salire, provarsi e risolversi – «dobbiamo fare»– rappresentano le tappe di un percorso evolutivo che è negato a chi non si concede di affondare le mani nel fango della vita e decide di permanere nel ‘limbo’ della realtà, vergine e reso forte dalle illusorie sicurezze che consentono una severità giudicante.

Giovanni Boine, «Il peccato»: dalla «purità della morte» alla «purità della vita». Introduzione e prima parte

‘La veranda’, o sul senso di fugacità della vita: il romanzo d’esordio di Salvatore Satta

In una visione alquanto cupa della vita, si accende una luce che la rischiara, sublimandola: la consapevolezza che nell’uomo c’è una scintilla divina che ha impastato anche il suo fango. Questa espressione fa riferimento alla figura di una strana donna, <<col viso di una strega>>, personaggio presente nel capolavoro del giurista Salvatore Satta, “La veranda”, romanzo composto tra il 1928 e il 1930, e che conobbe una vita travagliata, rimanendo non pubblicato per diversi anni e ricordando per certi versi, i “Canti Orfici” di Dino Campana.

Tale consapevolezza di cui è costituita la natura umana ribadisce, con evidente riferimento all’immagine biblica della creazione di Adamo, da un lato la concezione negativa dell’uomo, che è fango appunto, dall’altro la certezza che in mezzo a tanta miseria, materiale e morale, risplende il raggio illuminante di Dio, quel <<qualcosa di divino>>.

Nell’opera di Satta si narra delle vicende che si svolgono nella veranda di un sanatorio, dove sono ricoverati dei malati di tubercolosi, dal punto di vista di un avvocato alle prime armi, in cui è facile riconoscere lo stesso Satta, che si ammalò davvero di tisi nel 1926 e venne ricoverato nel sanatorio di Merano. Nel sanatorio la vita trascorre piatta, tra tante miserie umane, dove ogni uomo rappresenta ogni parte malata della società, e la malattia è la metafora e quasi la personalizzazione di quel male che toglie dignità e che <<sembra prospettare immagini di vita subumana>>.

Salvatore Satta ci fa entrare in un mondo simile a quello immaginato nelle commedie dell’assurdo di Perec, dove il nome dei malati è sostituito da anonimi numeri. La spersonalizzazione dei personaggi porta alla perdita della propria individualità, del proprio spessore. Nella “Veranda” non solo il personaggio ha ceduto il passo al tipo, ma il tipo è arrivato persino a spersonalizzare se stesso, che però non significa mancanza di profondità nel delineare i caratteri, ma risponde all’intima e letteraria volontà di fare del sanatorio lo specchio della perduta umanità.

Non desta meraviglia dunque l’aria di morte, musa ispiratrice del narratore, che si respira nel sanatorio, dove ognuno agisce nella piena rassegnata consapevolezza di essere ormai sul punto di venir tagliato con violenza dal prato della vita dall’inesorabile falce della morte, di cui la malattia è il triste messaggero, referente di terribili sventure.

Quella della “Veranda” è una scrittura certamente di un principiante, essendo questa la prima opera dello scrittore sardo, ma con una padronanza assoluta di quello che è il linguaggio narrativo di questo romanzo. Sono toccanti e pregevoli dal punto di vista stilistico le pagine in cui l’autore descrivi con echi saffici, le fasi dell’innamoramento nei riguardi di una malata del sanatorio o in cui si commuove al ricordo del suicidio di Baccalà o della madre lontana.

Il senso della fugacità della vita, personificato nel cupo tramonto dei vacui ideali perseguiti dal fascismo, come il De Profundiis, anima anche questo romanzo, insieme all’interrogativo che si pone il lettore riguardo al “demone” sattiano, che è istinto, quale componente divina, non materiale, una spinta interna, congenita ed immutabile ad agire e comportarsi in un certo modo, a prescindere dall’uso della ragione, di cui Satta condanna l’assolutizzazione, ricordando al lettore che esiste anche un altro strumento conoscitivo, che va oltre la ragione: l’istinto, appunto.

“Il weekend”, di Peter Cameron

Peter Cameron

<<Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria>>.(Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”).

Le parole di Pavese sembrano siano state cucite addosso al nuovo romanzo dello scrittore americano Peter Cameron, Il week-end, dove piccolezza, meschinità, turbamenti quotidiani, si perdono nella potenza della natura.

