‘Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella’, la favola nera di Arrigo Geroli

Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella è un romanzo dello scrittore Arrigo Geroli per la casa editrice Nulla Die, 2020

Si tratta di una favola nera dalle tinte horror, ambientata nel 2017 ma ricca di rimandi alla Milano ancestrale, che ho scritto con l’intento di trattare il tema dell’inganno e dell’aberrazione dell’amore. Attraverso mondi paralleli e miti celtici, oceani di farfalle e patti di sangue, Ageroli tenta di offrire al lettore spunti di riflessione sulla paura e il desiderio di crescere; la perdita del senso della vita in seguito all’indipendenza di chi si ama; l’attaccamento insensato a un’esistenza indecorosa, e l’assenza di luce che traveste la violenza subita in amore.
I protagonisti del romanzo sono Alba, una bambina speciale a cui viene impedito di crescere; la madre Clara, una giovane disposta a tutto pur di non arrendersi all’AIDS; Gio, una strega che uccide i figli dei propri amanti con l’aiuto dei loro padri; Grada, Alina e gli abitanti dei Giardini della Luce, ultimi superstiti della Milano precristiana. Uno scenario affascinante quello che ha scelto Geroli, il quale sembra non risparmiare una certa dose di ironia affinché il lettore esorcizzi le proprie paure, per ambientare la sua favola nera, tra Basiliche Palatine e Ambrosiane, costruite subito dopo l’editto di Milano emanato da Costantino.

Nel cuore di una bimba, nella luce di una stella, un estratto

Una tempesta si abbatte sulla casa nel bosco di Clara e della figlia malata Alba, provocando dei danni che il loro tuttofare Gustino si affretta a riparare. L’uomo, un gigante down dai modi gentili, prima di far ritorno in città dalla sua compagna Morena, avvisa Clara di strani segni simili a dei graffi su una parete dell’edificio. Intanto, a Milano, una coppia di giovani sposi attende insieme alla polizia una possibile chiamata da parte dei rapitori di Sofia, la loro neonata, trafugata in piena notte mentre dormivano. Parzialmente ripresasi, la piccola Alba litiga con la madre e si spinge a passeggio nella sua amata foresta, ma, dopo essersi appisolata, un incubo risveglia le sue paure e la costringe a fare ritorno da Clara, con i piedi nudi martoriati dai sassi.

Dal dialogo del colonnello dei carabinieri Cinti con un suo collaboratore, si evince che alcune telecamere del palazzo hanno inquadrato la misteriosa rapitrice della piccola Sofia, ma nessuno ha chiesto ancora un riscatto.

Tornato da Alba, ancora debolissima, Gustino la carica su una carriola e la porta a riposare sull’erba, in riva al Nirone. Accanto al ruscello, riesce appena a dirle che l’incubo del giorno prima è un’allerta del bosco perché qualcosa di pericoloso è ritornato, poi entrambi vengono investiti da un oceano di milioni di farfalle in fuga. Alba riesce ad abbatterle con la forza della propria mente, ma crolla stremata. Priva di sensi, con la febbre alta e le piante dei piedi miracolosamente guarite dall’acqua del ruscello, Alba viene apparentemente accudita dalla madre, ma la litania recitata dalla donna, che parla di querce, fiumi e della stella Sirio, ha qualcosa di inquietante. In riva al Nirone, una giovane coppia sembra godersi un picnic, ma, all’improvviso, la ragazza di nome Gio adagia un corpicino senza vita nelle acque gelide del ruscello. Accortasi dell’arrivo di Gustino, in preda ai sensi di colpa per aver fatto star male Alba, spinge il suo compagno a percuoterlo con una grossa pietra. Carlo, il padre della neonata rapita, si sveglia di soprassalto: nell’incubo è il compagno innamorato di Gio. Ritiene quel sogno così reale da lasciare moglie e poliziotti in casa e dirigersi nel parco dove scorre il Nirone, alla ricerca della figlia. Ma non è solo un incubo. Gio, insieme a Gustino, sanguinante per le ferite, si reca alla baita nel bosco e intima a madre e figlia di andarsene da quella che ritiene essere casa sua.  Dopo avere curato in qualche modo Gustino, Clara crolla stremata e viene costretta da Alba a rivivere in sogno un fatto terribile avvenuto molti anni prima, quando, pur essendo cosciente della propria sieropositività, ebbe un rapporto non protetto con un giovane, contagiandolo. La rabbia della bimba è motivata dal fatto di sentirsi usata da Clara e sua prigioniera.

