Mito: fascino e magia senza tempo

Nonostante la familiarità che tutti abbiamo con i racconti della mitologia, il mito rimane un oggetto misterioso che ogni cultura sembra forgiare secondo criteri propri e che non smette di affascinare; perché il mito è un qualcosa che accade ogni giorno.

Mito: origini

L’idea di una sfera mitologica come universo organico di racconti che precederebbe il nascere del logos e della filosofia è tuttavia estranea ai greci. L’opposizione tra mito e logos si svolge in modo lento e tortuoso: la Grecia rimane una terra di frontiera, dove il “favoloso” sopravvive accanto alla ragione “scientifica”.

Nel progetto politico di Platone, l’identità del mito e della parola parlata acquista un’evidenza estrema che investe la vita della città. Il parlato deve essere al servizio degli ideali della città.

Perché continuiamo ad essere affascinato dal mito, dal “c’era una volta”, tanto che spesso lo facciamo entrare nel nostro quotidiano?

Tra linguaggio e memoria

Se la prima mitologia è considerata da molto l’effetto di una malattia parassitaria del linguaggio, le cui tracce sono ancora riconoscibili sulla superficie scritta delle società più razionali, la mitologia in senso moderno è quindi un’invenzione della scrittura: nasce quando il segno scritto immobilizza il flusso della parola viva che si ripete in una infinità di varianti.

Per salvare una certa idea di mitologia, come sostiene Marcel Detienne, si evoca fin troppo spesso, l’inventività della memoria e dell’oblio, vissuti in perfetta unione con la naturalezza di Filemone e Bauci, favola contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, in cui si racconta della virtù dell’ospitalità che viene ricompensata.

Il mito nella modernità

Solo oggi è diventata viva e presente in modo quasi veemente la lotta della memoria e dell’oblio, da quando si sono moltiplicate le società, dove gli storici non sono diventati altro che dei funzionari e dei burocrati ufficiali, in cui la lotta contro il potere costringe uomini e donne ad alzarsi di notte, per ripetere, contro ogni speranza, le parole dei loro defunti privati della scrittura, o i versi fuggitivi e indimenticabili dei poeti messi al bando e assassinati?

Ma c’è paradiso per la memoria e per l’oblio? O forse non vi è altro che il lavoro dell’una e dell’altra  e i modi di lavoro che hanno una storia. Una storia ancora da iniziare. Ma nulla è più familiare del mitologia, perché come sosteneva Levi-Strauss, “un mito è riconosciuto come tale da ogni lettore, in ogni parte del mondo”.

Cos’è che ci affascina maggiormente della mitologia in un mondo senza miti, dove nello spazio di due o tre generazioni, tutto ciò che viene detto è soggetto a cambiamenti continui e inevitabili, qualunque siano l’autorità e il numero “dei ministri della memoria”?

Forse proprio questo flusso di parole, storie e racconti a cui ognuno di noi può togliere o aggiungere qualcosa, magari di più gradevole, come diceva Fontanelle, ma non con lo scopo di colorare qualcosa di già “falso”.

Alle nostre orecchie, il memorabile è inconsciamente e necessariamente vero e mai ci stancheremo di ripetere e ascoltare certe storie.

La mitologia allora non sarà proprio frutto di una memoria estranea ai processi della scrittura e libera dalla tirannia del testo? Solo la memoria inventiva, sorella dell’oblio, potrebbe salvare del tutto la mitologia o sottrarla all’erranza in cui i greci l’hanno condotta, durante le nostre letture.

L’opinione di Barthes

Su questo particolare aspetto, può venirci in soccorso Roland Barthes secondo il quale la mitologia può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una parola scelta dalla storia e non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”.

In sintesi Barhes vuole dirci che il mito è un sistema di comunicazione, avendo tutte le caratteristiche di un messaggio. “Il mito – afferma – non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità”.

