Considerazioni di un umarell sulla vita e la morte

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell’ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l’Ecclesiaste.

Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere.

Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell’io.

Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l’amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posterità.

Dall’altra parte come scrisse Totò nella sua celebre ‘A livella “Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!”. Dall’altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L’amore sembra vincere la morte, ma anch’esso è destinato a finire.

Scrive in una sua poesia Sanguineti:Ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati”.

Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, e altre illustri personalità. Leggevo dalla Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni ’70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai.

Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista “Prato Pagano” negli anni ’80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l’oblio è tiranno.

L’oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C’è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni “io l’ho conosciuto”, “a me una volta confessò”, “quando collaborammo assieme”, scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt’altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa.

Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell’oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani?

Quando l’italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora  in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l’editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime  pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero.

Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una “legittimazione culturale”, ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea.

Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Naturalmente quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C’è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone “La stazione di Zima” (ricordando il poeta russo  Evtusenko) scrive che “ci facciamo del male perché non ci capiamo niente”. Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell’amore, della morte.

Come scrive in un suo aforisma Morandotti “tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l’uso e la data di scadenza”. La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli “stati molteplici dell’essere”.

Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza. La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l’opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita.

Sorgono spontanee dal basso  delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c’è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi soprattutto riguardo l’amore.

L’amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio….Così sarà per quel poco che ci rimane….forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le  nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande.

Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:

Recitiamo un copione o un canovaccio?

Si recita a soggetto? Si naviga a vista?

Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali

di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato

e neanche quali mani supreme ci muovono

e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee

che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,

talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?

Dal punto di una linea non si può comprendere tutto

questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:

ecco perché forse non si può capire

mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.

Forse non c’è alcuna logica nei nostri istanti.

Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.

In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.

Anche se fossimo linee

(regolari, frastagliate o curve chissà?).

il disegno non è lineare e ci trascende.

 

Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato.

Pontedera negli anni ’80. Ricordi di provincia. Un racconto di Davide Morelli

Negli anni ’80 il futuro era roseo, a Pontedera. Si respirava la speranza. Non c’era la crisi di adesso. Le ragazze erano innamorate perse di Luis Miguel, dei Duran Duran, degli Spandau Ballet, di Miguel Bosè e di Antonio Cabrini. C’era chi era innamorato di Sabrina Salerno, di Lorella Cuccarini, di Samanta Fox, di Tracy Spencer.

La Rettore cantava Splendido splendente, ma i ritocchi erano una rarità e quasi tutte le ragazze non avevano seni prorompenti.  Si diceva elegantemente che i seni dovevano stare in una coppa di champagne. Alberto Camerini spopolava tra le giovani leve. Madonna e la Lauper avevano un successo mondiale.

Kim Carnes ci aveva stregato tutti con gli occhi di Bette Davis. Belinda Carlisle era bellissima. Il pontederese Riccardo Fogli vinceva nel 1982 il festival di Sanremo con Storie di tutti i giorni. La Piaggio era ancora degli Agnelli. La stella di Giovanni Alberto Agnelli sarebbe brillata negli anni 90. Ma torniamo alle cose frivole.

All’epoca non c’era ancora una cura efficace per l’acne. Pochi andavano in palestra. Tutti avevano un walkman. Claudio Cecchetto era sulla cresta dell’onda come produttore cinematografico. Erano molto seguiti il Drive in ed il Festivalbar. Vasco Rossi sfornava un successo dietro l’altro. A me piacevano molto le canzoni di Venditti, ma non disdegnavo gli altri cantautori. Gianni Togni cantava capolavori come Luna e Semplice.

Sting cantava Russians e denunciava le paure dei cittadini comuni nei confronti delle due superpotenze e della guerra fredda. Ci sentivamo in colpa per i bambini africani? Ecco allora che ascoltavamo We are the world del super-gruppo musicale Usa for Africa. Al cinema riscuotevano un enorme successo i film di Pierino e tutte le commedie all’italiana, che gli intellettuali disprezzavano, lodando Fellini e Michelangelo Antonioni.