Smarritosi alla ricerca della sua neonata nel Parco delle Groane, Carlo incontra due strambi astrofili che si lasciano sfuggire di pulsazioni anomale della stella Sirio osservabili solo all’interno del bosco.

Gustino convince Clara ad abbandonare la casa. La donna affronta una marcia terribile, con la bimba esausta sulle proprie spalle, e stremata riesce a raggiungere un bar immerso nella foresta che rappresenta l’avamposto tra la dimensione del bosco e quella cittadina. È lì che le due dovranno attendere Morena, la compagna di Gustino, educatrice di Alba nei suoi primi anni di vita. Alba rimprovera la madre di amarla solo per sentirsi viva, e di impedirle di crescere per paura di non riuscire a sopravvivere senza di lei.

Gio torna a occupare la casa liberata dalle due, ma quando si accorge dei disegni di Alba che la ritraggono nella sua orribile incarnazione di strega, non riesce a trattenere la propria ira e uccide Gustino.

Il barista, dopo avere rifocillato le donne, svela a Clara che nelle diverse dimensioni il tempo scorre in maniera tutt’altro che lineare; in particolare, in città passa molto più rapidamente. L’avvisa inoltre che Morena non verrà a salvarle perché le ritiene responsabili della morte di Gustino. Sconvolte per la notizia della morte dell’amico, madre e figlia vengono caricate poco dopo in auto da Carlo, disperato per non aver ritrovato la figlia. L’uomo confessa di avere avuto una relazione con una donna di nome Gio, conosciuta in una discoteca, e di avere letteralmente perso la testa per lei, arrivando a mettere in secondo piano moglie e neonata. L’auto subisce un incidente a causa dell’attraversamento di una femmina di cinghiale. Nel dormiveglia, Alba ricorda quando la Dea Belisama inviò quella stessa scrofa per indicare a una colonia di Celti il luogo dove edificare il villaggio che sarebbe poi diventato Milano. Alba era una di loro. La piccola segue l’animale e si allontana, abbandonando la madre e Carlo nei rottami. Oramai, tutti sono oltre il varco. Dopo un concerto nel bosco, Mary, una giovane chitarrista punk, incontra Alba. La bimba la condiziona mentalmente e si fa condurre a casa di lei per trascorrere la notte al coperto. Lì, i ricordi della piccola si mischiano a quelli della madre. La strega Gio si introduce in quella villa e tenta di ucciderla, ma la bambina prende coscienza di sé e ha la meglio.

Morena, la sua educatrice, subisce violenza da Beleno, l’essere divino per cui ha sempre agito; il dio la accusa di avere aiutato Clara, insieme a Gustino, a impedire a sua figlia Alba di smettere di crescere tramite la litania e le intima di condurla ai Giardini della Luce, per adempiere al proprio destino.

Le due chitarre avevano litigato pesantemente, in un intro lunghissimo e rabbioso in cui si erano inseguite e raggiunte più volte, urlandosi addosso. Poi avevano taciuto, e il basso e la batteria avevano iniziato a martellare scuotendo le ossa dei nove spettatori, fino a quando al grido di “I heard the news!” si era scatenato l’inferno.

