L’appellite e la difesa della storia che più fa comodo degli intellettualoidi di Repubblica

Fossimo semi-colti come loro citeremmo il Friedrich Nietzsche autore di Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Invece ci limiteremo a parafrasare il drammaturgo tedesco Hanns Johst: «ogni volta che sento la parola appello metto mano alla pistola». L’appellite, la vocazione alla firma di proclami, tanto diffusa che negli anni sessanta e settanta del secolo scorso produsse spesso infiammazioni ai tendini della mano, dopo qualche anno di sonno è tornata in gran voga, non casualmente a partire dal 4 marzo dello scorso anno. Non c’è azione, soprattutto se dell’attuale governo, che ormai non sia accompagnata dall’appello, sempre inevitabilmente «morale» del «mondo della cultura» (pure a loro ormai fa ridere il termine intellettuale).

La compagnia di giro, come nelle migliori tradizioni circensi, è sempre la stessa, e più o meno coincide con il vasto e ben retribuito parco editorialisti di «Repubblica», che poi questi appelli diffonde: da Roberto Saviano a Massimo Recalcati, da Michela Marzano a Michele Serra, da Alberto Asor a Benedetta Tobagi, più qualche senatore a vita, che non guasta mai: il più gettonato è sempre l’archistar Renzo Piano. Le argomentazioni e i «concetti» sono sempre i medesimi, che si parli di immigrazione o di Unione europea, di legalità o di scuola: basta solo combinarli in maniera diversa. Si tratta in genere di dichiarazioni tanto infiammate quanto vaghe, che poco hanno da proporre di concreto, anche perché spesso rivelano una conoscenza superficiale di ciò di cui si parla. Quel che conta è la «denuncia», sempre a senso unico, e l’effetto polverone.

E proprio sulla scuola e sulla storia punta l’ultima lacrimevole chiamata alle armi, lanciata dalla senatrice a vita, Liliana Segre, e subito raccolta dai Nostri. Salvate la storia! La storia è importante, per non dimenticare! Cosa sarà successo? il governo vuole forse requisire e bruciare in piazza i libri e i manuali di storia, scritti nel 95% dei casi da autori di sinistra? Vuole forse cambiare i nomi delle vie, e chiamare «viale Palmiro Togliatti» a Roma «corso Gianfranco Miglio»? Niente di tutto ciò. Il ministro dell’Istruzione, Bussetti, ha semplicemente recepito l’indicazione di una commissione nominata dal suo predecessore, Valeria Fedeli (Pd e Cgil, a meno di un caso di omonimia), che suggeriva di eliminare il tema di storia alla maturità, per varie ragioni, a cominciare dal numero esiguo di studenti che la sceglieva. Oggi Bussetti in una lettera a «Repubblica» ha rassicurato che la storia alla maturità sarà presente, diluita in più prove: ma non è servito a placare il giornale, che ha subito anteposto un fuoco di fila.

Che dire? Prima di tutto che forse andrebbe messo in soffitta tutto l’esame di maturità, una vecchia tradizione, nobile e austera, ma ormai in scarsa sintonia con le esigenze pedagogiche contemporanea. Poi che tanti decenni della prova di maturità di storia non hanno impedito agli studenti di sortire dalle superiori nella quasi completa ignoranza della disciplina: da docente universitario di storia contemporanea ho pieno titolo per confermarlo. E che, infine, contrariamente a quanto vogliono far credere gli appellanti repubblichini, l’eliminazione della prova di storia non coincide con la sua cancellazione nel piani di studio, cosa che sarebbe demenziale: anzi il ministro ha promesso di aumentarne il peso.

Ma tanto quel che annuncia il ministro, per il «mondo della cultura» vale poco perché Bussetti, in più leghista, è per definizione un appestato. Qualcuno che vuole «eliminare la storia» per favorire l’oscuro disegno reazionario, autoritario e fascista, di «cancellazione della memoria», e per servire all’avvento del nuovo Dux…Matteo Salvini. Per questo l’ultimo, ennesimo, appello, non è nient’altro che un’azione politica mascherata del solito mondo della sinistra, della Cgil, o perlomeno dei suoi vertici, dell’ANPI, e via danzando. Tutto legittimo, per carità, ma si lascino in pace la cultura, la storia e la memoria. Prima di tutto perché memoria e storia sono due universi profondamente diversi: ed è anzi proprio dei movimenti e dei regimi autoritari finire per confonderli.

E poi qual è la memoria che gli appellanti repubblichini vogliono tutelare? Quella dei soldati italiani caduti nella prima e nella seconda guerra mondiale? Quella delle foibe? Quella dei morti ammazzati dai partigiani comunisti? Quella dei milioni sterminati dai gulag? Non si direbbe, così a naso. Facile che la storia che vogliano difendere sia quella raccontata per decenni sulla base dell’egemonia (catto) comunista e resistenzialista. Che finiva sempre per invadere le tracce della maturità, alcuni delle quali gridavano vendetta per ignoranza, partigianeria e mala fede. La stessa che aleggia oggi nelle parole firmate da noti esperti di storia e di scuola, come Saviano, Piano, Recalcati e Serra.

Marco Gervasoni

Vogliono difendere solo la loro storia: quella “rossa”

L’antifascismo dei cretini affogati nel ridicolo che tirano in ballo persino Dante

Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina.