All’epoca i cinema erano sovraffollati. Non c’era ancora il cd ma le cassette e i vinili. C’era chi faceva le ore piccole per guardare Maurizio Costanzo. Noi adolescenti guardavamo Colpo grosso presentato da Umberto Smaila. Non c’erano le TV satellitari e c’era invece Tutto il calcio minuto per minuto. Il Pontedera era in C2 e quando giocava in casa contro il Livorno lo stadio era pieno: cinquemila persone, quasi tutti labronici. Molti tifavano Pisa: il Pisa di Anconetani, che era allora in serie A. Molti altri tifavano la Fiorentina di Antognoni, arrivata seconda nel 1982.

La biblioteca era ancora alla villa Crastan. È passato molto tempo. Molti negozi storici hanno chiuso. Allora si riteneva erroneamente che il titolo di studio avesse una grande importanza. L’università sarebbe però diventata di massa negli anni 90. Dal settantotto la televisione era a colori. Chi aveva voglia di trasgressione faceva annunci e fermoposta. Cicciolina e Moana Pozzi erano diventate delle icone ed avevano sdoganato il porno.

Nel 1988 si iniziò a parlare di aids e ci fu davvero una psicosi soprattutto tra giovani. Regnava la disinformazione. Tutti iniziarono ad avere paura e ad essere sul chi va là. Tutti iniziarono a essere guardinghi. I giovanissimi ascoltavano Radio Valdera e lì facevano le dediche. Si scrivevano ancora lettere d’amore. Pochi usavano il computer. Io avevo uno Spectrum. Il personal computer più diffuso a quei tempi era il Commodore 64. Pochi conoscevano il BASIC. Pochissimi il linguaggio macchina. I calciatori non guadagnavano ancora cifre spropositate.

Berlusconi era solo un grande imprenditore e non era ancora entrato in politica. Governava la democrazia cristiana ma Craxi e Spadolini facevano gli aghi della bilancia. C’erano ancora i concorsi nello stato e c’erano ancora i portaborse le raccomandazioni. L’America era lontana ed era un sogno. Ascoltavamo Bob Dylan, Jim Morrison, Bruce Springsteen. A rifletterci oggi sappiamo che noi italiani importiamo le mode americane con venti anni di ritardo, sappiamo che l’America è cinque volte più popolata della nostra penisola e che le strade americane sono molto più grandi. Oggi da adulti siamo ben coscienti delle contraddizioni americane. Ma a quel tempo eravamo quasi tutti istintivamente esterofili.

Quanto tempo è passato! A quell’epoca gli adulti si ritrovavano tutti al bar Fornai sul piazzone. La nostra comitiva invece si trovava al bar Messicano, dove si poteva anche giocare al ping pong. Alle volte ci trovavamo anche davanti alla Gelateria veneta. Si andava alle feste dell’Unità al parco della Montagnola, caratterizzato da dei pini secolari. I deejay famosi erano Corrado e Biafra.

Allora non c’erano ancora le rotonde e la pista ciclabile. Non c’era ancora la superstrada e i fiorentini per andare al mare passavano tutti da La Rotta. L’Arnaccio era l’unica strada che andava da Pontedera a Livorno. Su questa strada c’erano molti morti perché ci passavano molti camion e il traffico era infernale; c’era il ristorante Baldini, dove si mangiava del buon pesce a prezzi accettabili. Alla stazione dei treni si poteva ancora lasciare la bicicletta senza farsela rubare.

Pontedera era nel bene e nel male la capitale della Valdera. Il sabato pomeriggio venivano sul corso tanti cittadini dei paesi limitrofi. Si sapeva già allora che le sigarette facevano male e provocavano il cancro, ma molti fumavano. All’epoca noi adolescenti non bevevamo alcolici. Non era come oggi che alcuni ragazzi finiscono in coma etilico nel weekend. La nostra comitiva si ritrovava sempre sotto i loggiati della pretura. Facevano ogni giorno delle vasche, cioè andavamo avanti ed indietro nel corso Matteotti.