Iniziare a suonare alle 21,10 come primo gruppo di supporto dei Punkreas, voleva dire anche questo: mendicare attenzioni e applausi a una manciata di “part-time punk” arrivati in anticipo per trovare parcheggio e tavoli liberi e ricavarne il nulla. Visti gli headliner della serata, l’interesse del pubblico per cinque disadattati devoti alle scabrosità di Roy Brown ed Elvis Presley era pressoché nullo; in più, a quell’ora, tra un assolo di chitarra e un piatto di costine la scelta era obbligata.

Il loro aspetto non è che aiutasse: se il chitarrista, devastato dall’acne e col ciuffone, non era propriamente un figo, il batterista, col collo da anaconda e i capelli di Frankenstein, sembrava pronto a entrare in una bara.

A ogni modo, dopo lo scetticismo iniziale, la loro carica devastante cominciò a far girare qualche testa. E se la bassista calva, con una sottile peluria sulle guance e i seni appena accennati, seguiva la falsariga dei primi due, la prima chitarra, una bella ragazza con una cascata di riccioli rossi e il body di pelle nera aperto a rombo sulla scollatura, risollevava clamorosamente le sorti, sensuale e distaccata sui suoi tacchi quattordici anche quando le esternazioni del cantante – un indemoniato a petto nudo, coi pantaloni di latex e le scarpe da donna – travalicavano i limiti del buongusto.

Il connubio tra la violenza della musica e il canto melodico, ma a tratti sguaiato, costituiva l’essenza dell’esibizione: una rielaborazione personalissima e distruttiva di rhythm and blues, rock’n’roll, punk e dark.

Un po’ troppo per chi si sentiva già appagato per essere riuscito a trovare la festa, spersa nel bosco senza la benché minima indicazione.

In ogni caso, dopo l’ultimo dei ventisei minuti conclusisi con la cover incendiaria di “A Cat Named Domino” di Roy Orbison, gli applausi si fecero un po’ più convinti, a prescindere dal fondoschiena superbo di Mary.

Roby e Alex, voce e chitarra, si erano conosciuti un anno prima, lavorando al mercato del pesce di Bergen nei banchi gestiti dagli italiani. Da ubriachi, una sera, a un concerto degli Scott Bradlee’s Postmodern Jukebox, avevano esposto le loro teorie musicali a Adrian e Liv, un ragazzo e, probabilmente, una ragazza del luogo; visti gli interessi affini avevano deciso di formare una band, anche se nessuno di loro aveva mai imparato a suonare.

Mary, la sorella di Alex, li aveva raggiunti un paio di mesi dopo da Milano, ma visto il suo impatto visivo e sonoro, era chiaro che se avessero voluto combinare qualcosa avrebbero dovuto tenersela stretta.

Da lì in poi avevano iniziato a girare l’Europa, togliendosi qualche piccola soddisfazione e autoproducendo un dodici pollici di cui non avrebbero mai ammortizzato le spese. In compenso avevano trovato da dormire e da mangiare praticamente ovunque, e per dei ragazzi che facevano centoundici anni in cinque poteva anche bastare.

Liberato il palco nell’attesa dei Prodotti Locali, la band che avrebbe suonato da lì a poco, i cinque caricarono il furgone e si cambiarono senza dire una parola, disperdendosi tra i chioschi della birra e delle salamelle.

Ogni volta, dopo un concerto, il copione era lo stesso, con lo sforzo di non rivolgersi la parola che raramente superava i venti minuti; poi, qualcuno particolarmente incazzato, di solito Mary, perdeva le staffe e cominciava a insultare e a rimproverare gli altri per la mancanza di disciplina.

Quando nel suo vagare la ragazza trovò Roby e Alex su una panca, con un bicchiere di birra e un piatto di costine davanti alla bocca, non li uccise solo perché era disarmata. Il loro discorso aveva preso una piega strana.

– Alex… tu, lo sai… che hai il vestibolo Darwiniano?

– Io?

– Sì, cazzo. È assurdo.

– Non sei il primo che me lo dice.

– No, dico sul serio. Con le tempie rasate le tue orecchie a punta si vedono da dio, non mi posso sbagliare. È un… una specie di retaggio che ci portiamo dietro dal nostro periodo arcaico, quan…

– Il vostro periodo arcaico non è mai finito, coppia di pirla!

