‘’Un sogno nel vigneto’’di Emanuela Marra: un romanzo per moderni sognatori

Un sogno nel vigneto di Emanuela Marra, edito Land editore, è il romanzo perfetto per chi ha amato le grandi storie d’amore letterarie. Il libro è leggero, spensierato, piacevole ma soprattutto molto romantico e adatto ai sognatori. La protagonista, a metà fra i personaggi di Jane Austen e le più moderne Bridget Jones, è Emma Bianchi: 30 anni, laureata a pieni voti in economia alla Bocconi, proviene da un contesto familiare agiato e lavora nell’azienda immobiliare di lusso Immobilux.

In questo senso è un personaggio interessante: nonostante provenga da un entourage benestante, il personaggio di Emma è autonomo e indipendente, punta sempre a dare il massimo e veicola un messaggio altamente positivo. Vive in un appartamento di Milano accanto al suo amico di sempre, Patrick, figura fondamentale del romanzo in quanto, spesso e volentieri, è proprio colui che sbroglia le matasse emotive che tendono ad aggrovigliarsi nel cuore e nella mente di Emma.

La protagonista, infatti, nonostante i vestiti alla moda e i tacchi vertiginosi, è una ragazza ingenua e insicura. Il suo mondo si svolge quasi ordinariamente, incasellato in un percorso asettico e per nulla denso di emozioni; il lavoro in ufficio, il capo Andrea, la collega Karen compagna di confessioni e shopping e i luoghi abitudinari frequentati dalla stessa Emma che danno al lettore la sensazione di essere coinvolti in una dimensione intima, quasi di sostare con il personaggio stesso nelle proprie consuetudini. Il testo è abbastanza minuzioso e descrittivo e, grazie ai dettagli, sembra di ritrovarsi fra le pagine e passare le giornate con Emma; il caffè Tiffany che frequenta prima del lavoro, il signor Raimondo che incontra ogni mattina e con cui discorre di letteratura e libri d’avventura. Un evento, però, squarcerà questa routine; Emma ha programmato un viaggio alla Maldive con il fidanzato Luca, affascinante e noto fotografo di Milano, suo ragazzo da anni. Una visione sfumata da una vetrata di un ristorante, mentre cena con l’amico Patrick, manderà in pezzi Emma. Immagine che si concretizzerà nel viaggio natalizio che programmava da tempo. Abbandonata, delusa e a pezzi Emma cerca di raccogliere i cocci di sé stessa fra le lacrime e l’intensa tristezza, cercando di sopravvivere a un evento catastrofico anche con l’aiuto di Pat e del fidanzato di quest’ultimo, David.

Il barlume di speranza diviene di nuovo scintillante quando Emma ha una promozione lavorativa inaspettata, che la porta a seguire la stima, e in seguito la vendita, di un immobile a Siena. Lontana dalla caotica Milano, Emma ritroverà sé stessa e non solo; stare a contatto con la natura, per lei che è una ragazza di città, sarà un toccasana per riconnettersi con la sua anima, stremata e a brandelli per il troppo dolore ricevuto. Ma a Siena ci saranno altri due importanti personaggi a darle forza; come in ogni fiaba che si rispetti, anche in quelle moderne i ruoli di ‘’aiutante’’ sono fondamentali. Alla neo-amicizia di Laura, architetto e assistente di Emma che cresce sempre più durante il soggiorno in Toscana, si affianca l’affetto materno di Marta.

Laura è decisa, sicura, ordinata, un po’ quello che non è Emma. E sarà Laura ad aiutarla in più circostanze, quando l’emotività e l’essere sbadata della protagonista prenderanno il sopravvento. Marta, invece, è l’anziana signora proprietaria dell’appartamento a Siena che hanno affittato Laura e Emma per seguire i lavori della tenuta più da vicino. Il personaggio di Marta personifica la saggezza ma, soprattutto, è materno; un lato che Emma, dalla sua vera madre, ha sperimentato di rado.

Un sogno nel vigneto: le colline senesi foriere di emozioni e intensi colpi di scena

L’anziana signora ha un nipote, Edoardo: amante dei cavalli e della natura, inseparabile solo dalla sua fidata cagnolina, ha un carattere diffidente e cupo dovuto a delle delusioni passate. Emma conoscerà il ragazzo in circostanze accidentali per poi ritrovarlo a pranzo dalla Signora Marta, ignari entrambe di questa conoscenza in comune. Nonostante il carattere scorbutico ed irritante del ragazzo, per Emma è un vero colpo di fulmine che, solo dopo numerose vicende, si scoprirà reciproco; dapprima Emma è restia, non vuole soffrire ancora dopo Luca. Ma ciò che incuriosisce la ragazza è quell’alone di mistero che ha Edoardo.

Solo nel corso delle pagine si scoprirà che, il giovane, cela una sofferenza segreta, sconfinata poi in delusione, che lo costringe a mettere un muro con il mondo femminile. Riuscirà ad aprirsi con Emma, rivelandosi romantico, dolce, sognatore e galante; ma, proprio a questo punto, la protagonista commetterà un passo falso che farà crollare la fiducia che nel tempo era riuscita a costruire nel rapporto con Edoardo. Ecco che ritornano i lunghi silenzi, le spunte grigie di WhatsApp che non si colorano di azzurro, l’angoscia di Emma e le sue emozioni che la scrittrice descrive in dettaglio; l’autrice delinea perfettamente ogni minimo stato d’animo della protagonista, dando spazio sì al contenuto della storia e ai colpi di scena ma anche, e soprattutto, alla psicologia di Emma: i suoi timori, le sue insicurezze, la paura di non riuscire. Sentimenti e atteggiamenti da tutti sperimentabili e sperimentati, almeno una volta nella vita, che avvicinano la protagonista a chi si accosta alla lettura.

Nonostante tutto sembri perduto, e per qualche tempo lo sarà, saranno Patrick e David, insieme ai consigli materni di Nonna Marta, che leniranno il dolore di Emma e faranno rifiorire il sorriso sulle labbra della giovane. Il finale è probabilmente quello che i sognatori amanti del romance ameranno di più; un colpo di scena renderà Emma una vera e propria ‘’Principessa’’… in tutti i sensi! Un sogno nel vigneto è un libro in cui si parla di amore, amicizia e presa di posizione. Il tutto condito da una buona dose di ironia e divertimento che renderà ancora più piacevole il fluire della lettura.

‘Paura e disgusto a Las Vegas’ di Hunter S. Thompson. Tra i massimi esempi di gonzo journalism

Fear and Loathing in Las Vegas” è un romanzo rimasto alla storia come uno dei massimi esempi di gonzo journalism. Il suo autore, Hunter S. Thompson (1937-2005), è diventato leggenda per aver concepito un nuovo stile narrativo e per aver interpretato il ruolo del giornalista in modo completamente nuovo, sensazionale e lisergico.

