‘Maria Sofia. L’ultima regina del sud’. Il saggio proustiano di Aurelio Musi

Maria Sofia Wittelsbach, sorella della celebre principessa Sissi, fu regina delle due Sicilie. Quinta di otto figli, trascorse l’infanzia e l’adolescenza tra Possenhofen dove la famiglia possedeva un castello, sul lago di Starnberg e il palazzo di Monaco dove si trasferivano per l’inverno. Fisico slanciato, portamento regale, occhi blu e folta capigliatura castana, Maria Sofia sposò per procura l’erede al trono di Napoli, Francesco II, l’8 Gennaio 1859 nella cappella del palazzo reale a Monaco. Questa è storia nota.

Ma la storia assume contorni letterari e nello specifico, proustiani, nel saggio dello scrittore, giornalista e docente di Storia Moderna, Aurelio Musi, dal titolo Maria Sofia. L’ultima regina del sud, edito da Neri Pozza, 2022.

La biografia dal piglio giornalistico che Aurelio Musi dedica a Maria Sofia Wittelsbach, moglie di Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, va oltre il dato meramente fattuale, perché pone nuove criticità e cerca al tempo stesso una sintesi. Musi fa riaffiorare alla superficie della storia, gli aspetti meno conosciuti di un’epoca che ancora oggi desta polemiche. Tali aspetti hanno a che fare con l’approccio cinematografico di Aurelio Musi al ritratto della regina Maria Sofia, il quale gioca con le sinestesie, travestendosi da Proust nello svelare il passato di una donna, attraverso le “intermittenze del cuore” o “epifanie”, e i propri ricordi nei manieri bavaresi “senza tempo”.

È un approccio che cattura l’attenzione del lettore, quello di Musi, perché la descrizione del luogo natale della regina del Regno delle due Sicilie, offre sempre suggerimenti e spunti che poi vanno esplicati, come l’Autore sa fare acutamente. «Sulla sponda occidentale del lago di Starnberg, a pochi chilometri di distanza da Monaco, si erge, fra monti e laghi, il castello di Possenhofen. Insieme con il lago di Starnberg e Roseninsel, il castello è stato anche reso famoso dalle riprese in esterni del film di Luchino Visconti, Ludwig». Il regista Luchino Visconti, aristocratico esteta, aveva colto prima degli altri, il carattere intrinseco della dinastia degli ultimi Wittelsbach, la loro tensione verso il vitalismo e verso il bello, con forti componenti d’irrazionalità. Il vitalismo fu una costante in tutta la vita di Maria Sofia, che fece da contro-altare alla rassegnazione del consorte Francesco II per il suo regno perduto. Maria Sofia e Francesco sono una coppia letteraria e cinematografica, due caratteri diversi ma complementari che arricchiscono le trame della Storia.

Aurelio Musi presenta in poche pagine le condizioni economiche e sociali del regno delle Due Sicilie, ormai sulla strada del declino. Alla fine irreversibile del regno corrispondeva in modo inversamente proporzionale il dinamismo di quella che Musi con una giusta metafora, definisce una novella “Giovanna d’Arco”. L’ «Ottobre [1860] fu un mese di intensa guerra e di profonde trasformazioni politiche per il Regno delle Due Sicilie. Il 1° ottobre la battaglia del Volturno vide episodi eroici da entrambe le parti. Le forze borboniche potevano contare su 28000 uomini con quarantadue pezzi d’artiglieria, mentre quelle garibaldine erano appena 24000 con soli ventiquattro cannoni. Francesco partecipò direttamente alla battaglia a fianco del generale Giosuè Ritucci. Cavalcava in prima linea e appariva trasfigurato agli occhi di Maria Sofia come fosse il più valoroso paladino tra tutti i re Borbone».