Di una cosa si è sicuri, il mito non è un qualcosa di negativo negativo, ma, come farlo vivere in modo “eterno” in una società idolatra e non più iconoclasta come la nostra?

Sempre sulla scia di Barthes, per il quale vi è bisogno di una scienza della mitologia basata sulla semi-oclastia, probabilmente sarebbe opportuno riconoscere nelle narrazioni mito-logiche un elemento eternizzante da demitizzare, riconducendo tali favole al loro inaggirabile fondamento storico.

In fondo la nostra ragione si fonda anche su alcune finzioni. E nemmeno questo può rappresentare qualcosa di necessariamente negativo.

 

Fonte: L’invenzione della mitologia, Marcel Detienne

 

https://zeitblatt.com/mythology-timeless-fascination/?fbclid=IwAR0ReIninX_Uy-xS2aUfmBNhmRyGxDiyT5DpjnWgo0Ams8L0B_v8xKu9i5g

 

Roland Barthes, tra teoria e scrittura letteraria

Roland Barthes (Cherbourg, 12 novembre 1915 – Parigi, 26 marzo 1980), è stato tra i principali esponenti dello strutturalismo francese del ‘900, la cui indagine si colloca al confine tra diverse scienze umane, a metà fra il lavoro di ricerca teorica e quello di scrittura letteraria.

Dopo la morte del padre in una battaglia navale nel 1916, la madre, si trasferisce a Bayonne, dove Roland trascorre la sua infanzia. Nel 1924 si trasferisce a Parigi, dove  frequenta prima il liceo Montaigne e poi il Louis-le-Grand; alla Sorbona, Roland studia la letteratura classica, le tragedie greche, la grammatica e la filologia, e si laurea in letteratura classica nel 1939 e in grammatica e filologia nel 1943. Nel 1934 contrae la tubercolosi e trascorre gli anni dal 1934 al 1935 e dal 1942 al 1946 in dei sanatori. In questi anni egli continua a leggere e a scrivere e fonda una compagnia teatrale e incominciò a scrivere.Insegna presso i licei di Biarritz, Bayonne, Parigi, all’Università di Alessandria d’Egitto e alla Direzione Generale degli Affari Culturali.

Dal 1952 al 1959 lavora come ricercatore al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica, dal 1960 al 1976 è direttore degli studi presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Dal 1976 al 1980 ha la cattedra di semiologia al Collège de France. Nel 1953 pubblica Il grado zero della scrittura,opera che conferma Barthes come uno dei critici di maggior rilievo della letteratura modernista in Francia e che introduce il concetto di écriture in quanto distinto dallo stile, dal linguaggio e dalla scrittura, nonché molto affine alle opere degli scrittori del nouveau roman, con il suo rifiuto della soggettività. Barthes infatti è il primo critico a trattare autori come Alain Robbe-Grillet e Michel Butor, i quali evidenziano la condizione dell’uomo nella società moderna, basata sull’industrializzazione, la tecnologia, la scienza, preoccupandosi maggiormente delle cose  piuttosto che  dell’uomo, dando vita in questo modo ad una sorta di antiromanzo.

In Mitologie (1957), Barthes analizza i miti attraverso la semiologia, avvalendosi di quotidiani, film, spettacoli, mostre come materiale di studio;  nel saggio Su Racine (1963), si lascia andare a giudizi poco ortodossi nei confronti di Racine, generando delle polemiche. In Elementi di semiologia (1964), organizza le sue opinioni riguardo alla scienza dei segni, basandosi sul concetto di linguaggio e sull’analisi del mito e del rituale di Saussure. Analizza minuziosamente una novella di Balzac, Sarrasine,  e considera l’esperienza della lettura e le relazioni del lettore in quanto soggetto nei riguardi del movimento linguistico all’interno dei testi. Secondo il critico infatti il lettore è lo spazio dove tutti i molteplici aspetti del testo si incontrano.

