George Bataille (1897-1962) è stato un intellettuale complesso e discusso. Scrittore, filosofo, sociologo, etnografo, disse di se stesso: “io non sono un filosofo, ma un santo, forse un pazzo”; d’altronde lo stesso Sartre ebbe a definirlo paranoico e folle. Di lui si è detto anche che non è un vero e proprio scrittore, in virtù della scrittura arida e frammentaria. Ma forse è proprio quest’ottica di sacrificio (santità) e di gioia mistica (pazzia) la chiave di lettura di Blue du Ciel, L’azzurro del cielo, secondo romanzo erotico – il primo fu Storia dell’occhio (1928, romanzo osceno ma che nasconde un provocatorio e raffinato gioco retorico tipicamente surrealista) – in cui confluisce l’episodio “Dirty” scritto già nel 1927. Due le principali influenze letterarie: Sade e le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, tuttavia quest’opera non può essere separata dal resto della produzione batailliana (pensiamo ad opere come L’erotismo o Storia dell’occhio). Vi si sentono un non completo abbandono delle idee rivoluzionario-surrealiste nonché un’anticipazione dell’esistenzialismo francese, anche se in chiave “impolitica”. Con Paolo Tamassia: “il rifiuto della dialettica non significa certo per Bataille l’accettazione rassegnata dello status quo, quanto piuttosto l’avvio della ricerca di uno strumento adatto a sovvertire radicalmente lo stato delle cose, che non sia però suscettibile d’essere volto in positivo. Insomma: un “dispendio senza impiego” difficilmente digeribile per gli intellettuali dominanti dell’epoca.
L’Azzurro del Cielo è, innanzitutto, la descrizione del rapporto neurotico di Henri Troppmann – alter ego di Bataille – con le donne:
Dirty, diminutivo provocante di Dorothea S., è l’amante con cui tradisce la moglie, tanto nei bassi fondi londinesi quanto al Savoy. La loro continua ubriachezza e le loro ossessioni fanno da legante ad un rapporto morboso fatto di carne, deliri e morte. “Solo con Dirty, provo sempre quel desiderio di gettarmi ai suoi piedi. La rispettavo troppo e la rispettavo proprio perché era divorata dal vizio.” Ma in fondo il protagonista è alla ricerca proprio nel torbido e nella dissolutezza di una forma di purezza.
E’ importante sottolineare come alla base dell’esistenza e della riflessione di Bataille vi sia il rifiuto della vita profana, chiusa nella sfera dell’utile. Privato di Dio il soggetto non ha più garanzie per fondare una spiegazione di se stesso e del mondo. Ma se il senso della trascendenza divina tramonta nel momento in cui la modernità ha decretato la morte di Dio, Bataille in controtendenza nei confronti della modernità stessa, reintroduce il sacro nella sfera del quale «il mondo è dato all’uomo come un enigma da risolvere». Se gli esseri sono isolati all’origine, le loro situazioni esistenziali eccessive (il riso, l’erotismo, l’ebbrezza, il sacrificio) li pongono in una situazione di intimità comunicativa che è anche all’origine dell’arte in quanto opposta al reale. Infatti «il mondo intimo si oppone al reale come l’eccesso alla moderazione, la follia alla ragione, l’ebbrezza alla lucidità».
Non è un caso che gli autori preferiti da Bataille (basta leggere il suo saggio La letteratura e il male) sono votati «alle forme di attività più deludenti, alla miseria, alla disperazione, all’inseguimento d’ombre inconsistenti che non possono dare altro che vertigine o rabbia». Esistono invece forme meno estreme in cui, comunque, attraverso l’arte giochiamo con la morte e col pericolo, ci misuriamo con angosce e orrori che rispondono al nostro desiderio di richiamare volontariamente le ombre della morte che noi lasciamo «ingrandire in sé, fino ai limiti dell’esistenza, fino alla morte stessa». Alla morte vera e propria si giunge col sacrificio e tuttavia l’arte implica se non la morte vera e propria due aspetti fondamentali legati ad essa: la rinuncia al mondo reale, la perdita dell’oggetto che nell’opera d’arte viene sacrificato e consumato; la perdita, l’occultamento del soggetto stesso (il poeta, l’artista) che, se non muore, precipita verso la delusione e la miseria o la “minorità” perenne (Baudelaire, Kafka) o scompare nell’impersonalità più totale guidato da un demone che lo eccede (Manet). La letteratura è in questo senso pratica di morte, e gli stessi scritti letterari di Bataille affrontano temi e situazioni in cui non solo si sfiora o si raggiunge la morte nell’estremizzazione del desiderio senza più freni, ma non si arretra nemmeno di fronte alla necrofilia, per quanto l’intento sia quello di descrivere l’orrore e insieme l’attrazione vertiginosa che la morte, nella sua densità più cruda, suscita nell’essere che con essa si confronta.