Hunter S. Thompson, il gonzo journalist

Esponente di spicco del “Nuovo Giornalismo Americano”, Hunter S. Thompson aveva pubblicato il suo primo libro nel 1967, intitolato “Hell’s Angels”. L’opera era dedicata alla celebre banda di biker americani, motociclisti accusati dall’opinione pubblica americana di vivere ai confini della legalità, se non proprio criminalmente. Il giornalista aveva trascorso con loro intere giornate e lunghe nottate, tra bevute, risse e fatti assurdi di ogni sorta. Per la rivista Scanlan’s Monthly scrive un articolo che passa subito alla storia, ovvero “The Kentucky Derby Is Decadent and Depraved”. Racconta di una celebre corsa di cavalli di Louisville, descrivendo in ogni dettaglio l’atmosfera degradata, corrotta e festosa dell’evento, non tanto la corsa in sé. Questo articolo viene definito da Bill Caroso, giornalista del Boston Globe, come primo esempio di gonzo journalism. La parola gonzo veniva usata dagli irlandesi per designare l’ultimo uomo che resta in piedi dopo una lunga notte di bagordi. Hunter S. Thompson continua a scrivere e pubblica nuovi libri come “La grande caccia allo squalo”, “Meglio del sesso”, “Cronache del rum” e “Screwjack”.

 

Paura e disgusto a Las Vegas

Tuttavia, il libro che più di ogni altro gli darà gloria sarà “Paura e disgusto a Las Vegas, pubblicato in due puntate sulla rivista Rolling Stone nel 1971. Il testo viene tradotto in Italia per la prima volta nel 1978 da Alberto Gini per i tipi di Arcana Editrice. È intitolato “Paranoia a Las Vegas” e non ottiene grande successo né di pubblico, né di critica. Viene ritradotto molti anni dopo, nel 1996, da Sandro Veronesi per Bompiani. Questa nuova edizione vedrà l’aggiunta in appendice di una “Piccola Enciclopedia Psichedelica”, che contiene un glossario di voci e di spiegazioni sui luoghi e i personaggi che compaiono nel libro.

 

Welcome to Las Vegas, pic by Lindsay Scott, Pixabar

 

 

“Scovare il sogno americano”

Come già accennato, “Paura e Disgusto a Las Vegas” si basa su fatti realmente accaduti. Hunter S. Thompson tra il 21 e il 23 marzo del 1971 era partito veramente alla volta di Las Vegas insieme all’avvocato di origine messicana Oscar Zeta Acosta. Hunter S. Thompson stava raccogliendo materiale per scrivere un articolo sulla morte del giornalista messicano-americano Rubén Salazar per mano della polizia di Los Angeles durante le proteste contro la guerra in Vietnam.

L’avvocato Oscar Zeta Acosta era un attivista messicano e Thompson voleva incontrarlo per approfondire la questione. Tuttavia, in città la situazione era molto tesa, così il giornalista decide di invitarlo a Las Vegas. Perché proprio a Las Vegas? In primo luogo perché in quei giorni la rivista Sports Illustrated aveva ingaggiato Thompson per seguire la Mint 400, una corsa motociclistica che si tiene ancora oggi a Las Vegas. In secondo luogo, perché Thompson aveva un obiettivo preciso, ovvero quello di “scovare il Sogno Americano”. Las Vegas all’epoca era già un’icona del sogno americano con tutte le sue luci e tutte le sue ombre. Era una città in cui tutto era possibile, dove in una notte si poteva realizzare ogni cosa. Si potevano trovare i migliori posti al mondo dove giocare a poker, casinò, locali notturni, discoteche e molto altro ancora. Si potevano incontrare persone di ogni tipo. Lì ci si apriva a ogni possibilità, anche alle più improbabili e tutto poteva accadere.

 

Il viaggio di Raoul Duke e del Dr. Gonzo

I personaggi di questo viaggio prenderanno i nomi letterari di Raoul Duke (alter-ego del giornalista) e del Dr. Gonzo, avvocato samoano. Il viaggio dei due è allucinato, esilarante e grottesco allo stesso tempo. Viaggiano a bordo di una Chevrolet decappottabile rossa. Hanno a disposizione 300 dollari in contanti e un bagaglio pieno di sostanze psicotrope di ogni tipo. La corsa motociclistica passa immediatamente in secondo piano, anzi, molto presto viene proprio dimenticata. Emerge un’America grottesca, kitsch. Siamo appena all’inizio degli anni Settanta, ma si percepisce già un senso di disillusione pervadente.

Secondo alcuni critici “Paura e disgusto a Las Vegas” è un’opera segretamente modellata sul Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Il romanzo viene ricalcato sia nei temi, che nel ritmo. D’altronde, si dice che da ragazzo Thompson per esercizio avesse ribattuto a macchina tutto il libro di Fitzgerald nella sua interezza.

Paura e disgusto a Las Vegas” ritornerà in auge grazie al cinema. Negli anni Ottanta, il libro verrà portato sul grande schermo dal regista Art Linson, che ingaggerà Bill Murray e Peter Boyle per un film che sarà intitolato “Where the Buffalo Roam”. La pellicola è un flop, ma nel 1998 Terry Gilliam ci riprova e dirige una nuova versione di “Fear and Loathing in Las Vegas”. Sullo schermo troviamo Johnny Depp e Benicio del Toro, il successo è mondiale.

Fonte Rawpixel

‘Il mulino del Po’, l’opera monumentale di Riccardo Bacchelli

Il mulino del Po: si contano forse sulle dita, e ogni anno scemano, e per scoprirli bisogna andare apposta a cercarli, chi non percorra il fiume in barca.

Tanto pochi, nella vastità molle e potente del fiume serpeggiante, li nascondono o li lasciano appena intravedere, qua un gomito, là un ciglio d’argine, altrove un lembo di golena boscosa, o le svolte della strada rivierasca.

Mulini del Po: le parole con cui Riccardo Bacchelli apriva il suo romanzo intitolano e inaugurano anche queste pagine, ne suggeriscono il metodo di ricerca e mormorano le difficoltà incontrate.

Un romanzo fluviale di uno scrittore emarginato dal Novecento e la storia, anch’essa fluviale, delle sue riscritture per il cinema e per la televisione.

Il mulino del Po: trama e contenuti

Lazzaro Scacerni, nominato erede da Mazzacorati, un capitano dell’esercito napoleonico in Russia, tornato in Italia si costruisce un mulino. Sposa Dosolina e conserva con difficoltà i suoi beni. Il figlio Giuseppe, detto Coniglio Mannaro, riesce ad ampliare, non sempre con metodi leciti, la proprietà paterna.

Il figlio di Giuseppe, Lazzarino, raggiunto Garibaldi, muore a Mentana. Dopo una violenta inondazione Coniglio impazzisce e finisce in manicomio. La moglie Cecilia supera mille avversità per mantenere la famiglia.