Tuttavia la storia intraprese un’altra direzione e i coniugi Borbone dovettero riparare a Roma per un esilio quasi decennale. « “Roma resta l’unico rifugio dopo il grande naufragio. Napoleone III non ha nessun ruolo nei miei affari personali. Io sono l’unico giudice competente del comportamento che devo avere”. Con queste parole Francesco II aveva risposto piccato all’emissario dell’imperatore francese, che voleva offrirgli protezione. Egli possedeva anche il titolo di principe romano ed era proprietario di palazzo Farnese a Roma, dove giunse con la famiglia e il seguito dopo lo sbarco a Terracina».

La corte napoletana in esilio continuava a mantenere a libro paga molti funzionari e presunti uomini di governo, divisi in fazioni, invidiosi tra loro. «Maria Sofia, pur non nascondendo la sua simpatia per gli esponenti meno reazionari della corte e del governo, cercava di tenersi lontana dalla guerra di fazione. Rimpiangeva Napoli e il suo golfo. Trascorreva il tempo con la sorella minore Matilde, Spatz,  che nel maggio 1861 sposava il conte di Trani, fratellastro del re». L’ultima regina del sud, di distingueva dunque tra la pletora dei cortigiani.

Nell’esilio romano inoltre, il governo borbonico di Francesco II continuò la guerra contro lo Stato italiano con una guerra di resistenza e di logoramento, fra due progetti di Stato, due idee nazionali, due re. Quello di Francesco II fu un governo senza Stato dando vita ad una contrapposizione che trovò la sintesi nel brigantaggio politico, strumentalizzato dalla corte borbonica per distruggere le basi del consenso del neonato Stato italiano. Maria Sofia fu odiata ed amata, suscitando sentimenti contrapposti, sfidando la sorte, offrendo all’alea il proprio corpo durante l’assedio di Gaeta; una Maria Sofia che «si risolleverà grazie alla sua vitalità: non più “regnante” ma “errante”, nell’Europa della Belle Époque, della prima guerra mondiale e del dopoguerra inquieto, continuerà con altri mezzi a tessere le fila della reazione all’unità italiana».

Il saggio di Musi è un libro denso che, oltre che a portare avanti una accurata ricostruzione storica scava fino in fondo, nell’introspezione psicologica di Maria Sofia, donna e regina, prendendo spunto da romanzi famosi, come “Il fauno di marmo” di Nathaniel Hawthorne, o “Le vergini delle rocce” di Gabriele D’Annunzio, in cui era definita «l’aquiletta bavara che rampogna». La letteratura serve all’autore per far conoscere meglio al lettore la personalità di una donna, protagonista di un romanzo storico e sentimentale personale e collettivo.

Maria Sofia è presente anche nella Ricerca del tempo perduto di Proust e precisamente nella Prigioniera e nei Guermantes, nelle parole pronunciate dalla duchessa di Guermantes durante il pranzo a cui era stato invitato anche il narratore»; la duchessa «con sarcasmo vuole insinuare che Maria Sofia sia assuefatta ai lutti in famiglia tanto da non farci più caso. Il narratore difende invece la dignità della regina di Napoli, sottolinea il valore dei sentimenti di affetto fra le sorelle, il dolore sincero di Maria Sofia per la tragica morte di Sissi e dell’altra amatissima sorella».

Il saggio di Aurelio Musi è un’opera precisa, ben argomentata (supportata da un’importante bibliografia) e puntuale della vita di Maria Sofia ma anche sulle sorti del regno borbonico e dell’Europa, senza risparmiare riferimenti polemici. Fin dalle prime pagine si avverte quel senso di stanchezza propria delle monarchie che da sempre hanno governato, L’Austria degli Asburgo in primis.  Quella che Maria Sofia lascerà nel 1925 è un’Europa profondamente diversa da quella che aveva acclamato il suo matrimonio, appena uscita dalla Prima guerra mondiale e già pervasa da quei sussulti che avrebbero portato alla nascita del fascismo del nazionalsocialismo. Inoltre il saggio offre l’occasione per potersi confrontare ancora una volta con il mito del Risorgimento italiano, che ha fondato la “Nazione Italiana”, nel senso Ottocentesco del termine e di tale “mitizzazione” non poteva non risentire il dibattito storiografico nel quale Musi entra con intelligenza ed equilibrio.
Interessante anche il passaggio in cui Musi mostra come Maria Sofia fosse presente anche nell’agone politico internazionale, la regina infatti si schierò a fianco di Zola nella battaglia intellettuale per la revisione del processo a Dreyfuss. Una figura dunque molto attiva nella vita politica europea a cavallo tra XIX e XX secolo.

