Premio Strega 2016: i 5 finalisti

Due giorni fa, a Roma, in Casa Bellonci si è chiusa la votazione per designare i cinque finalisti dell’edizione del Premio Strega 2016. Il premio è promosso, come sempre, dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega con il sostegno di Roma Capitale e Unindustria (Unione degli Industriali e delle Imprese Roma Frosinone Latina Rieti Viterbo).
In Casa Bellonci gli Amici della domenica, il corpo elettorale del premio, presieduto da Nicola Lagioia, vincitore del Premio Strega 2015, ha sommato i voti elettronici e delle schede cartacee. Ai voti dei 400 Amici della domenica, si aggiungono i voti di 40 lettori forti selezionati da librerie indipendenti italiane associate all’ALI e 20 voti provenienti da scuole, università e Istituti Italiani di Cultura all’estero.
Si è delineata così la cinquina finalista del Premio Strega 2016:

La scuola cattolica edizioni Rizzoli di Edoardo Albinati (voti 202)
L’uomo del futuro edito da Mondadori di Eraldo Affinati (160)
Se avessero, edizioni Garzanti di Vittorio Sermonti (156)
Il cinghiale che uccise Liberty Valance edizioni minimum fax di Giordano Meacci (138)
La femmina nuda edito da La nave di Teseo di Elena Stancanelli (102)

Gli autori e i libri finalisti esclusi dalla precedente votazione sono:

L’addio edizioni Giunti di Antonio Moresco
La figlia sbagliata edizioni Frassinelli di Raffaella Romagnolo
Dove troverete un altro padre come il mio edizioni Ponte alle Grazie di Rossana Campo
La reliquia di Costantinopoli edito da Neri Pozza di Paolo Malaguti
Le streghe di Lenzavacche edizioni e/o di Simona Lo Iacono
Conforme alla gloria edizioni Voland di Demetrio Paolin
Dalle rovine edizioni Tunué di Luciano Funetta

Mai assenti i colossi dell’editoria al Premio Strega, ma a sorpresa anche case editrici piccole, indipendenti e appena nate come La Nave di Teseo e la più consolidata Minimum fax. Nella cinquina finalista del premio la presenza del colosso editoriale italiano appena creatosi sul mercato è forte ma è evidente la volontà di dare spazio a linee alternative che riguardano le case editrici indipendenti.

Autentica novità è certamente Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Meacci, probabilmente l’unico vivo lavoro linguistico di questa cinquina orientata stilisticamente sulla narrativa più classica, con l’asse -Albinati-Stancanelli-Sermonti-Affinati. Anche Se avessero di Sermonti non è una presenza letteraria da poco.
Per ora sembra che il predestinato vincitore sia Edoardo Albinati; con il suo La scuola cattolica, lo scrittore si immerge nella confessione dell’adolescenza, tra sesso, religione e violenza. Da non sottovalutare L’uomo del futuro di Albinti e La femmina nuda della Stancanelli.
Non resta che aspettare l’appuntamento dell’8 luglio per decretare il vincitore di questa settantesima edizione del Premio.

Premio Bancarella 2015: i finalisti

Quest’anno il Premio Bancarella giunge alla sua 63esima edizione. Qualche giorno fa sono stati resi noti i sei finalisti; a contendersi il premio nella serata finale del 19 Luglio a Pontremoli ci saranno:

“Rex” di Giulio Massobrio (edito da Bompiani)
“La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin” di Enrico Ianniello (ed. Feltrinelli)
“Niente è come te” di Sara Rattaro (ed. Garzanti)
“Solo il tempo di morire” di Paolo Roversi (edizioni Marsilio)
“I volti di Dio” di Mallock (edizioni e/o)
“Se chiudo gli occhi” di Simona Sparaco (ed. Giunti)

Il romanzo Rex, di Giulio Massobrio, è un’avventura ambientata alla fine degli anni ’30 fra le due sponde dell’Atlantico. Alleati e Nazisti sono a caccia di una pergamena che contiene la mappa di una misteriosa città romana; tra le due fazioni in lotta, una giovane archeologa cerca di sopravvivere e proteggere un segreto millenario.
La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin di Enrico Ianniello è invece l’ironica storia di un ragazzo che scopre di avere un dono davvero particolare: sa fischiare come nessun altro. La sua abilità potrebbe diventare una nuova forma di linguaggio universale, capace di dar vita a una rivoluzione, ma qualcosa arriva a scombinare tutto.
Niente è come te di Sara Rattaro è la storia di un incontro: due persone, un padre e una figlia, che non si sono praticamente mai visti e che devono trovare una strada comune che li leghi l’uno all’altra. Con Solo il tempo di morire di Paolo Roversi ci troviamo immersi in un noir milanese ambientato fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Fra corruzione, malavita, droga, donne fatali, tradimenti, omicidi Roversi ci consegna uno spietato ritratto della capitale del Nord.