Il figlio Princivalle, per difendere la sorella Berta, uccide con un pugno un giovane vicino. Un altro figlio di Cecilia, Giovanni si sposa e adotta un trovatello che morirà sul Piave nel 1918 e sarà l’ultimo Lazzaro Scacerni.

Nell’ultima parte del romanzo, intitolata Mondo vecchio sempre nuovo, l’epopea della famiglia Scacerni giunge alla fine. Cecilia, moglie di Giuseppe, fa di tutto per riuscire a sopravvivere da sola.

Una volta rimasta vedova, però, la sfortuna si accanisce di nuovo su di lei: il figlio Princivalle verrà accusato dell’incendio doloso del San Michele e finirà in carcere.

Giovanni, l’altro suo figlio, adotta un bambino e lo chiama Lazzaro. Questo verrà però ucciso sul Piave proprio mentre la vittoria italiana si stava avvicinando. Era un geniere e, quando venne colpito, stava lavorando alla costruzione di un ponte di barche.

Una trilogia sul Risorgimento italiano

La trilogia pubblicata a puntate da Riccardo Bacchelli sulla rivista «Nuova Antologia» tra il 1938 e il 1940, e poi raccolta in volumi per l’editore Garzanti, è infatti solo uno dei mulini del Po: il capostipite di una serie di mulini ridisegnati in seguito per il discorso audiovisivo sul grande e sul piccolo schermo.

Saranno questi i veri “ultimi mulini natanti, gli ultimi degli ultimi”.

Sia per il film del 1949 diretto da Alberto Lattuada sia per lo sceneggiato trasmesso in due cicli con la regia di Sandro Bolchi nel 1963 e nel 1971 sulla Rete Nazionale, il romanzo di Bacchelli rappresenta il palinsesto sul quale sono stati vergati dei sovratesti, destinati a tradursi in immagini.

Tra letteratura, cinema e televisione

Entrare nei cantieri di scrittura cinematografica e televisiva del Mulino del Po significa valutare per la prima volta un lavoro di tessitura dell’intreccio fatto di tappe e mani diverse. E significa scoprire sempre, a fianco alle tracce lasciate da illustri sceneggiatori che rispondono ai nomi di Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Bonfantini, Carlo Musso e Luigi Comencini, il filo rosso tratteggiato dal pennino di Riccardo Bacchelli, coinvolto in entrambi i progetti.

Per una manciata d’anni Riccardo Bacchelli, classe 1891, nasce prima dell’invenzione del cinematografo e, rispetto a esso,
condivide con la generazione dei letterati più anziani – Giovanni Verga in testa – quell’atteggiamento ambivalente fatto di diffidenza e di sottaciuta compromissione professionale solo in ragione dell’odor di quattrini.

A differenza dei suoi predecessori, però, Bacchelli incontra anche la televisione. E la rimira. Egli è uno dei primi letterati che entra fisicamente nel tubo catodico, conduce trasmissioni culturali di un certo rilievo e spende con dovizia il suo inchiostro per la narrazione drammaturgica sul piccolo schermo.

La storia dei “piccoli” e quella dei grandi

Il mulino del Po è il racconto di diverse generazioni, uno spaccato tra la caduta di Napoleone e il primo Dopoguerra, dove la storia quotidiana si intreccia con la grande Storia.

La lettura in certi punti risulta un po’ ostica, causa i moltissimi dettagli storici, una ricca  storiografia di eventi minori. Nonostante questi aspetti, l’opera di Bacchelli rimane importantissima e purtroppo dimenticata (l’ultima edizione risale al 2013, Mondadori).

Il mulino del Po offre un’immagine vivida di come potevano svolgersi le vicende umane e sociali in un periodo movimentato come quello della lunga strada per l’unità d’Italia (il brigantaggio, i primi moti sociali).

Per noi che siamo ancora abituati a studiare la storia, a scuola, sempre e solo dal punto di vista dei grandi (politici, generali e comandanti militari, alti prelati) è l’occasione di immaginare ed immedesimarsi nei punti di vista dei “piccoli” (contadini, mugnai e lavoratori in genere, soldati semplici, curati di campagna) che sono poi, in ultima analisi, quelli che la storia la fanno realmente, ma perdendosi nell’oblio, oscurati dai grandi nomi che i libri di storia annoverano.

Il moralismo di Bacchelli

Il peculiare moralismo di Bacchelli riesce, per la maggior parte del romanzo, a dare una base solida sia alla visione della vicenda che allo svolgersi dell’intreccio. Non esente da descrizioni bucoliche alle volte caricaturali, l’autore è però capace anche di far commuovere e di tenere inchiodata l’attenzione del lettore alla pagina con la sua scrittura che per lunghi tratti scorre fluida e per un romanzo  che supera le duemila pagine, l’insieme appare tuttavia di una compattezza indubbiamente da apprezzare.

Irène Némirovsky, tra i casi letterari più potenti degli ultimi decenni

Le sembrò tutto ambiguo, una fatalità, forse, ordita da un romanziere sadico. Il 2 febbraio del 1939 Irène Némirovsky si era fatta battezzare presso l’Abbazia di Sainte-Marie, l’anno dopo veniva censita come ebrea.

La lettera inviata al maresciallo Pétain – “Inutile dire che non mi sono mai occupata di politica, avendo scritto opere puramente letterarie… mi sono impegnata al massimo per far conoscere e amare la Francia” – non aveva sortito effetto.

Eppure, Irène Némirovsky, donna audace, d’intransigente bellezza, cruda, era tra gli scrittori più noti, in Francia. Da David Golder, uscito nel 1929 per Grasset, era stato tratto un film di successo – passato, in Italia, come “La beffa della vita” – girato da Julien Duvivier.

Irène Némirovsky, la femme fatale della letteratura francese

Nel 1931 Robert Brasillach ne aveva esaltato l’afflato lirico, “così toccante e così vero”. Era nata a Kiev, l’11 febbraio del 1903: il papà era banchiere, ebreo non praticante, la madre impediva che si parlasse yiddish o russo, in casa vigeva la legge grammaticale del francese.

La Rivoluzione, ovviamente, ruppe l’idillio: Irène e mammà, vestite da contadine, fuggono, miracolosamente, in Finlandia; insieme al padre approdano a Stoccolma, infine, nel ’19, si stabiliscono a Parigi. Irène si sente francese: pubblica libri di successo – Il ballo, I cani e i lupi, Jezabel, La preda – ma le viene negata la cittadinanza.