Sopportavamo il vecchio antifascismo parruccone, trombone, un po’ di maniera. Arrivavamo a sopportare perfino un antifascismo di risulta, violento, intollerante, estremista. Finché si tratta dei dementi agitati dei centri sociali, di qualche femminista in calore ideologico o con caldane fasciofobe, oppure di sparsi cretini del grillismo e del vecchio sinistrismo, ce ne facevamo una ragione. Ma sconforta quando vedi pure intellettuali, direttori, editori, giornalisti, testate che avevano qualche credibilità intellettuale o almeno professionale, che leggevi e stimavi, avere una regressione idiota nell’odio verso un presunto e rinato neofascismo (che in realtà rinasce ogni settimana da 73 anni, in base ai loro dolori reumatici, i loro indicatori e delatori).

Per non restare nel vago, mi riferisco a firme, filosofi, giornalisti, scrittori che esercitano il loro mestiere su la Repubblica, l’Espresso, i loro paraguru genere Saviano, per non dire nei talk show e nei tg rai, mediaset (solo un po’ meno), la 7 e sky. Probabilmente un combinato disposto ha dato loro alla testa: il fallimento inglorioso della sinistra su tutte le ruote, l’avanzata popolare di Salvini, il trionfo in tutto il mondo e non coi colpi di stato ma a suon di voti, di leader e movimenti opposti alla sinistra. E poi le prediche, le censure e le leggi opinionicide di Suor Boldrina e Frate Fiano, solo per citare due chierici precursori di questo antifascismo.

Ma devono aver raggiunto uno stato patologico così avanzato questi malati del morbo d’Antifascismo, se perfino il Corriere della sera, si è di recente ribellato alla deriva idiota dell’antifascismo con un equilibrato editoriale di Paolo Mieli, un frizzante corsivo di Gramellini, un incisivo affondo di Panebianco, e scritti di Battisti, della Tarquini. Poi, leggi Paolo Giordano in prima pagina del Corriere che prende sul serio i calendari di Mussolini (è la scemitudine dei numeri primi), leggi Aldo Grasso che nega le pagine di storia sociale del fascismo, carte del lavoro e garanzie per pensionati e donne, leggi l’inquisizione filosofica della Di Cesare, più menate varie di antirazzismo e antifascismo e ti accorgi che il Corriere gareggia con la Repubblica sullo stesso terreno.

L’antifascismo patologico è a uno stadio acuto se il 4 novembre Furio Colombo sul Fatto sbaglia ricorrenza e dedica il suo fondo all’apologia del 25 aprile. O se un giornalista de La Repubblica, Maurizio Crosetti, accecato da furiosa demenza, auspica il massacro a Piazzale Loreto di Salvini. Ma la demenza ha pure valore retroattivo nei secoli andati. Sono reduce dall’imbarazzante lettura di un libro dedicato a Dante di tale Chiara Mercuri, pubblicato da Laterza, in cui si presenta Dante come un precursore dei dem, uno che va in esilio perché dalla parte delle lotte proletarie e viene citato tra i grandi di tutti i tempi insieme a Saviano, senza un minimo senso del ridicolo.

Saranno stati i fascisti del suo tempo a condannarlo a morte e all’esilio, evidentemente. Quelli che una polpetta avvelenata di nome Michela Murgia vorrebbe misurare col suo fascistometro, lanciato come ultima moda ideologica magari da adottare anche nelle aule e nei media per schedare e discriminare chi non la pensa come te. Un formidabile misuratore non dell’altrui fascismo ma della propria demenza faziosa.

Ho sempre ritenuto che meriti rispetto chi fu antifascista col fascismo vivo e imperante, un antifascismo fiero e scontato sulla propria persona; quello postumo che infierisce contro i morti no. Ma quello posticcio, surreale e caricaturale dei nostri giorni, è un triplice insulto: al fascismo, all’antifascismo e all’intelligenza degli italiani. Come è un insulto quotidiano alla memoria di tutti i caduti, a partire dagli stessi ebrei, le ossessive, petulanti, rievocazioni del razzismo e dei campi di sterminio, lette come eventi in corso di replica.

Il delirio antifascista e antirazzista porta anche ad alcune intelligenze un tempo rispettabili, un obnubilamento mentale con esiti deprimenti e grotteschi. Il tutto si accompagna a un ritorno di odio patrio, di antiitalianità, che sembrava superato da alcuni decenni, e che invece rigurgita, identificando l’amor patrio col più aggressivo nazionalismo: il modo migliore per favorire davvero questo slittamento. Vogliono combattere il sovranismo ma questo è il modo migliore per aiutarlo a dilagare. Dopo una faticosa riconquista di un rapporto migliore con i temi nazionali nei decenni scorsi, grazie allo sforzo di Craxi e Spadolini, di Ciampi e anche di Napolitano, la sinistra residuale di oggi ha avuto una regressione feroce quanto insensata contro l’italianità, un conato di vomito antipatriottico per sancire che loro sono dalla parte dei migranti. Stranieri first. Ecco il 4 novembre celebrato dalla parte degli austriaci, dei disfattisti e dei disertori.

Se ragionassi in termini politici, o peggio elettorali, dovrei gioire perché assisti allo spettacolo di un suicidio dei radical, affogati nel ridicolo in una lotta contro gli italiani. Ma non sono mai contento quando un avversario si autodemolisce e si autoridicolizza in quel modo; non mi piace, per la democrazia, per la circolazione delle idee, per carità di patria vederli schiumare di odio e di rabbia, peggio degli haters che deprecano (“Buonisti un cazzo”, tuonava elegantemente la copertina de l’Espresso). E per il rispetto, non corrisposto, che continuo a nutrire per le persone nonostante i loro pregiudizi e le loro occlusioni mentali. Ricredetevi, riavetevi, ripensateci. Non riducete il prefisso dem ad abbreviativo di dementi. Non seppellitevi nel vostro ridicolo rancore, elevando l’imbecillità a crimine contro l’umanità.

Marcello Veneziani, Il Tempo.

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