L’ultima opera di Barthes è La camera chiara (1980), in cui la fotografia viene considerata in quanto mezzo di comunicazione; pubblicato postumo, è invece  il libro Incidenti (1987), il quale rivela l’omosessualità dell’autore. Proprio negli ultimi lavori del critico francese, viene  sviluppata una nuova teoria erotica e fortemente personale di lettura e di scrittura, dove emerge l’interesse per l’effetto fisico della letteratura e di altre forme d’arte, per l’edonismo offerto al lettore dai testi letterari, si pensi soprattutto a Frammenti di uno discorso amoroso, dove Barthes interviene con il suo sottile ingegno di linguista per collezionare discorsi spuri su termini come “abbraccio” e “cuore”, in un unico soliloquio. Per lui l’amore è un discorso sconvolgente ed  lo ripercorre attraverso un glossario dove recupera i momenti della “sentimentalità”, opposta alla “sessualità”, traendoli dalla letteratura occidentale, da Platone a Goethe, dai mistici a Stendhal. Un’opera non di facile lettura ma affascinante, ironica e spietata:

IO-TI-AMO La figura non si riferisce alla dichiarazione d’amore, alla confessione, bensí al reiterato proferimento del grido d’amore.

 

“Passato il momento della prima confessione, il «ti amo» non vuol dire piú niente; esso non fa che riprendere in maniera enigmatica, tanto suona vuoto, l’antico messaggio (che forse quelle parole non erano riuscite a comunicare). Io lo ripeto senza alcuna pertinenza; esso esorbita dal linguaggio, divaga: ma dove?”

 

“Esiste per me un «valore superiore»: il mio amore. Io non mi dico mai: «A che pro?» Non sono nichilista. Non mi chiedo qual è il fine. Nel mio discorso monotono non vi sono mai dei «perché»; ce n’è uno soltanto, sempre lo stesso: ma perché tu non mi ami? Come si può non amare questo io che l’amore rende perfetto (che dà tanto, che rende felice, ecc.)? Domanda la cui insistenza sopravvive all’avventura amorosa: «Perché non mi hai amato? »; o anche: «O, dimmi, dilettissimo amore del mio cuore, perché mi hai abbandonato?”

 

In Barthes il senso e il valore sono filtrati dalle griglie di lettura connotative ed è per questo che egli sostiene che “l’ideologia non è altro che la forma dei significati di connotazione”; e quindi anche i significati trasmessi dalle denominazioni di disciplina sono perlopiù determinati dai valori connotativi prodotti dall’uso, dalle congiunture storiche e dalle conseguenze passeggere della moda. Tuttavia la distinzione tra “teoria del segno” e “teoria del senso” consente di individuare il luogo esatto in cui la semiotica opera.

Non esiste una scuola di critica o di teoria barthiana, eppure Roland Barthes, critico dagli innumerevoli stili e approcci teorici, ammiratore della grande Greta Garbo (“Il viso della Garbo rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale, l’archetipo sta per inflettersi verso il fascino dei visi corruttibili, la chiarezza delle essenze carnali sta per far posto a una lirica della donna”), resta un modello fondamentale per tutti coloro che vorrebbero impegnarsi in questo campo intellettuale.

Gérard Genette: nascita della narratologia moderna

Il critico letterario e professore di letteratura francese presso la Sorbona Gérard Genette (Parigi, 1930) è senza dubbio una delle personalità di spicco, insieme a Barthes e Levi-Strauss, dello strutturalismo, nonché massimo esponente della narratologia moderna.

Nella sua analisi narratologica Genette parte dalla trattazione del racconto come enunciato narrativo. Il racconto infatti, secondo il critico, «designa l’enunciato narrativo, il discorso orale o scritto che assume la relazione di un avvenimento o di una serie di avvenimenti: così si chiamerà racconto d’Ulisse il discorso tenuto dall’eroe nei canti dall’IX al XII dell’Odissea, e dunque questi stessi quattro canti, cioè il segmento del testo omerico che pretende esserne la trascrizione fedele».