11 frasi per comprendere come in realtà l’Unità d’Italia sia stata una colonizzazione del sud

L’Italia non è mai stata veramente unita. Quando una parte del Paese è volutamente tenuta sotto le soglie della povertà e nel degrado più totale, si tratta di colonizzazione, di guerra di conquista e non di unione.

Come diceva Bertold Brecht, chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente.

 

  • 1. Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi.  (Pino Aprile)

 

  • 2. L’improbabile “spedizione dei Mille” guidata dal massone Giuseppe Garibaldi è stata mitizzata dai  libri di scuola come una grande impresa militare, quando invece è noto a tutti gli storici più intellettualmente onesti che i garibaldini da soli non avrebbero mai potuto conseguire alcuna reale vittoria sul campo. (Marco Pizzuti)

 

  •  3. L’indipendenza dell’Italia si è dunque trasformata nella dipendenza dalla Lombardia e dal Piemonte.” (Karl Marx)

 

  •  4. In questo paese i nemici o l’avversario si uccidono, ma non basta uccidere il nemico, bisogna  straziarlo, bruciarlo vivo a fuoco lento … è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Affrica a farsi civili. (Nino Bixio In una lettera alla moglie del 21 novembre 1861 spedita da San Severo)

 

  •  5. La fucilazione sommaria divenne il solo mezzo repressivo a cui le autorità fecero ricorso … Se i briganti e gli stessi militari delle Due Sicilie avessero agito con uguale brutalità, forse la storia avrebbe avuto un diverso svolgimento. (Da Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Franco Molfese)

 

  •  6. Il brigantaggio non nasce da una inumana tendenza al delitto, ma di una vera e propria disperazione. Esso è la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie. (Da Lettere Meridionali, Pasquale Villari)

 

  •  7. Il Regno delle Due Sicilie fu invaso da avventurieri, opportunisti, traditori e dall’esercito piemontese zeppo di mercenari, senza alcuna dichiarazione di guerra. Ed i fratelli uccisero i fratelli.” Da I Savoia e il massacro del Sud (Antonio Ciano)

 

  • 8. Unirsi ai napoletani e come andare a letto con un vaioloso. (Massimo d’Azeglio)

 

  • 9. Sulla verità dei fatti di Bronte gravò la testimonianza della letteratura garibaldina ed il complice silenzio di una storiografia che si avvolgeva nel mito di Garibaldi, dei mille, del popolo siciliano liberato … E non è che non si sapesse dell’ingiustizia e della ferocia che contrassegnarono la repressione: ma era come una specie di – scheletro nell’armadio – tutti sapevano che c’era solo non bisognava parlarne, per prudenza, per delicatezza, perché i panni sporchi, non che lavarsi in famiglia, non si lavano addirittura. (Leonardo Sciascia)

 

  • 10. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala. (Francesco Noto).

 

  • 11. Maggiore, lei avrà sentito parlare di sicuro del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo; ebbene, il generale Cialdini non ordina, ma desidera che quei due paesi debbano fare la fine di Gaeta, ossia devono essere rasi al suolo ed i suoi cittadini massacrati. (Il generale Piola-Caselli al maggiore Melegari)

 

 

156 anni fa l’Unità d’Italia e l’inizio dell’insabbiamento culturale: conoscere la verità è un dovere di tutti gli italiani

Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l’Unità d’Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di “regime” stese, dai primi anni dell’unità, un velo pietoso sulle vicende “risorgimentali” e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d’influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II – il “Franceschiello” della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d’Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una “santa” e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente – d’essere stato – lui cattolicissimo – “la negazione di Dio”.