Un vero e proprio giallo sembra essere I volti di Dio di Mallock; la storia di un commissario chiamato a investigare su un serial killer conosciuto come il “Truccatore”, omicida imprendibile autore di numerosissimi delitti, porterà ad una soluzione impossibile, con indagini sconvolgenti.
Il romanzo di Simona Sparaco Se chiudo gli occhi ci accompagna alla scoperta di rapporto fra un padre assente per scelta e sua figlia. Il loro incontro li condurrà ad un segreto che potrebbe avvicinarli definitivamente o allontanarli per sempre.
I sei volumi in gara saranno giudicati dalla Giuria del Premio costituita da 200 librai e presieduta da Franco Cardini. L’inaugurazione del calendario della manifestazione ha avuto luogo, come da tradizione, nella cornice della Sala Consiglio della Banca Cesare Ponti di Milano.

Il premio Bancarella è e continua ad essere uno dei pochi premi al mondo ad essere gestito esclusivamente dai librai. Questa la sua forza, questa forse anche la sua debolezza; una peculiarità tutta italiana che però non demorde e che continua ogni anno a portare in giro per l’Italia la “bancarella” e i libri.

‘Le vite di Anna’: l’amore che salva, di Angela Di Maio

Le vite di Anna (2014) è un romanzo breve della scrittrice emergente Angela G. Di Maio e pone al centro la storia di Anna, articolata su più episodi, concentrandosi sul tema drammatico dell’anoressia, dell’autolesionismo, dell’abuso di farmaci. Ma il romanzo trasmette anche il desiderio di rivalsa, di rinascita, la volontà di gettarsi alle spalle un passato assai doloroso. Le vite di Anna presenta un’organizzazione narrativa frammentata in due parti: la prima è formata da 5 racconti, tutti aventi come protagonista una donna, Anna, per l’appunto, ed un uomo, sempre lo stesso ma in differenti contesti, la seconda invece consta di due capitoli più una lettera conclusiva.

L’elemento immancabile di ogni racconto è l’incontro, narrato in prima persona dalla protagonista. Nonostante possa sembrare si tratti di storie separate, prive di nessi, dal sesto capitolo si si svela tutt’altro, un dettaglio che fa luce sul legame sotterraneo tra le diverse vicende. Dal punto di vista stilistico è chiara la scelta dell’autrice di ironizzare talvolta su se stessa, sui difetti fisici, sulla sua androginia, sul fatto che, le altre sembrano perfette, mentre lei, Anna, sembra un maschiaccio. Ecco, l’ironia, nel corso dei vari racconti si inasprisce e diventa sempre più chiara, fino al momento in cui non sfocia nell’autoanalisi e nel sarcasmo. Durante il colloquio settimanale con lo psichiatra, Anna taglia corto nei suoi pensieri ed emette un giudizio netto, che sembra essere un assioma: “Il sarcasmo è una forma di difesa”. Il medico non dedica la dovuta attenzione alla paziente e Anna, già incline all’auto-accusa, risponde alla superficialità dell’analista schermandosi con distacco, con l’indifferenza amara, tipica di chi è indifeso.

Da quel momento il cervello inizia a studiare vie d’uscita per toglierti tutti quegli sguardi di dosso e, paradossalmente, la via migliore è acconsentire a una terapia “per uscirne fuori”. “Fuori” da che? Non fumo, non bevo, non uso droghe. Il problema è dentro me. Dovrei “uscire fuori” da me stessa, ma è quello che cerco di fare, solo a modo mio.