Il concetto di  racconto viene affrontato anche in altri termini: storici, ovveroquando esso designa la successione di avvenimenti, reali o fittizi, che fanno l’oggetto del discorso narrativo e le loro diverse relazioni di concatenamento,  Secondo questa definizione, l’ “analisi del racconto” non è altro che <<lo studio di un insieme di azioni e di situazioni considerate in se stesse, fattane astrazione del loro canale mediatico, linguistico o altro, che ce ne dà conoscenza, e strettamente narrativi quando il racconto designa  un avvenimento: però non quello che si racconta, ma quello che consiste nel fatto che qualcuno racconta qualcosa: l’atto del narrare preso in se stesso>>.

Nell’ambito del discorso narrativo il punto di vista indica le modalità di presenza del narratore e in tale ambito ci è utile fare riferimento alla focalizzazione, distinta da Genette in focalizzazione zero, ossia quando il narratore è onnisciente e controlla l’intera scena narrativa e ne sa più dei suoi personaggi, focalizzazione interna, quando il narratore si annulla dietro ai suoi personaggi e non ne sa più di essi e infine  focalizzazione esterna, quando il narratore si pone all’esterno del racconto e ne sa quanto i suoi personaggi.

Tuttavia, come ha notato Betrand, <<nella creazione della struttura del racconto il punto di vista è chiamato in causa anche dalla selezione di un personaggio e dal conseguente sviluppo che ne determina il percorso>>. Tale scelta è dovuta dai vincoli della testualizzazione, meccanismo molto importante ai fine dell’organizzazione della macchina narrativa consentendo agli altri attori di occupare una posizione secondaria, in questo ultimo caso si parla di prospettiva narrativa. Il significato di un testo dunque è il risultato delle relazioni intertestuali che intercorrono tra  la singola istanza testuale e l’universo testuale in cui viene inserito dal lettore.

A tal proposito prendiamo in esame i primi due capitoli di Germinale, romanzo di Zola nei quali vi è un’alternanza di prospettiva di Etienne Lantier e quella degli operai che si alzano per andare a lavorare. In seguito, il primo capitolo della seconda parte del libro introduce la prospettiva di alcuni borghesi e via dicendo. La scelta di una prospettiva, secondo Bertrand, implica il duplice meccanismo di selezione di un percorso narrativo e di occultamento sistematico degli altri percorsi possibili. Ad esempio il narratore della fiaba si avvale della prospettiva dell’eroe, il quale si fa interprete dei valori della comunità, nascondendo la prospettiva dell’antagonista.

Volendo sintetizzare, Genette si è occupato dello svelamento dei meccanismi linguistici, prendendo in considerazione i vari punti di vista della letterarietà, applicando questo metodo a diverse opere, tra le quali spicca La Recherche di Proust. Il critico ha affrontato la questione in diverse opere come le celebri Figure e Discorso del racconto.

Italo Calvino: realista visionario?

Il barone rampante

Italo Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las VegasCuba, dove i genitori, una naturalista e un agronomo, dirigono una scuola di agraria e un centro sperimentale di agricoltura. Nel 1925 la famiglia Calvino si trasferisce a Sanremo, dove lo scrittore trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza. Nel 1941 poi avviene lo spostameno a Torino, dove decide di  iscriversi alla Facoltà di Agraria: in questo periodo inizia a comporre i primi racconti, poesie e testi teatrali.