È una donna bellissima e molto ricca che, ciò nonostante, Henri non riesce a soddisfare a causa di un’angosciante parafilia, nominata solo dopo alcune esitazioni: la necrofilia. “C’era sempre, al fondo di tutto, un tanfo di cadavere”.
Henri si confessa con Lazare, l’amica parigina dall’aspetto assurdo. La sua descrizione, che occupa varie pagine, rimanda senza grande difficoltà all’effettiva amica di Bataille: Simone Weil. Venticinque anni, brutta, visibilmente sporca, malsana, capelli corti ed irti, carnagione giallastra, naso da ebrea ed occhiali cerchiati d’acciaio. Dice Henri riferendosi a Lazare: “quello che mi interessava di più in lei era l’avidità morbosa a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati.” Lazare, calma come un prete, accoglie il racconto di tutta la sua vita, ridotta a fiumi di alcol, ossessioni ed allucinazioni febbricitanti.
Xénie è la seconda amante di H. Troppmann e, forse, l’unica che lo ama perdutamente oltre alla moglie (personaggio sempre presente nel romanzo pur nell’ossessione della sua assenza). I deliri continuano a divorarlo e, in più, si ammala di un’influenza complicata da gravi sintomi polmonari. Sarà curato, oltre che dalla suocera, dalla stessa Xénie, la quale baciandogli la mano gli sussurra: “Lo so. Tutti sanno che avete una vita sessuale anormale. Ma ho pensato che dovevate essere soprattutto infelice. Sono solo una sciocca. Mi piace ridere. Ho solo stupidaggini per la testa, ma da quando vi ho conosciuto e ho sentito parlare delle vostre abitudini, ho pensato che chi ha abitudini ignobili.. come voi… molto probabilmente soffre”.
Henri, scampato dalla morte, riesce a dire a Xénie ciò che sino ad allora gli pareva inconfessabile. La sua necrofilia, di per sé agonizzante, ha un risvolto di vergognosa pietà: ebbe inizio con la morte della madre! “Tremavo di paura e d’eccitazione davanti al cadavere, ero all’estremo dell’eccitazione… ero in trance… mi sono tolto il pigiama… mi sono… capisci…”.
L’azzurro del Cielo non è, tuttavia, solo anomalie sessuali ed ossessioni deliranti, bensì anche la ricerca – la “prova asfissiante” – di spingere lontano la propria visione e, con Bataille, “di andare incontro all’attesa del lettore stanco dei limiti angusti imposti dalle convenzioni”. Si domanda nell’autoprefazione: “Come si può perdere tempo su libri la cui creazione l’autore non sia stato manifestamente costretto?”. Così L’azzurro del cielo scritto nel 1935 ma pubblicato solo nel 1957, quando ormai Bataille è lontano dallo stato mentale che ha partorito queste pagine, risulta un libro necessario sebbene urticante. Per leggere quest’opera è necessario arrendersi alla provocazione, accettare di entrare senza scrupoli né paure nella taverna dei bassifondi londinesi, il primo dei luoghi sporchi di sporca umanità in cui l’autore ci conduce, per incontrare Dirty, naturalmente ubriaca, bella e dannata. Bisogna rassegnarsi all’eccesso e al disgusto: non c’è altra strada percorribile per arrivare a scorgere l’azzurro del cielo. Bataille è uno scrittore irritante, il suo mondo costantemente ai margini è disarmonico e inconcludente, ma può essere affascinante e ipnotico, tiene avvinto il lettore, lo trascina in luoghi e in situazioni che vorrebbe evitare o da cui vorrebbe presto fuggire. La forza trascinante, il vero dono di Bataille, è la sua capacità di comunicazione.
Commenta Jacques Réda nel 1962, anno della morte di Bataille: “in un secolo di filosofi come il nostro, occorreva che fosse un santo, per l’appunto, o forse un pazzo a ricordarci che l’uomo non è riducibile alle sue ontologie né addomesticato dai suoi sogni, ma è l’essere insonne al quale, anche in pieno bagliore, sfugge la luce dell’essenza, e che non può sottrarsi, senza rinunciare a se stesso, alla fascinazione colpevole di ciò che lo distrugge”.