– Ue’, sorellina! Hai fame? Prenditi una salamella.

– Vai a cagare te e la salamella.

I due, fumatissimi, scoppiarono a ridere, con le lacrime agli occhi e la stessa risata asmatica; ogni volta che erano in procinto di smettere si guardavano in faccia e ricominciavano da capo, coi crampi alla pancia, facendola andare sempre più in bestia.

– Mi spiegate perché perdiamo tempo e soldi a provare, se poi dal secondo pezzo fate tutti come vi pare?

Roby si pulì la bocca e si strinse nelle spalle. Senza rossetto e tacchi a spillo, in pantaloni e maglietta, era persino un bel ragazzo.

– Dai, Mary, lo sai che siamo così. Non suoniamo come la musica che passa alla radio… e poi lo hai detto tu che violenza e fascino stanno bene insieme.

– Ma che cazzo dici? Non ho mica detto che dobbiamo spegnerci! Ma io non voglio fare rumore! Senza disciplina non si va da nessuna parte. Ma è un concetto che le vostre teste di cazzo non riusciranno mai ad assimilare.

– Ma quanti “ma” hai detto? – obiettò il fratello.

I due si guardarono negli occhi e scoppiarono di nuovo a ridere, andando letteralmente in visibilio quando la ragazza gettò loro addosso la poca birra rimasta nei bicchieri.

– “Ma” andatevene affanculo!

Mary si allontanò, spingendo le unghie nei palmi e mordendosi la lingua, senza sapere dove andare. Con la gonna lunga a fiori, i sandali e la canottierina beige, se avesse trovato una macchina del tempo si sarebbe catapultata a Woodstock, a bere, fumare e scopare tutta la notte sull’erba, chiudendo un occhio sulla qualità della musica. Invece era lì, in mezzo al nulla, senza neanche aver mai fatto la patente.

Qualcuno stava iniziando ad arrivare e i ragazzi e le ragazze cominciavano a dedicarle delle occhiate, ma in trenta secondi aveva già perso ogni desiderio di farsi toccare.

Era volubile. Lo sapeva.

Adrian e Liv erano seduti al banchetto, senza guardarsi né parlare. Immobili e vestiti completamente di nero, sembravano due corvi. In un anno li aveva sentiti emettere dei suoni sei o sette volte, senza capirci niente.

Girò la testa dall’altra parte e si soffermò su una signora non più giovanissima, coi capelli corti a spazzola e le labbra scure, seduta a un tavolino misero tra lo stand di borse e quello di oggetti africani.

Una candela cambiava colore, illuminandole la faccia di verde e di bianco, ma il pezzo forte era costituito da una scritta a pennarello su un cartone sgualcito, appoggiato a una gamba del tavolo. Diceva: “Leggo il futuro”. E più sotto, in piccolo: “Ma tanto sai già come va a finire”.

Nonostante l’incazzatura, a Mary venne da ridere. Fece qualche passo verso di lei e le chiese il prezzo.

– Per te cinque euro.

– Sei brava! Hai già percepito che sono una poveretta?

La donna sorrise e fece di no con la testa, girandosi verso le due statue norvegesi: – Zero vinili e zero magliette vendute. Non voglio infierire.

Mary tolse la banconota dalla borsetta e si sedette, spostando i capelli su una spalla e accavallando le gambe.

– Che begli orecchini che hai, – notò la fattucchiera.

– La falce e la colomba. Non so che significato abbiano, ma li ho visti a un mercatino di Berna, prima di un concerto, e li ho presi. Ma sono una che cambia gusti abbastanza in fretta.

– Che cosa vuoi sapere? – tirò fuori le carte e iniziò a mescolarle, con un movimento lento e armonioso che catturò l’attenzione di Mary.

– Continua a mischiare ancora un po’. Ti dispiace?