Poco gliene importa, ebbra di fama. Ancora nel luglio del 1942, arrestata dai gendarmi di Vichy, non crede nell’inevitabile, e scrive al marito: “Amore mio, in questo momento sono seduta alla gendarmeria dove ho mangiato ribes in attesa che venissero a prendermi. Soprattutto, sta’ tranquillo, sono certa che sarà questione di poco… Copri di baci le mie adorate bambine… Se poteste mandarmi qualcosa… Libri, per favore, e se possibile anche un po’ di burro salato”.

La deportazione ad Aushwitz

Deportata ad Aushwitz, muore il 6 novembre di quell’anno, in una camera a gas. La resurrezione accade, col criterio del prodigio, nel 2004, quando Denoël pubblica Suite francese, il manoscritto dell’ultimo romanzo della Némirovsky, nascosto in una valigia che conteneva diversi effetti personali.

Il successo, la seconda volta, è più clamoroso della prima: sulla scia di Adelphi, non c’è editore italiano che non abbia la propria traduzione di Suite francese – vincitore di un Prix Renaudot postumo –, da cui è tratto un film di dubbia bellezza, con Michelle Williams e Kristin Scott Thomas. La straordinaria storia del manoscritto, insieme alla pubblicazione del “capitolo ritrovato di Suite francese”, è il cuore di un libro, Re di un’ora (Edizioni Ares, 2021), che allinea diversi inediti – il più importante è quello che dona il titolo al testo – e mostra un poco la virtuosa attività pubblicistica della Némirovsky (aveva sintonia con Pearl S. Buck, le piaceva Il postino suona sempre due volte).

L’ebraismo di Irene

A curare il volume, Cinzia Bigliosi, traduttrice di platino – per Bompiani ha appena licenziato la sua versione de Il rosso e il nero; per Feltrinelli ha tradotto Guy de Maupassant, George Sand, Alexandre Dumas –, con una propensione ‘affettiva’ per la Némirovsky (ha tradotto Suite francese per Feltrinelli, La nemica per Astoria, ha curato il libro di Élisabeth Gille, Mirador. Irène Némirowsky mia madre).

Secondo Cinzia Bigliosi il mondo ebraico di Irène Némirovsky è la matrice di un immaginario con il quale la scrittrice intratteneva un rapporto molto forte, anche se fino a poco prima dell’Anschluss, sarebbe rimasto quasi esclusivamente un tema letterario.

Nella vita di Irène l’ebraismo ha agito come una negazione primordiale che partecipò probabilmente all’inconsapevolezza del pericolo nazista da parte di Irène che non ricordava più la propria origine e che ha guardato fin quasi alla fine a quello che le capitava intorno come a un fatto che non potesse riguardarla fino in fondo.

Re di un’ora, il libro più importante di Némirovsky

Re di un’ora è il testo fondativo e fondamentale nell’opera di Irène Némirovsky, per diversi motivi. Prima di tutto l’idea di fondo che nel 1934 sfocerà in questo breve trattato fisiologico, nello stile di Balzac, è ossessiva e il “macher”, ossia il faccendiere di origine levantine sul quale si concentra e che ha molti tratti in comune, se volessimo scivolare nel freudismo, con il padre, è protagonista della maggior parte dei suoi scritti narrativi, in primis David Golder.

Inoltre l’analisi alla quale si abbandona Irène nello scavare tra esempi a lei contemporanei la spinge senza che se ne accorga nella costruzione di un vero e proprio tipo, e in questo modo il “macher” diventa, letto con lo sguardo di oggi, un modello modernissimo di affarista nel quale potremmo riconoscere molti dei personaggi che infestano la vita pubblica e politica, e qualche cella carceraria, affaristi non solo italiani che, giunti dal nulla, salgono in cima a montagne di denaro e di successo per crollare nel vuoto poco dopo, e ricominciare da capo, senza soluzione di continuità.

 

 

Fonte

Davide Brullo

‘Vita in Egitto’ di Enrico Pea. Racconto da dove è partita la rinascita della letteratura italiana

Nel 1949, la Mondadori pubblica Vita in Egitto di Enrico Pea. Nonostante da decenni manchi una ristampa, questo titolo ha un’importanza capitale non soltanto per il gran pezzo di letteratura che rappresenta, ma anche per l’incredibile testimonianza che contiene.

In queste pagine, infatti, Pea fa un resoconto estremamente espressivo e concreto degli anni da lui vissuti in Egitto, per esattezza ad Alessandria, gran metropoli mediorientale. In questa opera lo scrittore seravezzino ci fa dono di pagine roventi; questo non solo in virtù dell’arido sole alessandrino, che tanto volentieri cuoce la carne degli uomini, ma anche per il turbinio di passioni politiche, amorose, artistiche e religiose che muovono le zone più umili della città, e che sono racchiuse in questa opera.

Alessandria d’Egitto durante l’inizio del XX secolo

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Alessandria d’Egitto è un brulichio di razze e culture diverse: vi si trovano greci, arabi, copti, spagnoli, russi, ebrei e italiani, tutti mossi verso questa metropoli mediterranea per motivi diversi. Per quanto riguarda gli italiani (ma non solo), i motivi più stringenti sono sostanzialmente due: la ricerca di un lavoro e la politica. Proprio per quest’ultimo motivo, è presente una rete anarchica molto organizzata sul territorio. Non ci vuole molto tempo che il giovane Pea viene “iniziato” all’anarchia da Pilade, pisano, fuggito dall’Italia a causa di una condanna pendente sulla sua testa:

“Da Pilade ebbi la prima lezione sulla “società futura”. Fui chiamato “simpatizzante” che è il primo grado (anche l’anarchia ha i suoi gradi), “compagno” lo sarei diventato più tardi. Alto. Magro e di pelle rossa. Autoritario. Pilade metteva soggezione”.

Enrico Pea mette su un luogo che sembra essere la rappresentazione vivida di questa temperie alessandrina, ovvero la “baracca rossa”, «tumultante ritrovo di gente d’ogni risma e d’ogni nazione».

Trama e contenuti

È nella baracca rossa che si riuniscono, ogni giorno, tutte le teste calde della città, ed è proprio qui che Pea fa la conoscenza con il giovane Giuseppe Ungaretti. È a questo punto, quindi, che è necessario chiarire la natura di questo anarchismo, così diffuso nei bassifondi di Alessandria d’Egitto e nel libro. Non c’è da pensare, infatti, che tutti coloro che si professano anarchici, o che frequentano la baracca rossa, siano realmente degli ideologi formati sulle idee sovversive di un Proudhon o di un Bakunin.

Molto più spesso, si tratta di un vago istinto ribelle nei confronti della borghesia e di tutto ciò che sembra limitare la libertà individuale. Esempio lampante di ciò, è proprio Ungaretti, poiché «non era tutto di eguaglianza e di pane, l’affanno delle sue battaglie, ché in quell’arroventarsi c’era anche la voglia di svincolarsi dalle leggi borghesi: il desiderio d’impossessarsi del mondo. Era un agitarsi senza misura e senza meta: rompere intanto, con la furia dei giovani, per vedere com’è fatta la vita.»