E’ trascorso ormai un anno esatto dalla morte di Tony, fratellastro di John e amante, per nove lunghi anni, di Lyle, critico d’arte di New York. Marian, moglie di John, ha così deciso che è giunto il momento di ricreare quell’atmosfera, quei magici momenti che custodisce nel cuore, quei momenti che il tempo non ha cancellato, sbiadito, portato con se. Ma ciò che i due coniugi ignorano è che Lyle, dopo il successo del suo ultimo libro sull’ascesa e sulla caduta dell’arte contemporanea, ha incontrato un giovane, Robert, di cui si è invaghito, in cui ha rigettato le sue speranze , quell’attesa interminabile “che la sua vita stia per cambiare“.

E così, quello che sarebbe dovuto essere un momento fatto di dolcezza, malinconia, lacrime e sorrisi, ricordi di un dolore mai cancellato, diventano una serie infinita di momenti imbarazzanti, parole non dette, silenzi colmi di rabbia e finta indifferenza verso quell’incontro che sporca ogni singolo ricordo, un amore che il tempo, mai, potrà cancellare. Perché, il tempo non cancella le ferite, non può farlo. Il tempo, quello che scorre forse troppo velocemente per chi, come Lyle, è rimasto aggrappato ad una flebile speranza che, un giorno, si possa sorridere ancora, è legato alla consapevolezza che nulla, sarà mia più come prima. Nulla potrà mai più riportare indietro l’amore di una vita intera.

Peter Cameron, ci mostra la dolcezza, la bellezza, la paura, di entrare nei meandri nascosti della mente umana. Sentimenti che si cerca di nascondere ad un mondo indifferente ai nostri dolori, perché ogni dolore appartiene, in modi e misure diverse, solo a chi ha subito quella perdita, quella perdita che con se, porta via anche la speranza di poter, un giorno, essere ancora in grado di sorridere, amare, ricominciare. Attraverso le sue parole, Cameron, porta il lettore in quel mondo segreto, nascosto, chiuso nell’anima di ogni personaggio, di ogni uomo. Un luogo in cui le domande, le ansie, le angosce, le paure, restano sigillate, chiuse e pronte ad esplodere, come un vecchio armadio che non può contenere più nessun abito.

Ma Lyle lo sa, è consapevole del pericolo in cui incorre nel portare questo giovane ventiquattrenne in quel luogo in cui la presenza di Tony è ancora troppo viva, nonostante quell’assenza concreta a cui, nessuno, potrà mai riparare. Perché Tony è li. In ogni oggetto, in una cena in giardino, in un bagno nel lago, in ogni parola, sguardo… in ogni lungo silenzio.

In un tempo labile, veloce, eppure lento e inesorabile, in quel weekend in cui tutto, avrebbe dovuto essere perfetto, la presenza di Tony è ancora troppo “viva” per poter anche solo sperare di dimenticare quella nuova presenza incarnata nel volto di Robert che, in qualche modo, sostituisce, o forse semplicemente occupa, un posto che non può, non deve appartenergli.

Ed è il dolore a dare consapevolezza. Il dolore, quello nascosto al resto del mondo, quello con cui facciamo i conti quando apriamo gli occhi e, solo per un istante speriamo sia stato solo un brutto sogno, cerchiamo di percepire ancora una presenza che, ormai, è solo assenza.

“Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo porta via è andato, e poi si resta con qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai.”

Un libro che si legge con piacere, per la straordinaria capacità di far immergere il lettore in quell’atmosfera minimalista dove lo scrittore analizza la psiche umana.

‘La casa in collina’: la guerra mondiale e intima descritta da Pavese

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“Pensai incredulo alle colline e alle vigne di quassù. Che anche qui si sparasse, si tendessero imboscate, che le case bruciassero e che la gente morisse, mi parve incredibile, assurdo.” Il Pavese de “La casa in collina” è un Pavese forse inedito: i toni solipsistici di una solitudine quasi “fine a se stessa” di altre sue opere come “Feria d’agosto”, “La bella estate”, appaiono qui come abbandonati.

Il Pavese che fa pronunciare a Corrado quelle parole è forse un autore già all’apice della sua maturità letteraria, senza neanche che, come la maggior parte della critica scrive, occorra aspettare “La luna e i falò”.
Composto nell’immediato dopoguerra, “La casa in collina” è un racconto “diverso” della resistenza, della guerra: diverso perché il protagonista Corrado non partecipa alla resistenza, ma ne avverte il disagio. Detto così, però, l’intento che Pavese vuole trasmetterci con quest’opera, appare disatteso: in realtà possiamo benissimo dire che Corrado partecipi alla resistenza e alla guerra, ma vi partecipa in maniera “intima”. In questo caso il luogo della guerra  e della resistenza non è il campo di battaglia, ma è l’anima del protagonista. Allo stesso modo è interessante vedere come, durante il racconto, si rincorra una certa similitudine tra “le colline” e appunto l’anima tormentata del protagonista: le colline come luogo dell’anima, sembra una descrizione più che mai appropriata.