Le sale giochi erano piene di giovani, di spacciatori di droga e di poliziotti in borghese. Io abitavo allora in via Venezia e nella stradina sterrata dietro casa c’erano i resti delle notti brave dei pontederesi: preservativi e siringhe. Pontedera era la capitale dello spaccio del circondario. Allora girava molta eroina. Chi si faceva le cosiddette pere si notava subito. Oggi non c’è più questa linea di demarcazione netta tra drogati e non. Sono molti i consumatori occasionali di cocaina e droghe sintetiche. Inoltre anche coloro che sono dipendenti da queste sostanze psicotrope si vedono meno, addirittura non saltano all’occhio. A quei tempi comunque non c’era la cultura dello sballo odierna.

Allora ero solo un ragazzetto. Il commercio pontederese non era così in crisi. Ponsacco era famosa per i suoi mobilifici. Le fiere del mobile di Perignano erano affollate. I livornesi compravano le case in campagna del nostro entroterra umido. I titoli di stato rendevano. I benestanti si facevano la casa al mare. Il lavoro si trovava. Cascina era famosa per gli artigiani del mobile. Erano anni spensierati per tanti. C’era chi guidava il Ciao e chi il vespino. Nei bar si giocava a flipper e a biliardino. C’erano ancora le cabine telefoniche e i gettoni. C’erano i paninari. C’erano le cassette per ascoltare musica e sul finire degli anni 80 anche le videocassette. In tanti usavamo la gelatina. Gli adulti invece utilizzavano la brillantina.

Le mode giungevano sempre in ritardo nella nostra provincia. C’era chi andava a ballare al Freedom di Fornacette, al Waikiki vicino allo stadio oppure al Boccaccio di Calcinaia. I più grandi andavano al Don Carlos di Chiesina Uzzanese. Al Boccaccio erano assidui frequentatori i santacrocesi, figli di proprietari di concerie. Si presentavano sempre con macchine di lusso.

Cuccare era fondamentale per la reputazione e io non cuccavo. Più tardi avrei capito che i drammi della vita sono altri. Oggi ci si sente protagonisti sui social. Allora ci si sentiva protagonisti nell’angolo di un bar oppure nella pista di una discoteca. Il liceo era provinciale e sonnolento. Di politica si parlava pochissimo.

Tutti si erano disaffezionati alla politica. C’era un ritorno al privato rispetto agli anni ’70. La reputazione di un ragazzo veniva fatta da cose stupide e frivole, che però allora sembravano tanto importanti e sembravano avere la priorità su tutto il resto. Firenze era un sogno. Firenze era troppo lontana. Era la Firenze briosa descritta da Tondelli. Mi sentivo ridicolo quando ballavo. Ero goffo. Ero imbranato negli approcci con l’altro sesso. Ero un adolescente sfigato.

Sono ricordi lontanissimi e sfumati ormai. A volte mi chiedo a cosa è servito tutto ciò? Ne ho forse tratto giovamento? Resta solo una serie di aneddoti. Resta qualche ricordo da condividere con qualche amico di vecchia data. Mi chiedo talvolta se vorrei davvero tornare indietro in un pomeriggio qualsiasi degli anni ’80. Mi rispondo sempre di no. Va bene così, anche se allora ero giovanissimo. I miei miti di allora ora sono anziani. Le ragazze che mi piacevano e mi dicevano no adesso sono mature madri di famiglia. Io stesso sono un omuncolo attempato. Cosa resta ad ogni modo oggi degli anni ’80? Qualche ricordo sbiadito. Soltanto questo.

E della crisi attuale? E di questi tempi nefasti che dire? Come scrisse Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”.

 

 

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