Un racconto concreto privo di idealismi

In altri casi ancora, a far scaturire la fiamma della ribellione è solo un vago risentimento sociale, dovuto principalmente alla propria condizione di indigenza.

Non è un caso che proprio uno dei più forti esclamatori delle dottrine anarchiche, ovvero Pilade, una volta arricchitosi, abbia archiviato senza troppi problemi le sue vecchie passioni politiche. Superata la tragica morte del primogenito, Guidino, Pilade infatti riesce a far fortuna, assicurando a lui e alla moglie Argia una vita agiata:

“Se l’Argia avesse ancora Guidino oggi Guidino (lontano dal farsi regicida) sarebbe laureando, in qualche scienza. E se l’Argiaavesse avuto anche una figliola, la figliola suonerebbe il piano nel salotto buono nei giorni di ricevimento.”

Non è un racconto, quello di Pea, viziato da sentimentalismo o idealismo di alcuna sorta. Concreto e aderente alla realtà, come suo solito, non indora alcuna pillola, non distorce i fatti in nome di chissà quale verità. Non di rado, la narrazione si fa cinica e cruda, in particolare quando va a descrivere i vezzi e le manie degli abitanti del luogo da lui conosciuti.

Le famiglie greche, spagnole, ebree, i lavoratori arabi… ognuno di questi gruppi è come se avesse delle caratteristiche archetipiche. Gli ultimi menzionati, ad esempio, sono rappresentati quasi all’opposto dei sovversivi italiani: remissivi alle forze pubbliche e ai “padroni”, religiosi fino quasi alla superstizione.

Un parallelismo con Ungaretti

Il contrasto ben si avverte in uno degli episodi narrati nel libro, in cui l’autore, appena sbarcato in Alessandria, vedendo un arabo picchiato da un poliziotto, si butta in mezzo per difenderlo. Oltre a essere stato picchiato a sua volta, Enrico Pea subisce pure il dileggio degli altri arabi, divertiti dal suo altruismo considerato assurdo.

D’altra parte, la superstizione dei lavoratori arabi è ampiamente usata contro di loro. Un esempio è costituito dalla madre di Ungaretti, che per svegliare i suoi braccianti nel cuore della notte per impastare il pane, libera un suino nei loro alloggi. Questi, considerando l’animale demoniaco, ai suoi grugniti si destano spaventati a morte e docili come agnellini. Anche in questo caso, però, non si deve pensare che l’intento dell’autore sia quello di ridicolizzare le credenze religiose, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che accompagna tutto Vita in Egitto, infatti, quello è proprio la ricerca spirituale. Per spiegarsi meglio, però è necessario dire qualcosa in più sulla struttura del libro.

Il racconto è steso in maniera apparentemente disordinata, con pochissimi punti di riferimento cronologici. Pea passa senza problemi da un argomento all’altro, mosso da suggestioni, ricordi, emozioni. Eppure, ogni divagazione prende un significato preciso, se il libro viene preso nella sua globalità.

La figura di Giuda

Ad accompagnare quasi tutti gli episodi narrati da Pea, infatti, è il fantasma di Giuda Iscariota. Lo scrittore seravezzino vuole chiarire al lettore la genesi del primo personaggio da lui messo sulla scena, nella sua opera teatrale più blasfema e dissacrante. «Riabilitare Giuda», questa la folle idea che Enrico Pea partorisce: una simile bestemmia non poteva che avere i natali in un luogo di bestemmiatori.

Eppure, nonostante gli anarchici, nonostante il materialismo imperante, tutto sembra dover portare a una riflessione sulla Fede: in visita a casa dei fratelli Thuil con Ungaretti, tra tutti i libri rari da questi posseduti, l’unico che attrae Pea è la bibbia della loro nonna; a lavoro e negli ambienti anarchici, si ritrova ad essere l’unico amico e il protettore di Pipicco, giovane spagnolo devotamente cattolico; nel cimitero civile, una volta seppellito il figlio di Pilade, viene disgustato dalle chiacchiere eccessivamente materialiste del custode.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Vita in Egitto comincia con la volontà di redimere Giuda Iscariota e finisce con la recita di una messa francescana.

Imbarcato sulla nave di ritorno in Italia, l’autore si imbatte nei preparativi di una messa. Chiede al marinaio se quella fosse una messa regolare, come quelle officiate in chiesa, e questo gli risponde che un gruppo di soriani cattolici si era portato con sé un prete, proprio con lo scopo di non saltare la liturgia nel lungo viaggio che li avrebbe portati in America.

Pea decide di assistere alla messa, per curiosità. Il marinaio, credendolo credente, gli accosta una sedia, nel caso volesse inginocchiarsi durante il rito. Pea, confuso e sdegnato da questa incomprensione, si trattiene dal rispondergli con male parole. Parte la messa, Pea ne rimane come stregato:

“E quando l’officiante si rivolse: aperse le braccia e disse: «Ita, missa est.» E gli emigranti si levarono in piedi, mi avvidi che anch’io avevo poggiato i ginocchi sulla sedia messa lì a bella posta in quel modo, dal marinaio, alle cui parole poc’anzi avevo provato superbia, confusione, sdegno.”

 

Fonte

Nicolò Bindi

‘La montagna incantata’ di Mann: una lettura filosofica di Davide Morelli

Ha perfettamente ragione Milan Kundera, quando scrive nel suo saggio “L’arte del romanzo”, che il romanzo è soprattutto complessità.  La montagna incantata infatti è impegnativa per la molteplicità di temi filosofici, politici, morali, scientifici, religiosi trattati. Il lettore si trova di fronte a molti spunti di riflessione.

La montagna incantata: un crogiolo di pensieri dell’epoca di Mann

Thomas Mann ha adoperato tutta la sua cultura per descrivere tutte le correnti di pensiero dell’epoca. Mann nella lezione per gli studenti dell’Università di Princeton dichiarò che questo è un romanzo del tempo in due sensi: “Anzitutto sul piano storico, in quanto cerca di delineare l’interiore immagine di un’epoca, quella dell’anteguerra europeo; in secondo luogo, però, perché suo argomento è il tempo puro, e questo oggetto è trattato non solo come esperienza del protagonista, ma anche in e per se stesso”.

Riguardo al primo punto Zecchi nel saggio “L’artista armato contro i crimini della modernità” sottolinea che la posizione assunta da Settembrini, ovvero che il nichilismo potesse essere contrastato con le scienze esatte in sinergia con le scienze dello spirito, sia stata una idea diffusa agli inizi del Novecento.