Anna è sola, il problema del “tutti mi guardano” è il vero nucleo della sua fragilità. Il fatto che la donna non riesca a controllare tutto o tutti, che sia così dannatamente intelligente e sensibile, molto più dei suoi coetanei, la obbliga a fare i conti con un’interiorità dilaniata, un vuoto sotto i piedi che le fa chiudere lo stomaco. Il non ingerire cibo è la punta dell’iceberg, l’evidenza drammatica di un vulcano di dimensioni gigantesche che la inghiotte  e digerisce assenze, la mancanza d’affetto e di stima, tutte le frasi non dette dagli altri, poi inghiotte noi stessi. Difficile risalire da una voragine come quella dell’anoressia.

Anna sembra sempre camminare sola, eppure, ogni volta che cade, si ferisce, smette di credere, c’è lui ad aspettarla. Lui chi? Non è dato saperlo ma c’è sempre: in un giardino, fuori da una discoteca, sulle panchine dell’ospedale. Luoghi poco adatti ad un incontro galante, e infatti l’appuntamento di Anna non è con il lui in questione, ma con il destino che la travolge e l’abbraccia, salvandola sempre. Si cammina soli, forti o deboli, malinconici o felici, ma il destino attende. E l’amore, quell’amore che tutto trae e tutto salva, non abbandona mai gli esseri umani, sbagliati, imperfetti e giusti che siano. E Anna lo sa bene, così decide di scriverle, apparizioni di vita che affollano la sua mente. Di certo, la protagonista è una di noi: donna animata dal desiderio di essere libera ed ardente, come una magica falena.

Espiazione, di Ian McEwan

“Lo spettacolo per il quale Briony aveva ideato locandine, programmi e biglietti, costruito il botteghino con un paravento sbilenco e foderato di carta rossa la cassetta dei soldi, era opera sua, frutto di due giornate di una creatività tanto burrascosa da farle saltare una colazione e un pranzo. Quando ebbe concluso i preparativi, non le restò altro da fare che contemplarne la stesura definitiva e aspettare di veder comparire i suoi cugini dal lontano nord”.

Un meraviglioso incastro di finzione e realtà, passato e presente, abbagli e immaginazione, questo è il capolavoro dello scrittore inglese Ian McEwan, Espiazione (Einaudi, 2003). Si tratta di un inno al potere riparatore della scrittura, alla potenza della creazione letteraria che pone l’autore al rango di Dio. Ian McEwan definisce con le seguenti parole la magia della scrittura in uno dei passi più significativi del romanzo:

Il problema in questi cinquantanove anni è stato un altro:come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere i destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. È la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storiaNon c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei”.

Espiazione è un romanzo sentimentale, ma anche un romanzo sulla guerra, un romanzo di formazione e del mistero, incentrato sul tema del male, sul senso di colpa e sulla fusione-confusione tra finzione e realtà. È diviso in tre parti, non ripartite egualmente. La prima occupa più della metà del libro e narra le vicende avvenute in sole ventiquattr’ore, durante una calda giornata del 1935, secondo un espediente narrativo per cui tempo della storia e tempo del racconto non coincidono. Alla tenuta signorile dei Tallis arrivano ospiti: torna a casa Leon, il figlio ventiquattrenne e un suo amico, Paul Marshall, imprenditore a capo di un’industria di cioccolato che sta per stipulare un accordo con l’esercito per far includere i suoi prodotti nelle razioni alimentari in vista della guerra. Ad accoglierli in casa c’è Cecilia, sorella di Leon, di ventun’anni,  la tredicenne Briony, aspirante scrittrice dalla fantasia pericolosa, e la madre, la padrona di casa, perennemente preda di un atroce mal di testa. Il padre, vero capofamiglia, è assente per affari a Londra, ma si lascia intuire un’altra ragione, forse sentimentale, per il suo frequente assenteismo nei confronti della famiglia. Ma il quadro dei presenti in quella giornata del 1935 non è completo, sono invitati anche tre cugini, scombussolati dal divorzio imminente dei genitori, due ragazzini gemelli e la loro sorella maggiore Lola, di quindici anni, preda di quel classico fervore della gioventù che guarda all’età adulta con irresistibile attrazione. Tra Briony e Lola nasce una sorta di rivalità, dovuta anche alla preparazione di un piccolo spettacolo basato su una breve sceneggiatura teatrale scritta dalla stessa Briony, aspirante scrittrice. Agli invitati di quella sera si aggiunge Robbie, figlio della domestica ma elevato socialmente dal padre di Leon, Cecilia e Briony che ha generosamente pagato i suoi studi a Cambridge.