Soprattutto si minimizzò l’entità della ribellione che infiammava tutto il l’ex Regno di Napoli, riducendolo a “volgare brigantaggio”, come si legge nei giornali dell’epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della “cattiveria” dei Borboni contrapposta alla “bontà” dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano ancora da chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d’Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

Le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D’Azeglio enunciò nel secolo scorso “Abbiamo fatto l’Italia, adesso bisogna fare gli Italiani”, e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l’unità si ottenne, ammantando di leggende “l’eroico” operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall’esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall’esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile – nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte – e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere “liberate” e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un’immagine traviata e distorta, e del ‘700 e ‘800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d’oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l’unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello “straniero”.

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com’era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo “revisionista”, riconducendo anzi l’origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l’indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell’impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l’impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano diviso in due l’Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d’Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata. In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico pre-unitario e la classe borghese al servizio di un’economia nazionale

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: “Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d’industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d’altra parte, tutta l’industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (…) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all’occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell’economia nazionale”.

In realtà il problema centrale dell’intera vicenda è che nel 1860 l’Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l’unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell’Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del piemontismo, vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all’intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti “rapina” che si fecero ai danni dell’erario del Regno di Napoli, determinarono un’immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell’ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D’altronde le motivazioni politiche che avevano portato all’unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche. Se si parte dall’assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Il sud Italia: un boccone prelibato per Cavour

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato. L’abnorme debito pubblico dello stato piemontese con i potenti Rothschild e gli Hambro, procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni. Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l’emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d’oro e d’argento insieme alle cosiddette “fedi di credito” e alle “polizze notate” alle quali però corrispondeva l’esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della “convertibilità” della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l’istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato. In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d’oro o d’argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: “Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l’Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d’oro e d’argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d’emissione sarda – che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni – avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d’Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l’unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s’erano messi”.

Unità d’Italia: conseguenze economiche e politiche per il sud

A seguito dell’occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall’ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell’oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d’Italia, non risultò esserci tutto l’oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell’epoca). Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell’impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all’economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d’Europa), all’irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull’esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all”armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d’Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara:

La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all’intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l’uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un’autosconfessione. Quando, alle fine, quelle “innovazioni”, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L’agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all’esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali”.

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l’assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d’annessione, sia i costi divenuti astronomici dell’ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell’ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo “colonialista” tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: “Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala”.

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell’Italia unita a un crack finanziario. Le grandi società d’affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d’oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al “corso forzoso” cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un’inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l’Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità. L’odierna arretratezza economica del Meridione è soprattutto figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell’ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, – iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all’estero.

Nonostante gli interventi negli anni ’50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), ’60 e ’70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l’aiuto economico dell’Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d’Italia è ancora notevole.

La popolazione dell’ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del “brigantaggio”, stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d’ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell”800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri. Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell’Italia industriale.

La pubblicazione scientifica edita da Banca Italia degli studiosi Fenoaltea e Ciccarelli

Il processo di verità storica che da tempo sta squarciando il muro di oblìo eretto a difesa di una mistificata interpretazione delle vicende unitarie e post unitarie della nostra nazione, ha trovato nuovo e solidissimo impulso anche per merito di una recente pubblicazione scientifica edita da un’istituzione dall’indiscussa affidabilità quale la Banca d’Italia. Se fino ad oggi si è potuto confutare, su basi storiografiche peraltro tutte da verificare, quanto asserito da chi, carte alla mano, mira a dimostrare come il presunto processo unitario si sia risolto nei fatti in una feroce e avvilente colonizzazione del Mezzogiorno, oggi scende in campo la Banca d’Italia, con il suo indiscusso prestigio, a sancire, sulla base di incontestabili analisi e dati statistici, la verità di fatti troppo a lungo vergognosamente manipolati. Ebbene, a contraddire definitivamente un’ideologia mistificatrice della realtà di episodi che hanno costretto il Mezzogiorno ad una immeritata situazione d’inferiorità, irrompono con l’autorevolezza  che gli deriva dalla reputazione di studiosi il Prof. Stefano Fenoaltea, docente di Economia Applicata all’Università di Tor Vergata (Roma), insieme al collega Carlo Ciccarelli, Dottore di Ricerca in Teoria economica ed Istituzioni nella stessa Università, i quali certamente non possono essere tacciati di neoborbonismo, dato che spesso l’ignoranza più becera scambia un corretto e giusto revisionismo per lagnoso meridionalismo che dà la colpa della drammatica situazione in cui versano le regioni del sud, al passato e al “nord”.