La casa in collina è proprio la casa delle due donne (Elvira e la madre) che Corrado raggiunge la sera, rincasando dall’osteria che si trova a valle, dove è solito intrattenersi con Cate (un suo vecchio amore), Dino (il figlio di Cate), il cane Belbo, Fonso (il partigiano). Dalla collina Corrado vedrà Torino in fiamme, vedrà risplendere i fuochi degli attacchi tedeschi che possono essere paragonati a quei film di fantascienza che parlano di sbarchi alieni, con le luci delle astronavi che illuminano il cielo, insomma come qualcosa di già soltanto visivamente spaventoso.

A sprazzi però il protagonista si lascia andare a delle speranze, come la similitudine tra l’avanzare della primavera e la fine della guerra: similitudine che però sarà disattesa.
La narrazione si fa più nervosa quando accade l’episodio chiave: i tedeschi catturano Cate e gli altri dell’osteria: Corrado è disperato, fugge tra le colline e capisce che i tedeschi di lui non sanno niente perché probabilmente nessuno tra Cate e gli altri, hanno parlato. Ma capisce che allo stesso tempo le colline non sono più un riparo per lui: “Non c’era su quelle colline un cantuccio, un porticato, un cortile donde almeno per quella notte guardare le stelle senza batticuore?”

“In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, ma volevo la mia. Volevo essere buono per essere salvo”. Così Elvira trova per Corrado un buon rifugio, il collegio dei preti a Chieri: lì sarà al sicuro, tra le mura del collegio, tra i volti dei ragazzi, tra le parole dei preti. Ma anche lì il terrore non lo abbandonerà: le orecchie sempre tese, i sensi sempre accesi per cogliere qualche pericolo. E una sera il terrore si presenterà reale: qualcuno al collegio può fare la spia. Il sospetto cresce angosciosamente in Corrado che per alcune sere non esce dalla sua stanza: alla fine un frate gli dirà che sarà meglio che si allontani un po’ dal collegio, per sicurezza. E così incomincia un vagabondaggio misero che porterà Corrado a comportarsi come un agnello indifeso in mezzo agli oscuri boschi: giorno dopo giorno cercherà di raggiungere la piazza del paese, poi si nasconderà tra le strade, sempre con il sottofondo degli spari, delle bombe e degli autocarri.

Verrà il momento che Corrado tornerà al collegio, ma gli studenti non ci saranno più: neanche Dino, che lo aveva raggiunto, sarà al suo fianco. Allora la sua solitudine, oltre che essere interiore, si farà anche materiale: arrivano notizie inquietanti dal mondo al di fuori della mura del convento. Corrado si interroga su Cate, su Belbo, si sente in colpa, possiamo dire, per questo suo stato di rifiugiato, per essere scappato. Verrà anche il momento che Corrado deciderà di tornare a casa, di affrontare le colline.
E ora l’immagine di questa “barriera di colline” che il protagonista  deve attraversare è molto diversa dalle “verdi colline” all’inizio del racconto: inizierà così un cammino da fuggiasco, per tornare a casa, si informerà sugli spostamenti dei tedeschi dai paesani che incontra, sbaglia molte volte strade, torna indietro, si nasconde.

Incontra un posto di blocco dei partigiani, che, non senza diffidenza, lo faranno passare. Si imbatte, da spettatore insieme a un vecchio contadino, a una rappresaglia di partigiani contro i Tedeschi: ma la scena non è descritta, è descritto solo il modo in cui Corrado si nasconde insieme al vecchio contadino e con il quale avverte solo la raffica di spari e il rumore dei carri. Quando l’imboscata sarà finita, l’uomo  esce allo scoperto: cammina tra i morti non permettendosi minimamente di scavalcarli, quasi come una forma di bigotto rispetto, forse, peggio ancora, di imbarazzo. Alla fine riuscirà a tornare a casa, sano e salvo. Ma il peggio lo aspetta ancora. Corrado sta male, si sente in colpa, avverte un grande disagio per quello che è accaduto ma non riesce a trovare una spiegazione.

“Mi accorgo che ho vissuto solo un futile isolamento, una inutile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra in un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscirne mai più”. Corrado alla fine del racconto non si assolve, non assolve il suo comportamento, anzi, si dissocia dal suo “io” dei mesi precedenti.
Molti tra i critici parlano di “egoismo” del protagonista che poi si risolve nella presa di coscienza di non essere riuscito a salvarsi, in realtà, perché “ogni caduto somiglia a chi resta”, perché alla fine i morti che ha visto per le strade possono somigliargli, ogni morto sconosciuto potrebbe essere addirittura lui, in realtà.

