Tematiche e linguaggio nel romanzo che ha stregato un’intera generazione ‘Il giovane Holden’ di Salinger

“Non ebbi, forse, una volta una giovinezza amabile, eroica, favolosa, da scrivere su foglie d’oro?” si domandava Arthur Rimbaud, il poeta veggente. E passata la fase dell’adolescenza e della “post-adolescenza”, forse siamo in molti a domandarselo e a contemplare il passato con occhi diversi, con dolente nostalgia, con amara malinconia. Ma chissà cosa direbbe Holden Caulfield, protagonista de Il Giovane Holden (The Catcher in the Rye, 1951) di J. D. Salinger, all’età di quarant’anni, cinquanta o perché no sessant’anni, a proposito della sua giovinezza e delle sue esperienze. L’adolescenza che trasuda dal suo racconto, che peraltro attinge a piene mani dalla biografia dello stesso autore, non pare brillare per bellezza: il personaggio che viene tratteggiato è, infatti, un ragazzo problematico, solitario, scapestrato (è stato appena espulso per l’ennesima volta), bugiardo, snob, superbo, particolarmente incline a scovare negli atteggiamenti di chi lo circonda il segno evidente della “ipocrisia”, la parola che forse più si ripete all’interno del romanzo.
La sua storia è la storia di un vagabondare senza senso nei locali notturni e nelle vie della città di New York, un moderno Inferno dantesco, la storia errabonda di un ragazzo che non ha punti di riferimento, che soggiace a un nichilismo esasperato che distrugge ideali e valori e che riduce il mondo a un nauseante coro di personaggi evanescenti, noiosi, ipocriti, meschini.
Ragazzi subdoli e sporchi, bulli presuntuosi, professori saccenti, madri che non conoscono i propri figli, oche giulive, tassisti nervosi, filosofi improvvisati, prostitute, papponi, erotomani annoiati, ragazze scontate e false, insegnanti pederasti. Una bella fauna, insomma.

Il giovane Holden è un libro anomalo a partire dalla sua copertina. Bianca. Nessuna immagine in fronte, nessuna trama sul retro. È un libro rivoluzionario per l’epoca, per il linguaggio fortemente moderno, “parlato”, scritto come parla il protagonista, e per il modo di affrontare certi temi, quasi sacri negli anni ’50; gli stessi dubbi di Holden non sono così leciti, soprattutto in una società come quella americana, così veloce, competitiva che poco spazio lascia al pensiero, all’introspezione e alle domande. Il buon americano non si ferma, non si chiede cosa vuole davvero, entra nel vortice e ottiene quello che deve ottenere, a tutti i costi. Holden non solo non è così, non vuole neppure diventarlo; non è né un eroe né un antieroe, è solo un ragazzo che prova a capire cos’è il mondo e come viverci dentro senza perdere se stesso. Nessuno è immune da questo dilemma.

Mi saprebbe dire per caso dove vanno le anatre quando il lago gela?” è la “domanda esistenziale” che affligge Holden, dietro la cui semplicità si annida in realtà il senso di disorientamento del ragazzo: il lago gelato rappresenta la situazione stagnante del presente in cui Holden versa, che gli impedisce di provare esperienze spontanee e autentiche e che lo porta, invece, a degradarsi (consumando soprattutto alcolici), mentre il luogo sconosciuto dove sono dirette le anatre è metafora del futuro annebbiato e incerto che si profila ai suoi occhi.

Ed è proprio il nichilismo giovanile, “l’ospite inquietante” per citare Galimberti che parafrasa Nietzsche, il nucleo concettuale attorno al quale s’impernia la storia di Holden e l’elemento che ha fatto del capolavoro di Salinger non solo un classico della letteratura americana ma anche un libro generazionale, in cui i giovani di tutto il mondo possono specchiarsi lucidamente.
Ma lo spaccato apparentemente oscuro proposto da Salinger, fatto di un ribollente mare di angoscia e vanità, che riesce a fagocitare la stessa volontà di vivere (Holden, seppur giovanissimo, sfiora anche l’idea del suicidio), sembra evidenziare un’unica ancora di salvezza: la famiglia.
Ad incarnare quest’ultimo grande ideale, quest’ultima chimera del decaduto umanismo, è la sorellina di Holden, Phoebe, intelligente e sensibile.
Io mi immagino sempre tutti questi bambini che giocano a qualcosa in un grande campo di segale e via dicendo. Migliaia di bambini e in giro non c’è nessun altro – nessuno di grande, intendo – tranne me che me ne sto fermo sull’orlo di un precipizio pazzesco. Il mio compito è acchiapparli al volo se si avvicinano troppo, nel senso che se loro si mettono a correre senza guardare dove vanno, io a un certo punto devo saltar fuori e acchiapparli”.

È questa la risposta di Holden al “cosa vuoi fare da grande?” della sorellina. E dietro l’immagine dello “acchiappabambini nel campo di segale” non può che nascondersi il bisogno di Holden di maturare, di trovare una via maestra e di consentire agli inesperti di affrontare e superare la foresta oscura dell’adolescenza e le turbe annichilanti che covano al suo interno.

Holden, tutto sommato, è un bravo ragazzo. Holden trae la famiglia a proprio ideale.
Rimane, tuttavia, l’interrogativo posto all’inizio della recensione: Holden ha vissuto una “giovinezza da scrivere sulle foglie d’oro?” Io ritengo di si. E la bellezza della sua vita risiede negli alti e nei bassi, nelle tensioni, nei conflitti interiori che fanno pensare e crescere, nelle conquiste sudate.  

Fonte: https://www.qlibri.it/narrativa-straniera/romanzi/il-giovane-holden/



	
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