Trama e letture filosofiche

Poi giunse Husserl a spiegare che il progresso scientifico aveva allontanato l’uomo dal “mondo della vita”, facendogli perdere la visione globale del mondo e facendogli dimenticare l’interiorità. Per quel che riguarda l’argomento del tempo puro, ricordo che il protagonista mediterà più volte su di esso, chiedendosi quale sia l’organo specifico del cervello che che ci fa intuire lo scorrere degli istanti. Comunque iniziamo con la trama del romanzo che è semplice.

Nella Montagna incantata i protagonisti sono statici. Il romanzo fu ispirato da un fatto realmente accaduto a Mann. Egli stesso visse per tre settimane in un sanatorio, dove sua moglie fu curata per sei mesi. Anche Castorp, il protagonista, deve trascorrerci inizialmente solo tre settimane per far visita a suo cugino che soffre di tisi. Ma il giovane ingegnere Castorp per delle complicazioni alle vie polmonari finirà per trascorrere ben sette anni nel sanatorio svizzero.

In quel periodo si innamorerà di una ragazza russa a cui si dichiarerà e che gli concederà un bacio sulle labbra. Qui avrà modo anche di conoscere il letterato Settembrini e il gesuita Naphta. Settembrini è carducciano, massone, volterriano. Naphta è un nichilista, un conservatore.

Il primo è un razionalista. Il secondo invece è un irrazionalista. Castorp ascolta sempre le loro discussioni colte ed oscilla continuamente tra i due poli di questi suoi precettori. Oscilla tra l’evasione dell’arte e lo spirito religioso, tra l’impegno pratico e il riconoscimento della decadenza dei valori, tra rivoluzione e conservazione.

Le due posizioni presenti nel romanzo

Comprendere queste due posizioni non è facile perché contengono delle contraddizioni interne e delle antinomie. Le argomentazioni nella Montagna incantata sono complesse e rappresentano tutte le scuole di pensiero dell’epoca. Ma questi due personaggi sono complessi anche perché sono incoerenti. Settembrini dichiara che a volte bisogna utilizzare la violenza, eppure quando si trova a duellare con Naphta non mira all’avversario ma spara in aria.

Quest’ultimo decanta il misticismo cristiano e ciò nonostante soccombe alle proprie tare esistenziali e si suicida. Altro aspetto rilevante del libro è che tutti i personaggi sono borghesi e Mann riesce a fare una analisi spietata della borghesia della sua epoca.

Come ebbe modo di scrivere Lukacs nella prefazione alle novelle, lo scrittore fu testimone e giudice della decadenza borghese. Nel saggio “Mann e la tragedia dell’arte moderna” Lukacs scrive che lo scrittore tedesco è uno dei grandi esponenti del realismo critico e che riesce a svelare tutte le problematiche della società borghese, rappresentando l’apice del pensiero progressista di questa.

Rapporto tra conoscenza e malattia

Altro aspetto importante della Montagna incantata è il rapporto stretto tra voglia di conoscere e malattia. Se da un lato la malattia è disumana perché umilia l’uomo, dall’altro lato è occasione per Castorp per approfondire determinati argomenti che nella civiltà frenetica della pianura non avrebbe mai minimante trattato. La sofferenza quindi aiuta ad aumentare la consapevolezza.

La malattia è fonte di umanità, di conoscenza e di saggezza. Inoltre con il cristianesimo comunista di Naphta, Mann è riuscito ad intuire una delle possibilità della politica del novecento. L’unione del cristianesimo con il marxismo in Italia fu pensata da molti, anche dallo stesso Pasolini.

In America Latina fu anche applicata da preti rivoluzionari come Ernesto Cardenal, ministro della cultura del governo sandinista. Mann non era marxista, ma grazie al suo acume aveva intuito cosa sarebbe potuto accadere. Ad onor del vero va detto comunque che più che l’unione tra cristianesimo e marxismo si verificò almeno in Italia quella tra cattolicesimo e comunismo.

Da notare infine che anche il romanzo “Diceria dell’untore” di Bufalino tratta di un sanatorio per malati di tisi, anche se è ambientato nel dopoguerra, il protagonista è un reduce, non ci sono conversazioni così impegnate e in primo piano c’è una storia di amore che finirà con la morte della donna.

La montagna incantata è dunque completamente diverso dal libro di Bufalino. È innanzitutto un complesso romanzo di formazione, che riesce ad essere sia pedagogico che ironico. Bisogna ricordare anche che a Mann ci vollero dodici anni per completare questo capolavoro: niente a che vedere con certi scrittori di oggi, che pubblicano un libro commerciale all’anno.

‘Il Signore degli Anelli’ di Tolkien, un mondo immaginario ma reale nella recensione del poeta Auden

Al mondo esisteranno pure lettori che non amano le Gesta Eroiche, però io non ne ho mai incontrati. Per molti di noi costituiscono il più piacevole genere letterario, al punto che non possiamo fare a meno di divorarne le pagine anche quando la nostra capacità critica le bolla come spazzatura. Chiunque ricordi Lo Hobbit come il miglior racconto per bambini degli ultimi cinquant’anni non potrà che aprire la nuova opera del professor Tolkien con le più alte aspettative, e tuttavia La Compagnia dell’Anello le supera tutte. Sarebbe alquanto sorprendente se entro il prossimo Natale il libro non lo rendesse ricco.

Nel parlare di un romanzo di questo tipo il recensore si trova in difficoltà, perché non deve rovinare il gusto della lettura rivelando la trama, che in questo caso è intrigante almeno quanto quella de I Trentanove Scalini. Di norma i racconti epici trattano di un oggetto arcano di cui il Nemico si è impossessato, o che terrificanti guardiani proteggono da quanti ne sono indegni; nessuno può recuperarlo se non l’eletto, il cui compito è appunto quello di trovarlo. Ne La Compagnia dell’Anello, l’oggetto arcano (che somiglia all’Anello dei Nibelunghi, ma ancora più minaccioso) è già all’inizio in mano all’eroe. Il Nemico che lo ha creato lo credeva perduto per sempre, ma ora ha scoperto dove si trova e dispiega i suoi mezzi demoniaci per recuperarlo. E poiché nemmeno i giusti possono farne uso senza soccombere al male, deve essere distrutto: questo però si può fare soltanto in un certo modo e in certo luogo, che si trova purtroppo nel cuore del regno Nemico. La Missione, quindi, consiste portare l’Anello nel luogo della sua disfatta, senza mai essere intercettati.