– No, figurati. Per cinque euro, questo e altro.

Il mix di carne alla griglia e incensi africani era quanto di più ributtante si potesse respirare; ancora due minuti e avrebbe avuto le visioni anche un cadavere.

– Non ci credo a queste cose, – disse Mary, – a gente che dice di sapere che cosa succederà agli altri… o a se stessa. Ai preti e alle religioni, per capirci. Ma so che se ti comporti in una certa maniera hai più probabilità che determinati fatti ti accadano.

– Non credi in Dio?

– Dio? Boh, non lo so. Non so neanche come si prepara la carbonara, dovrei sapere se esiste dio?

– Beh… ti confermo che la carbonara esiste.

– Giura!

Sorrisero, poi restarono un po’ in silenzio.

 

‘Tokyo Express’, il noir allusivo di Matsumoto

Con Tokyo Express, noir dal fascino ossessivo del 1943, tutto incentrato su orari e nomi di treni – un congegno perfetto che ruota intorno a una manciata di minuti –, Matsumoto ha firmato un’indagine impossibile, ma anche un libro allusivo, lucido, privo di ridondanze, che sa con sottigliezza far parlare il Giappone.

I corpi di Sayama Ken’ichi e della giovane Otoki vengono ritrovati a Kashii, precisamente sulla spiaggia del promontorio che affaccia sulla baia di Hakata. Sono distesi su una lastra di roccia scura, i vestiti smossi dal freddo vento marino. Dai primi rilievi della polizia è subito chiaro che i due si sono suicidati e le analisi di poco successive confermeranno l’uso del cianuro, anche contenuto in una bottiglietta vuota di succo di frutta posta a fianco dei cadaveri. il caso viene subito etichettato come il suicidio amoroso di due tristi amanti. Iniziano le ricerche per scoprire l’identità dei due corpi e da subito, agli occhi del vecchio ispettore Torigai Jutaro, qualcosa non quadra in quella scena apparentemente perfetta.

Ma facciamo un passo indietro. Una settimana prima del ritrovamento, Yasuda Tatsuo è a cena in un ristorante di cucina occidentale di Ginza in compagnia di due donne, Yaeko e Tomiko. Si conoscono da tempo perché lui è solito portare i clienti della sua azienda a bere nel locale dove lavoravano le ragazze, il Koyuki nel quartiere di Akasaka. Anche Otoki lavora con loro e tutti e tre la conoscono bene. Alla fine della cena Yasuda chiede alle ragazze di accompagnarlo in stazione, deve prendere il treno della linea Yokosuka che parte alle 18.12 per raggiungere Kamakura, dove vive la moglie malata. Quando arrivano al binario il treno non è ancora arrivato e così rimangono a guardarsi intorno e chiacchierare, almeno finché l’uomo non nota un viso conosciuto due binari più in là. Precisamente da dove parte l’espresso Asakaze diretto nel Kyushu, ad Hakata. Tutti e tre si accorgono così di Otoki in compagnia di un uomo, entrambi indossano vestiti da viaggio ed è chiaro che camminano sul binario, apprestandosi a salire sul treno. Yasuda, Yaeko e Tomiko ne rimangono molto sorpresi, visto che non hanno mai sentito la ragazza parlare di un amante o di un fidanzato. La scena si chiude così, nello stupore generale.

L’ispettore Torigai inizia a indagare, ricostruendo il viaggio della coppia e ripercorrendo i luoghi della tragedia. Qualcosa continua a non convincerlo e tutti i suoi dubbi si attorcigliano intorno a uno scontrino trovato nella tasca del cappotto di Sayama Ken’ichi. E’ la ricevuta del vagone ristorante dell’Asakaze, datata 14 gennaio e relativa a un solo coperto. E’ proprio questo il dettaglio che mette in allarme il poliziotto: perché mai la ragazza non ha accompagnato il suo amante a cena? Che avesse già mangiato prima della partenza e fosse sazia? Che stesse riposando nello scompartimento? Tutte queste probabili ipotesi non convincono Torigai e una curiosa conversazione con sua figlia rende il tutto ancora più incerto.