Nel 1943, per evitare di essere arruolato nell’esercito di Salò dopo l’8 settembre, decide di entrare nella brigata comunista Garibaldi. Da quel momento inizia la sua gioventù nella Resistenza. L’ambiente culturale di Torino, che Calvino frequenta assiduamente, ed i fermenti politici di contrapposizione al regime, fondono in lui letteratura e politica. Grazie all’amicizia ed ai suggerimenti di Eugenio Scalfari (già suo compagno al liceo), focalizza i suoi interessi sugli aspetti etici e sociali che coltiva nelle letture di Montale, Vittorini, Pisacane. Nel 1943 si trasferisce alla facoltà di Agraria e Forestale di Firenze, dove sostiene pochi esami. Calvino aderisce assieme al fratello Floriano alla seconda divisione d’assalto partigiana “Garibaldi”:   si definirà un anarchico, ma in quegli anni di clandestinità impara ad ammirare gli esiti positivi dell’organizzazione partigiana comunista. Il 17 marzo 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie partigiane. Ricorderà l’evento nel racconto “Ricordo di una battaglia”, scritto nel 1974. L’esperienza partigiana sarà alla base del suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno” e della raccolta di racconti “Ultimo viene il corvo”.

Nel 1945, dopo la guerra, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere. Nello stesso anno aderisce al PCI.IN questi anni inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista“Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nello stesso periodo  si afferma la casa editrice torinese Einaudi(fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi) con famosi collaboratori e consulenti, tra cui Pavese eVittorini.
Su suggerimento di Cesare Pavese, conosciuto ormai già diversi anni prima, viene pubblicato nel 1947 il suo  primo romanzo , “Il  Sentiero dei nidi di ragno” e la successiva raccolta di racconti “Ultimo viene il corvo” (1949).

In questo periodo la vita dello scrittore cubano viene scossa profondamente dal dramma del suicidio dell’amico Cesare Pavese, nell’agosto del 1950: in varie lettere e scritti, Calvino mostrerà di non sapersi mai dar pace per non aver intuito il profondo disagio di uno dei suoi primi e più cari amici.

Nel 1952 viene pubblicato “Il visconte dimezzato” – il primo della trilogia “I nostri antenati” –  nella collana Einaudi “I gettoni”, diretta da Vittorini. Si assiste ora al diverso stile di Calvino, che si fa più fiabesco e allegorico, confrontandolo con il precedente stampo neo realista.
Nel 1956 vengono pubblicate le “Fiabe italiane”, un progetto di raccolta, sistemazione e traduzione di racconti della tradizione italiana popolare. Nel ‘57 lascia il PCI, dopo l’invasione da parte sovietica dell’Ungheria.

In questi anni scrive diversi saggi, tra i più importanti “Il midollo del leone” (1955), sul rapporto tra letteratura e realtà. Collabora con diverse riviste, tra cui “Officina”, la rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”. Il suo nuovo stile, quasi visionario, che sarà destinato ad aprire altre nuove strade nella letteratura italiana, vede la luce anche con i suoi più celebri romanzi, scritti in questo periodo:”Il  Barone rampante” (1957), “Il Cavaliere inesistente” (1959), che completano la trilogia cominciata nel ’52 con “Il visconte dimezzato”.

Nel 1962 conosce una traduttrice argentina Esther Judith Singer con cui si sposa nel 1964 e con la quale si trasferisce a Parigi nello stesso anno. Nel 1963 pubblica “La giornata di uno scrutatore”, romanzo che lo riporterà a scenari neo realisti. In questi anni Calvino mostra interesse per il neo nato gruppo di Intellettuali “Officina 63”, ma non ne aderisce, non condividendone infatti l’impostazione di fondo.
Sempre nel 1963 esce, nella collana einaudiana “Libri per ragazzi”, “Marcovaldo ovvero le stagioni in città”, una serie di racconti incentrati sulla figura di Marcovaldo: qui si instaura la più importante riflessione che Calvino opera sui rapporti tra uomo e tempi moderni.
Nel 1966 perde  un altro amico, nonché figura determinante per la sua formazione: Elio Vittorini. Gli dedicherà il saggio “Vittorini: progettazione e letteratura”, in cui traccia nel saggio il pensiero d’un intellettuale aperto e fiducioso, in dissonanza col pessimismo letterario di quegli anni, della decadenza e della crisi.