Si percepisce una certa tensione fra Cecilia e Robbie, che viene avvertita dalla stessa Briony, vera narratrice della storia, che fraintende un certo gioco di sguardi fra i due e un approccio sessuale in biblioteca. Immagazzina queste informazioni, distorte nella sua mente ingenua, e le usa per accusare Robbie dello stupro di Lola, che avverrà quella sera stessa nel giardino adiacente alla casa. Briony assiste alla fuga dell’aggressore ma non lo vede in viso, tuttavia mentirà alla polizia e punterà il dito contro Robbie. La seconda parte del libro è ambientata in Francia cinque anni dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale, e vede come protagonista Robbie che accetta di arruolarsi pur di uscire prima dalla prigione dove ha espiato una colpa non sua per quattro anni. La terza e ultima  parte del libro vede Briony lavorare come infermiera a Londra durante la guerra, una punizione autoimposta a causa del senso di colpa per ciò che ha fatto da ragazzina e che ha sconvolto la vita di due persone, Robbie e Cecilia, che non hanno potuto vivere il loro amore a causa della sua menzogna. Una volta diciottenne, Briony decide di fare qualcosa per restituire la dignità a Robbie, cambiando la sua deposizione e raccontando la verità a tutta la famiglia.

L’epilogo è l’unica parte del romanzo ad essere narrata in prima persona: è Briony infatti ormai settantasettenne, a parlare. Racconta della sua malattia, la demenza senile, che presto non le permetterà di accedere più ai suoi ricordi e della necessità di pubblicare il suo ultimo romanzo, che in realtà è il suo primo romanzo, mai pubblicato da ragazza. Tratta la vera storia di quella giornata del 1935 e si chiama Espiazione, dunque una metanarrazione, un romanzo all’interno del romanzo. Alla fine si scopre che parte della storia, ovvero le scene della terza sezione del romanzo in cui si vedono Cecilia e Robbie finalmente insieme,è del tutto inventata, perché in realtà i due protagonisti sono morti durante la guerra.

Con la scrittura del suo romanzo, Briony vuole dare a sua sorella e all’uomo che amava il giusto lieto fine, che nella vita reale non è potuto avvenire a causa della sua falsa dichiarazione. Così descrive l’obiettivo del suo libro: “Gli amanti sopravvivono felici. Finché resterà anche una sola copia, un unico dattiloscritto della mia stesura finale…sopravviveranno per amarsi”.

Ian McEwan è un maestro nell’incastro narrativo, nella caratterizzazione dei personaggi e nell’intreccio dei diversi punti di vista che si trasformano in un caleidoscopio di sguardi deformati e facendo immergere il lettore nei pensieri e nelle sensazioni dei protagonisti (soprattutto nella prima parte del romanzo). C’è da chiedersi come si può giustificare l’atto compiuto da Briony con la scusa dell’età e della fervida immaginazione che ha reso agli occhi della ragazzina un approccio fisico in un plagio, quasi fosse un’occasione sulla quale costruire una menzogna che ha rovinato anche la sua di vita, in virtù della sua aspirazione di diventare scrittrice, immaginando di essere una protagonista dei suoi romanzi, senza saper più distinguere la realtà dalla finzione.

Joe Wright nel 2007 ha diretto l’omonima versione cinematografica del romanzo, con Keira Knightley, James MacAvoy, Romola Garai e Vanessa Redgrave, ricevendo 7 nomination agli Oscar 2008 e vincendo il premio per la Miglior Colonna sonora  grazie al compositore pisano Dario Maranelli.