Come a confermare i suoi sospetti, non condivisi dai suoi colleghi di Hakata, arriva direttamente da Tokyo il giovane investigatore Mihara Kiichi della seconda sezione investigativa che si dedica ai casi di corruzione. Infatti si scopre che Sayama lavorava proprio al Ministero della capitale coinvolto in un enorme scandalo. Il poliziotto sembra voler indagare a fondo sul suicidio di questo funzionario chiave per l’indagine, ma da subito fa amicizia con Torigai e quest’ultimo lo fa partecipe dei suoi sospetti. Ben presto anche Mihara si convince dell’esistenza di un vero mistero e, tornando a Tokyo, darà il via alla sua lunga indagine personale.

Lo svolgimento e il finale di Tokyo express sono tutt’altro che scontati, ma anzi mirabilmente narrati dall’autore che sa intrecciare verità e bugia con grande maestria. Infine ci ritroviamo con la ricostruzione di un’inusuale e originale vicenda drammatica, per nulla banale e ben orchestrata. Siamo di fronte a un giallo in piena regola e anzi uno dei migliori esempi di questo genere, a volte sottovalutato ed erroneamente accoppiato al thriller (invenzione molto più recente). Seguire i due investigatori nelle loro elucubrazioni su intenzioni umane, orari ferroviari, coincidenze e sentimenti, è un vero piacere per il lettore. Si viene trascinati con calma, ma è impossibile liberarsi dalla corrente. Si riscontra in Tokyo Express un bellissimo esempio di giallo giapponese di un’altra generazione e  si spera vivamente che siano tradotti per noi molti altri suoi scritti (l’autore non è, come sembra, a noi italiani del tutto sconosciuto. Furono infatti pubblicati, diversi anni fa, alcuni suoi romanzi per la collana Giallo Mondadori).

Senti, Sumiko, tornando dal cinema tu e Nitta siete andati a bere qualcosa?”.
La figlia si mise a ridere. “Che domande sono, papà? Sì, certo, abbiamo preso un tè insieme”.
“Davvero? Allora senti” continuò Jutaro come se gli fosse venuto in mente qualcosa “metti per esempio che Nitta avesse fame e ti proponesse di mangiare con lui, mentre tu hai lo stomaco pieno e non riusciresti a mandar giù nemmeno…”.
“Che strana idea!”.
“Ascoltami. E se Nitta ti dicesse: <Mentre io mangio tu fatti un giro, guarda qualche vetrina>, tu che faresti? Lo staresti a sentire?”.
“Che farei?” ripeté la figlia con aria pensierosa. “Ma no, andrei con lui al ristorante. Se no mi annoierei, scusa”.
“Davvero? Ecco, come pensavo. Anche se non avessi voglia nemmeno di una tazza di tè?”.
“Ma sì. Vorrei comunque stare con Nitta. Se proprio non riuscissi a mangiare niente potrei comunque prendere un caffè per fargli compagnia”.
Appunto, è proprio così, pensò il padre annuendo. […]
“Lo faresti perché non farlo ti sembrerebbe poco gentile nei confronti di Nitta, giusto?”.
“Beh, sì. Non è tanto una questione di appetito, quanto di affetto” rispose la figlia.

 

 