Il termine “egoismo” porta però intrinsecamente una ombratura di colpevolezza, di peccato: ma possiamo davvero incolpare Corrado di aver agito da miserabile egoista durante la guerra? Corrado è stato davvero un pavido per non essersi unito ai partigiani? Possiamo certamente assolvere la figura di Corrado, perché alla fine della storia riesce a rendersi conto di una cosa ancora più banale, ma per questo ancora più difficile: “Solo per i morti la guerra è finita davvero”.

“L’assassino”: l’arguta psicologia di George Simenon

Georges Joseph Christian Simenon (1903-1989) è autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico come ideatore del personaggio Jules Maigret, commissario di polizia francese. Prolifico scrittore, inizia la sua carriera a poco meno di sedici anni, a Liegi, come giornalista nella sua città natale. Trasferitosi a Parigi negli anni venti, diventa autore di narrativa popolare ottenendo grandi successi. Negli anni ’70 produce un considerevole numero di romanzi (gialli e non), tale da renderlo uno degli autori più letti e tradotti del XX secolo.

“L’assassino” (in originale francese “L’assassin”), è appunto uno dei suoi romanzi, edito nel 1937 da Gallimard e pubblicato in italiano nel 2011 dalla casa editrice Adelphi ,tradotto da Raffaella Fontana.

Hans Kupérus è un medico, ma anche un uomo corpulento, metodico, abitudinario, riservato. Ha da sempre un’ambizione frustrata: quella di diventare presidente dell’unico posto di ritrovo del piccolo paese in cui è cresciuto: il circolo del biliardo. È un martedì di gennaio e Kupérus è ad Amsterdam per una periodica riunione medica dove è solito fermarsi anche a dormire per tornare il giorno successivo, ma al convegno questa volta non si presenta. Entra in un’armeria e compra una pistola anche se non sa ancora cosa farne, poi riprende il treno per tornare in paese a Sneek.

È ormai trascorso un anno da quando un biglietto anonimo l’aveva messo al corrente che la moglie, quando lui andava in città, passava la notte fuori casa tradendolo proprio con la persona che da sempre veniva eletto tacitamente, per la sua altolocata posizione, presidente del circolo impedendogli di coronare il suo modesto sogno. Non lontano dalla stazione d’arrivo, il treno improvvisamente si ferma e Kuperus prende una decisione. Scende di nascosto e si reca nel capanno dove è certo di trovare i due amanti. Colti sul fatto, li uccide. Poi getta i corpi nel lago che, ghiacciando, li occulterà per tutto l’inverno. Quindi rientra in paese e passa al solito caffè, chiacchiera con gli amici e torna a casa. Al rientro Neel, la domestica, gli comunica che la moglie è andata a trovare dei parenti e che sarebbe rientrata il giorno dopo. Kuperus, come se fosse la cosa più normale, ordina a Neel, sulla quale aveva da sempre fantasticato, senza mai osare nulla, di raggiungerlo in camera da letto. Dopo un debole tentativo di dissuasione lei cede alle sue richieste. Da quella volta, Kuperus rinnova ogni sera la pretesa che viene silenziosamente soddisfatta, divenendo sempre più  coinvolto in questo strano menage. Così comincia questo romanzo noir , intrigante e  gelido come il suo protagonista, in cui Simenon segue la discesa nell’abisso di uno dei suoi eroi più tipici: uno di quelli che osano “passare la linea” e ne pagano il prezzo.

Pur utilizzando uno stile narrativo asciutto e poco incline a estetismi letterari, le opere di Simenon dimostrano una notevole capacità di ritrarre con arguta psicologia vicende dal sapore profondamente umano. Si parla addirittura di borghesizzazione del racconto giallo: uomini umili appartenenti alla borghesia, si trovano coinvolti in vicende drammatiche, passando sotto la lente di un osservatore attento e analitico, che nelle sue opere non si dilunga in descrizioni favolistiche, ma anzi ad esse dedica poche ed esaustive righe. Tutto è realtà e naturalmente anche il bigottismo e l’ipocrisia della società perbenista che condanna senza pietà l’assassino. Simenon attraverso la vicenda criminale e la discesa nelle tenebre della coscienza di Kuperus, dà grande prova di conoscere profondamente l’ambiente di provincia (in questo caso quella olandese ma è universale).

Molti dei romanzi di Simenon sono diventati film, sceneggiati e serie televisive. “L’assassino” è stato portato sullo schermo da Ottokar Runze, in un film tedesco dal titolo “Der Mörder”, uscito nel 1979.

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