Castelli di rabbia, di A. Baricco

Castelli di rabbia è la prima opera narrativa di Alessandro Baricco, edita dalla casa editrice Rizzoli nel 1991 e vincitrice del Premio Campiello e del PrixMédicisétranger 1995. Il titolo ha una duplice valenza semantica: l’immagine del castello rappresenta i sogni infranti, la tendenza utopica all’infinito, tipica dell’infanzia, che inesorabilmente termina in un abisso di dolore e nell’inevitabile scontro traumatico con la realtà; la rabbia è una componente caratteriale di tutti i personaggi della storia, elemento che viene sottolineato da un linguaggio molto forte e, sovente, da scene di grande intensità. Ne è un esempio l’episodio della morte del signor Andersson, socio in affari e amico del protagonista, il Signor Rail:

“Addio, signor Rail. Un buio nero, da non vederci a bestemmiare. – Addio, Andersson. Il vecchio Andersson morì con il cuore spaccato, quella notte stessa, mormorando una sola, esatta, parola: Merda”

Il romanzo è permeato da un forte positivismo che, in maniera quasi ossimorica, non si basa sulla Ragione ma sembra legato all’ambito metafisico. In questo romanzo, più che nelle altre opere di Alessandro Baricco, si respira l’aria del progresso propria dell’Ottocento, l’attrazione verso la scienza e i prodotti dell’industria, che non sono usati, come si potrebbe immaginare, per semplificare la vita e avvicinarsi alla modernità, (sono infatti opere prive della benché minima utilità pratica), bensì per concretizzare l’irrealistica tendenza all’infinito. Il progetto della locomotiva Elisabeth prevede che viaggi su 200 km di rotaie perfettamente diritte senza condurre in alcun luogo preciso, senza dunque fermarsi in nessuna stazione, il Crystal Palace di Hector Horeau è un palazzo di vetro che non mira a rivoluzionare le tecniche architettoniche con l’utilizzo di ferro e vetro, senza più limitarsi a calce e mattoni, ma serve ad intrappolare la luce in modo che chi vi entri possa sentirsi al chiuso e all’aperto al tempo stesso, a contatto con il mondo eppure distante oltre un vetro. L’opera, divisa in sette capitoli, è ambientata nell’immaginaria Quinnipak, un non-luogo al pari della Locanda Almayer, paese all’interno del quale si snodano le vicende dei personaggi, presentate a frammenti, intrecciate l’una all’altra eppure distanti, cariche di significato simbolico eppure incomprensibili fino al capitolo finale, con un metodo per cui ogni personaggio sta nella narrazione come un bottone sta nell’asola.

Nelle ultime pagine, per le quali lo scrittore adopera una tecnica di scrittura mutuata dal cinema, si inquadra la narratrice, fino a quel momento rimasta in disparte come una voce fuori campo, e la si vede spiegare che la storia, i personaggi, la stessa Quinnipak, altro non sono che invenzioni della stessa per sfuggire alle proprie sventure, un modo per rifugiarsi nella fantasia e non pensare al presente. Eppure, se per i personaggi da lei inventati non c’è lieto fine, né soddisfazione, per lei la storia viene lasciata in sospeso, dando come unica speranza la parola America, e forse proprio lì la protagonista troverà una vita vera alla fine di un lungo viaggio, sia fisico che metaforico.

Evidente è lo stretto legame che intercorre fra Castelli di rabbia e il monologo teatrale Novecento, pubblicato nel 1994: anche qui troviamo il sogno americano e la componente musicale attorno alla quale si snoda la trama, in Novecento è opera del pianista Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, in Castelli di rabbia è legata alla figura di Pekish, grande musicista di note inesistenti e inventore di un nuovo strumento: l’umanofono. Le storie dei personaggi, il signore e la signora Rail, Pekish, Penht, Hector Horeau, Mormy, la vedova Abegg, sono costruite come le strade di un labirinto, che si snoda a partire da un centro. Il centro per Castelli di rabbia è la scena del giorno di San Lorenzo, momento in cui le due bande, partendo da poli opposti, si incontrano al centro del paese; è un processo a matrioska che secondo un espediente narrativo composto da flashback (analessi ) e flashforward (prolessi), da finzione e realtà, che è anch’essa finzione, si pone a più livelli di analisi e su più linee temporali e spaziali, in un gioco di incastri tipico dello stile di Alessandro Baricco. Il percorso psicologico per raggiungere l’agognata chimera porterà ai personaggi nient’altro che sventura: Hector Horeau e Pekish prede della follia, Il signor Rail della miseria e della solitudine. Eppure dalla loro disgrazia rinasce una nuova vita, come una fenice dalle proprie ceneri, o meglio si crea una possibilità di vita. Aspettarsi che il finale di un’opera di Baricco sia chiuso e definito senza essere preda delle più svariate e personali interpretazioni? Questa è un’altra chimera.

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