Questa Missione si svolge all’interno di un mondo scaturito dall’immaginazione di Tolkien, con tanto di paesaggi, storia, abitanti. Nelle sue linee generali, questo mondo è Celtico e Scandinavo, più che Mediterraneo. L’eroe, il signor Frodo Baggins, appartiene a una razza di creature note come Hobbit. Nonostante la statura di tre piedi soltanto e la peluria plantare, gli Hobbit ricordano molto nel modo di pensare e nella sensibilità gli arcadici paesani che popolano i racconti gialli inglesi. Per mille anni questi esseri rurali hanno goduto di un’esistenza idilliaca all’interno di una fertile regione denominata la Contea, poco informati (e per nulla interessati) sulla vita oltre il confine. In realtà, la Contea è una piccola oasi in un mondo in decadenza: quelle che erano un tempo grandi città ormai sono cadute in rovina, fertili pianure si sono trasformate in sterili distese, le strade e i ponti sono uno sfacelo, ovunque si è braccati da bestie feroci e poteri maligni. Oltre agli Hobbit e alla loro infantile innocenza, incontriamo Elfi (che conoscono il bene e il male, ma non hanno sperimentato la Caduta), Nani e Uomini (buoni o cattivi). Alcuni di loro sono eroici combattenti, e discendono da sovrani del passato, altri sono stregoni. L’incarnazione più recente del Nemico è Sauron, Signore di Barad-dûr, la Torre Nera della Terra di Mordor. Sauron è a capo di un esercito di Troll, Orchi e altre creature ancora più letali, e ogni giorno accresce il suo potere sulle menti degli uomini.

Uno scrittore contemporaneo che si prefigga di creare un universo immaginario ma convincente ha davanti a sé impresa molto più ardua di quella affrontata dagli autori dei romanzi cortesi, perché non può scrivere né essere letto senza tenere a mente la letteratura del verosimile e la ricerca scientifica degli ultimi secoli. Per questo, darà una qualche idea del portento di Tolkien il fatto che sono riuscito a trovare solo due dettagli poco plausibili da contestargli. I dettagli stessi illustrano bene le differenze fra i lettori del ventesimo secolo e i contemporanei di Edmund Spenser. In primo luogo, leggiamo che gli Hobbit hanno conosciuto molti anni di prosperità, immuni da guerre, pestilenze e carestie, e che di norma sono longevi e hanno famiglie numerose. In tal caso, non riesco a concepire come la sovrappopolazione non li abbia costretti a emigrare dalla Contea. In secondo luogo (dettaglio quasi irrilevante) il prosciugamento del fiume Sirannon viene attribuito ad una diga, che ha creato un lago. Questo lago è però pieno da anni: dove vanno a finire le sue acque?

Il primo problema che si presenta a chi crea un mondo immaginario è lo stesso che si presentò ad Adamo: deve stabilire un nome per ogni cosa e ogni creatura; questi nomi devono essere appropriati e coerenti fra loro. Già in un universo ‘comico’ il compito è arduo; in uno ‘serio’, il successo sembra quasi un miraggio. Posso solo dire che l’abilità di Tolkien al riguardo supera quella di qualsiasi altro scrittore a me noto, morto o vivente. Il paesaggio del suo racconto è vastissimo: da est a ovest, dalle Colline Ferrose al Golfo della Luna, corrono milleduecento miglia, e da Nord a Sud, da Carn Dum al delta dell’Anduin, ne passano millecento. In questa regione vivono numerose specie dotate di parola: ognuna ha la sua nomenclatura, la sua storia e la sua politica, eppure l’autore trova senza difficoltà apparente nomi che sembrano ineluttabili. Vero che è un filologo rinomato, però chi dei suoi colleghi saprebbe inventarsi linguaggi ‘buoni’ e ‘malvagi’ convincenti quanto i seguenti esempi?

A Elbereth Gilthoniel,
silivren penna míriel
o menel aglar elenath!
Na-chaered palan-díriel
o galadhremmin ennorath,
Fanuilos, le linnathon
nef aear, sí nef aearon!
Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,
ash nazg thrakatulûk, agh burzum-ishi krimpatul

E ancora: quale altro creatore di paesaggi immaginari possiede un altrettanto acuto occhio per la topografia? Perché un viaggio sembri reale, il lettore deve poter vedere i luoghi attraversati come li vedrebbe il viandante, vale a dire diversamente a seconda del mezzo di trasporto e delle circostanze della missione. Alla fine del libro Frodo Baggins ha percorso all’incirca milletrecento miglia, in gran parte a piedi, coi sensi costantemente all’erta per via della paura, scrutando ogni angolo del cammino in cerca dei suoi inseguitori; eppure, Tolkien riesce a convincerci di non aver tralasciato nemmeno un dettaglio di quelli colti dai suoi eroi. In effetti, è talmente accurato che il lettore che consulta la bellissima cartina a fine libro si accorgerà subito che il percorso effettuato fra il Ponte sull’Hoarwell e il Forte di Bruinen è disegnato in modo errato.

Nelle circostanze critiche che caratterizzano le trame eroiche, le reazioni contemplate non sono molte (combattere o fuggire, essere leali o tradire), e le sfumature caratteriali non sono possibili né importanti. I personaggi devono rappresentare gli archetipi letterari fondamentali: il Saggio, il Forte, lo Spensierato, il Cauto, la Dama Bianca, il Signore Oscuro. Tolkien riesce intelligentemente a dare ad ogni archetipo una profondità e una solidità fuori dal comune, e racconta per ognuno di loro una storia che è rappresentativa del clan a cui appartiene. Il passato di Aragorn, ad esempio, parla non solo di lui ma di tutti i Raminghi. Soltanto un personaggio non gli è riuscito, ma forse si tratta di antipatia personale. Sam Gamgee, lo scudiero fidato, è senz’altro un personaggio rispettabile e suppongo dovremmo apprezzarlo, però a me fa solo venir voglia di prenderlo a calci.

Probabilmente la più grande impresa di Tolkien è esser riuscito a scrivere un romanzo epico che sembra del tutto pertinente alla realtà dell’epoca in cui viviamo. Quando leggiamo storie medievali del medesimo genere, per quanto piacevoli le possiamo trovare, siamo talvolta tentati di domandare al Cavaliere Errante: la tua missione è così importante? Persino nella ricerca del Sacro Graal, il successo o il fallimento sono rilevanti soltanto per quelli che la intraprendono. È difficile scrollarsi di dosso il sospetto che, nel caso dei suddetti Cavalieri, la loro ‘vocazione’ sia un termine altisonante che designa il passatempo a cui i più ricchi possono giocare mentre il duro lavoro è svolto dai ‘villani’. Ne La Compagnia dell’Anello, al contrario, il destino dell’anello segnerà l’esistenza di popoli interi, che magari nemmeno l’hanno mai sentito nominare. Inoltre, come accade nella Bibbia e in altre fiabe, l’eroe non è un Cavaliere, a cui il lignaggio e l’educazione abbiano donato una aretè fuori dal comune, ma un hobbit non diverso da tutti gli altri. Non è il saggio Gandalf, o il potente Aragorn, che viene chiamato a compiere questa missione pericolosa e potenzialmente mortale, ma Frodo Baggins, il quale volentieri ne farebbe a meno; e se ci domandiamo perché proprio lui, e non uno delle centinaia come lui, l’unica risposta è che il caso, o la Provvidenza, lo ha scelto, e lui non può che obbedire.