Tokyo Express di Matsumoto Seicho

Maurizio de Giovanni, giallista narratore di sentimenti

Maurizio de Giovanni, giallista napoletano classe 1958, dopo aver vinto nel 2005 un concorso per giallisti esordienti con un racconto incentrato sulla figura dell’ormai mitico malinconico commissario Ricciardi, il quale crede di essere pazzo e nel quale si riflette l’autore stesso, attivo nella Napoli degli anni Trenta, comincia un ciclo di romanzi, pubblicati da Einaudi Stile Libero, ispirati proprio al celebre commissario, che comprende Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera, In fondo al tuo cuore e Anime di vetro. Nel 2012 esce Il metodo del Coccodrillo, edito da Mondadori che si aggiudica anche il Premio Scerbanenco, e dove fa la sua comparsa l’ispettore Lojacono, fra i protagonisti della serie dei Bastardi di Pizzofalcone. Nel 2014, ancora per Einaudi Stile Libero, de Giovanni pubblica anche l’antologia Giochi criminali, insieme a Giancarlo De Cataldo, Diego De Silva e Carlo Lucarelli. Nel 2015 esce per Rizzoli il romanzo Il resto della settimana. Tutti i libri di Maurizio de Giovanni sono tradotti o in corso di traduzione in Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Russia, Danimarca e Stati Uniti. Lo scrittore partenopeo è anche autore di racconti a tema calcistico sulla squadra del Napoli, della quale è visceralmente tifoso, nonché di opere teatrali. Intenso ed originale, de Giovanni sa coinvolgere il lettore come pochi scrittori sanno fare e probabilmente creando dipendenza verso i suoi personaggi (Ricciardi, Enrica, Bambinella), generando curiosità e aspettative per il romanzo che verrà già mentre si legge quello attuale. Ribaltando l’immagine tipica da cartolina delle città, de Giovanni svuota la sua Napoli della banale retorica calando il lettore in una città dall’atmosfera insolita, quasi metafisica, senza rinunciare a volte al folklore autoctono e ai sentimenti.

Maurizio de Giovanni e la cronaca nera

Ogni volta che ci si trova al cospetto di un delitto efferato, cediamo naturalmente alla tentazione di puntare il dito verso il suo autore, che da omicida si trasforma rapidamente in “mostro”. Il fatto che qualcuno abbia ‘sbandato’ più di noi è sinistramente rassicurante, ci fa sentire in qualche modo migliori, e soprattutto ci fa parlare. Parlare del “mostro”, certo. Ci fa parlare tanto. Purtroppo, però, in quel gran parlare che genera un caso di cronaca nera, troppo spesso ci si dimentica che a commettere quell’azione delittuosa è stato pur sempre un uomo, perché si è portati a pensare che ci sia uno strappo netto tra l’omicida e l’essere umano.

Maurizio de Giovanni, nella sua recente opera Nove volte per amore, prende spunto da nove celebri casi di cronaca nera per inventare altrettante storie, e soprattutto per tentare di ricucire quello strappo. E ci riesce, e come se ci riesce! Con una precisione sartoriale degna della migliore tradizione napoletana, restituisce ai c.d. “mostri” l’umanità dissoltasi nel chiacchiericcio. E lo fa con grande onestà, senza giudicare e senza giustificare. Si limita soltanto ad offrire dei punti di vista differenti, che siano quelli delle vittime o quelli dei carnefici. Quei punti di vista che faticano a trovare spazio in TV o sui giornali, perché i media tendono sempre più a banalizzare l’uomo: a loro interessa il delitto. De Giovanni, invece, ‘banalizza’ il delitto: a lui interessa l’uomo. Ma, la sua, è una banalizzazione virtuosa. Nella sua reinterpretazione frutto della fantasia, lo scrittore napoletano rende gli autori di questi nove delitti molto più normali di quanto possano sembrare. Spesso si scopre che il delitto può nascere da un’incomprensione, da quella incomunicabilità che troppo spesso permea i rapporti umani; può nascere dalla noia figlia dell’imborghesimento, può nascere dalla solitudine.

L’abilità di de Giovanni è proprio quella di rendere sorprendenti situazioni assolutamente normali. E per farlo si avvale dei suoi personaggi, lasciando che siano loro ad esprimersi. Ce li avvicina. Letteralmente. Con il suo inconfondibile stile asciutto e delicato, gli fa spazio allontanandosi in punta di penna senza intromettersi tra loro e il lettore, che accetta di buon grado questo attestato di fiducia e divora i suoi racconti con avidità. Con la ricompensa di un punto di vista differente.

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