A Parigi entra in contatto con lo strutturalismo e la semiologia di Roland Barthes: l’attenzione che questa scuola critica rivolge a come sono strutturati e “costruiti” tutti i testi letterari si rivelerà decisiva decisivi per lo sviluppo della narrativa calviniana, soprattutto negli anni Settanta.
Calvino in questo periodo costruisce il suo apparato “filosofico”, anche grazie alle frequentazioni con movimento OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, Laboratorio di letteratura potenziale), in cui è presente anche Raymond Queneau, autore de “I fiori blu” e degli “Esercizi di stile”.

Questi incontri e influenze propizieranno il “periodo combinatorio” dell’autore, in cui si mostrerà strettamente dipendente dalla riflessione strutturalista sulle forme e le finalità della narrazione. Infatti da questo periodo escono fuori,  nel 1965 “Le cosmicomiche” e nel 1967 “Ti con zero”, una serie di racconti “fantascientifici” e paradossali sull’universo; nel 1972 pubblica poi uno dei suoi romanzi più celebri,  “Le città invisibili” e nel 1973 “Il castello dei destini incrociati”, racconti basati appunto sul gioco combinatorio e sulla sperimentazione linguistica, aprendo cosi nuovi e inesplorati campi.

Nel 1979 è la volta di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, un metaromanzo (e cioè un romanzo sul romanzo stesso): nessuno mai aveva realizzato una cosa del genere, almeno non in Italia e non nel modo in cui lo fa Calvino.

. Nel 1983 pubblica i racconti di “Palomar”, che altro non sono che una rielaborazione narrativa di alcuni suoi articoli pubblicati in quegli anni su “Repubblica” e il “Corriere”, in cui il protagonista, un uomo di nome Palomar, con le osservazioni sul mondo porta il lettore a riflettere sull’esistenza umana e sul valore della parola. Nel 1984 lascia, dopo quasi quarant’anni,  la Einaudi e passa a Garzanti, presso cui pubblica “Collezione di sabbia”.

Nel 1985 viene invitato dall’università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Inizia così a preparare le sue lezioni, ma viene colto da un ictus nella sua casa a Roccamare,presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena. I testi vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio”. In ogni lezione Calvino riflette sui valori programmatici della letteratura futura partendo da quelli per lui cruciali e determinanti: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e l’ultima, solo progettata, Consistenza.

Oltre alle “Lezioni americane” escono postumi anche i seguenti tre volumi “Sotto il sole giaguaro”, “La strada di San Giovanni”, “Prima che tu dica pronto”.

 Il contributo di  Italo Calvino alla letteratura italiana, e forse mondiale, risulta innegabile: da molti è stato riconosciuto infatti come uno dei grandi innovatori, capace di combinare influenze, trame, visioni, per giungere a nuove concezioni della letteratura, soprattutto per quanto riguarda il rapporto dell’uomo alla luce dei tempi in cui vive, evidenziandone disagi, drammi, a volte anche felicità e comportamenti visionari.

Quello che colpisce maggiormente  della sua  vita letteraria, è la straordinaria  abilità di essersi espresso sia in termini strettamente legati all’uomo, sia  alle sperimentazioni sulla narrazione,  a vere e proprie “visioni” sull’universo e sulla nascita della vita, al limite tra il metaforico, il fantastico e l’ironico.

Alcuni definiscono i suoi romanzi come i primi romanzi “d’avanguardia”: dare questo tipo di etichette, soprattutto quando ci si riferisce a certi pilastri del pensiero letterario, può essere, oltre che riduttivo, anche poco pertinente. Meglio, forse, considerare Calvino soprattutto per quello che ha rappresentato nelle generazioni di scrittori successivi, le influenze che oggi risultano a lui innegabilmente riconducibili: in questo modo non si correrà il rischio di restringere il campo dell’esistenza di un autore, che, probabilmente è e sarà, senza tempo.

  

 

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