Se esistono persone per le quali leggere La Compagnia dell’Anello può essere dannoso (e probabilmente ce ne sono), si tratta di coloro che ne trarranno un parallelismo troppo letterale alla nostra attuale situazione. In un romanzo è giusto e naturale che le idee malvagie siano incarnate in creature malvagie, ma se guardiamo alla storia questa è una teoria pericolosa. Viviamo purtroppo in un’epoca nella quale se pensiamo a ideologie perverse, subito possiamo localizzare sull’atlante la posizione di Dol Guldur e Barad-Dûr (credo di essere in grado di identificare Minas Tirith, anche se il New Statesman, da sinistra, non mi darebbe ragione); sarebbe un errore, tuttavia, concludere che tutti gli abitanti ad Est dell’Anduin siano Orchi da sterminare.

Null’altro ho da aggiungere su quest’opera magnifica se non che è piuttosto indelicato da parte dell’editore non pubblicare contemporaneamente al primo i due volumi successivi, Le Due Torri e Il Ritorno del Re: mi è insopportabile dover aspettare per scoprire cosa accada al Portatore dell’Anello. Spero poi che nella seconda edizione infileranno la mappa in una busta al posto di incollarla alla copertina: come me, infatti, molti lettori la staccheranno per poter seguire il percorso della storia, col rischio di perderla. Per finire, a chi (come il sottoscritto) scorre nelle vene sangue Nano, piacerebbe che il signor Tolkien disegnasse anche una carta geologica.

 

Wystan Hugh Auden

 

Fonte

http://www.pangea.news/auden-recensione-tolkien-signore-anelli/

‘Resurrezione’ di Tolstoj, una lectio magistralis per Pasqua attraverso una storia d’Amore

È di un anno che precede il Novecento, l’ultimo romanzo dal titolo Resurrezione, del grande scrittore russo Lev Tolstoj, secondo alcuni persino superiore a Guerra e pace e ad Anna Karenina e basato su un episodio realmente accaduto al procuratore Koni, amico di Tolstoj.

L’incipit di Resurrezione tra i più esplosivi e seducenti della storia della letteratura –, travolgente, intimo, e denota un’inversione di tendenza, un cambio di passo rispetto a Guerra e pace, poema della Russia e dei suoi salotti, e ad Anna Karenina, tragedia della ricca donna vittima di quella smania di dolore e struggimento che spesso investe gli individui che hanno tutto dalla vita:

«Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, – la primavera era primavera anche in città. Il sole scaldava, l’erba, riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra, e betulle, pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano i nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole. Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini – i grandi, gli adulti – non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all’amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi l’un l’altro».

Il principe Nechljudov, protagonista maschile di Resurrezione, chiamato a decidere come membro di una giuria popolare della condanna di una prostituta, riconosce in lei la ragazza che aveva sedotto molti anni prima e, dopo aver assistito alla sua ingiusta condanna, matura la volontà di salvarla e di sposarla. Katjuša pare però rifiutare la proposta e le attenzioni del principe, il quale, divorato dal rimorso, decide di seguirla comunque ai lavori forzati in Siberia con l’immutato proposito di redimerla. Egli assisterà infine al riscatto della ragazza e troverà lui stesso, attraverso la lettura del Discorso della montagna di Gesù, la via per riscattare la propria anima.

Fu lo stesso Nechljudov causa della rovina esistenziale e morale della protagonista, sedotta, ingravidata ed abbandonata quand’era ancora una giovanissima e rispettabile fanciulla. La Maslova, divenuta ora una volgare prostituta alcolizzata, viene ingiustamente condannata ai lavori forzati per omicidio, e nel principe, che ha fatto parte della giuria popolare impegnata nella causa della donna, scatta qualcosa, una scintilla che presto assume le dimensioni di un incendio inestinguibile. Nechljudov vuole riscattare la propria colpa e redimere Katiuša, anche sposandola se necessario. Decide di prendersi cura di lei, di seguirla ovunque, anche in Siberia. Un mutamento incredibile, repentino e drastico, che lo porta a recidere con decisione i rapporti con l’alta e vuota società alla quale appartiene, avviene nell’animo del principe. Una resurrezione per entrambi i protagonisti del romanzo.

Resurrezione è un documento molto importante sull’evoluzione del pensiero dello scrittore russo. Anche lo stile è molto originale. Nonostante sia particolarmente intriso di ideologia, molti punti sono romanzeschi a livello magistrale, come le descrizioni dell’amore tra i due protagonisti quando erano giovani, le quali ricordano a tratti il Tolstoj di Guerra e pace e dei paesaggi, dei luoghi, della società russa dell’epoca.

Dopo essere giunto alla conclusione che non con la filosofia o le scienze, ma solo con la fede l’uomo può sperare di comprendere il senso ultimo dell’esistenza, Tolstoj si applica a trovare un modo per conciliare fede e ragione. Egli vuole una fede che risulti chiara per la ragione umana, anzi, che in un qualche modo dipenda dalla ragione: «Io voglio comprendere – scrive Tolstoj, – in modo tale che ogni proposizione inspiegabile mi si presenti come una necessità della ragione». E ancora:

La rivelazione non può essere fondata sulla fede come la concepisce la Chiesa: credere in anticipo a quanto mi verrà detto. La fede è una conseguenza, pienamente soddisfacente per la ragione, dell’inevitabilità, della verità della rivelazione. La fede, nella concezione della Chiesa, è un obbligo, riposto nell’anima umana a forza di minacce e di ammonizioni. Nella mia concezione la fede è tale perché è vero il fondamento su cui si fonda ogni attività razionale.

Benché Tolstoj, accanto alla volontà di carpire con la ragione la fede, affermi anche la necessità di sottomettersi alla volontà divina, ci troviamo davanti ad una contraddizione solo apparente: anche questa necessità infatti può essere compresa dalla ragione.

Lo sforzo del principe, il quale, dopo aver letto il Vangelo, non chiude occhio per tutta la notte, è direzionato alla ricerca di Dio, della vera fede e del giusto modo di vivere. Anche quando non è possibile individuare un tale percorso, il motivo centrale di questo, come di altri romanzi di Tolstoj è strettamente legato a problemi religiosi e morali.

Come narra lo stesso Tolstoj, al principe è successo quello che spesso succede a chi vive di solo intelletto, ovvero che un pensiero che inizialmente ci appare come un paradosso, finisce poi per diventare una verità semplicissima ed evidente: <<No, non è possibile che la cosa sia così semplice>>, dice ad un certo punto tra se Nechljudov e conviene che se esistono una società ed un ordine relativo è perché ci sono ancora uomini che hanno compassione e amore per i loro simili, non perché ci sono giudici e legislatori che condannano.

 

 

Fonte: Academia.edu

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