Nel loro accuratissimo saggio, il cui alto valore scientifico ha meritato per i due economisti l’onore della pubblicazione da parte della Banca d’Italia, gli studiosi dell’Università di Tor Vergata hanno non solo reso manifesto, ma bensì confermato come all’origine dell’attuale sottosviluppo del Sud ci sia una bugiarda unificazione nazionale. Sin dalle prime pagine del loro lavoro di ricerca, apparso peraltro solo in lingua inglese nei “Quaderni di Storia Economica di Bankitalia”, n. 4, luglio 2010 (domanda: perché non in italiano e con adeguato resoconto pubblico?), Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli affermano così esplicitamente: “L’arretratezza industriale del Sud, evidente già all’inizio della prima guerra mondiale non è un’eredità dell’Italia pre-unitaria» (Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of industrial Growth in Post-Unification Italy, pag.22).

E’ un diritto sacrosanto quello della gente meridionale di riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un’analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d’Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai “briganti”, ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud “geneticamente” arretrato, produce un’ulteriore frattura tra due “etnie” che non si sono amate mai.

Il dibattito sull’Unità d’Italia è ancora aperto e vivace sull’ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il “rimescolamento” dovuto all’emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l’unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l’unità vi ha apportato.

L’enorme numero di morti che costò l’annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell’ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un’Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano. L’Unità d’Italia non è avvenuta secondo nobili ideali, come quelli che animavano Alessandro Manzoni, è stata una guerra per conquistare e depredare il sud. Se è vero che la storia è scritta dai vincitori  a distanza di più di un secolo e mezzo è ormai arrivato il momento di ripristinare un minimo di verità storica: personaggi come il generale Cialdini si macchiarono di veri e propri crimini verso le popolazioni, contadini ed ex militari borbonici che sono passati alla storia col nome di “briganti”, con paesi rasi al suolo e atrocità inenarrabili. Pochi sanno che tra i briganti, pur essendoci una buona percentuale di delinquenti comuni, molti erano mossi da ideali patriottici e libertari. Solo noncuranza, regole ferree ed estranee; pretese senza concessioni: questo offriva il nuovo padrone al sud che organizzò una disperata resistenza nel tentativo di ricostruire l’ordine perduto. Violenza chiama violenza, quella degli uomini in divisa passati alla storia per liberatori (basti pensare solo al massacro di Bronte, città della Sicilia dove esplose una rivolta popolare, vennero saccheggiati diversi edifici e trucidate sedici persone; per ristabilire l’ordine, Garibaldi inviò il generale Nino Bixio che dichiarò lo stato d’assedio ed impose pesanti sanzioni economiche alla popolazione. In seguito alla costruzione di un tribunale di guerra, in poche ore vennero giudicate circa 150 persone e di queste 5, che poi si scoprirà essere innocenti, furono condannate all’esecuzione capitale), e quella delle persone braccate che diventarono violente per necessità.

L’Italia non è cambiata; è diventata quello che oggi e perché e nata ed e stata raccontata in un certo modo. La retorica risorgimentale, piena di nobili intenti, eroi senza macchia, politici geniali e lungimiranti, e stata il tappeto sotto cui abbiamo nascosto la polvere della nostra storia. E se oggi si vuole capire questo Paese malato, affetto da vizi endemici che paiono inestirpabili, forse sarebbe bene ripercorrere i primi giorni della sua vita.

 

Fonte: Controstoria-l’insabbiamento della questione meridionale

Giordano Bruno Guerri: Il sangue del sud

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