‘Il ragazzo con gli occhi grigi’, di Gilles Perrault

Il ragazzo con gli occhi grigi (Fandango, 2016) è un libro di Gilles Perrault, scrittore, sceneggiatore ed attivista politico francese. Del romanzo esiste anche un adattamento cinematografico ad opera del regista André Techiné (Palma d’oro a Cannes con il film Rendez-vous) che ha adattato Il ragazzo con gli occhi grigi per il cinema con il titolo Les Égarés. Tra gli attori anche Emmanuelle Béart.

 

Il ragazzo con gli occhi grigi: la trama

Francia, 1940. Il paese è lacerato dalla seconda guerra mondiale. In viaggio gli sfollati si dirigono verso il sud, in un esodo drammatico che sembra non conoscere fine. Tra questi ci sono anche una giovane donna della borghesia francese, moglie di un tenente, e i suoi due figli, Sylvie e Philippe. Lungo il cammino sono colti a sorpresa dall’attacco di uno Stuka tedesco che prende a colpire a suon di mitragliatrice i civili. Nei fumi di una tragedia senza tempo, spunta dal nulla come un fantasma Jean, un ragazzo appena adolescente e li trae in salvo. Sarà lui l’angelo protettore della sgangherata famigliola, proteggendola dai pericoli che i tre sono costretti ad affrontare, come procurarsi del cibo, trovare una dimora per nascondersi da tedeschi, sopravvivere ai soprusi degli sciacalli. Li strappa ad un ambiente ormai spoglio di regole, imbastito di confusione e furfanteria. Quella condizione di semi-anarchia che solo la guerra sa portare con sé. Lui, che parla con gli occhi grigi ma non emette suoni né parole, è un ragazzo dai modi rozzo, misterioso ed introverso che riesce a catturare l’attenzione e a sensibilizzare il lettore. Jean nasconde un segreto ma la sua presenza racchiude un tabù che tutti vorrebbero rompere, seppur per un soffio di tempo.

Il segreto di Jean

Chi è Jean, e da dove spunta? Ci sarà qualcos’altro da sapere su questo curioso personaggio che entra silenziosamente nella vita dei tre personaggi: Quello della moglie di Robert, tenente valoroso e gran signore che non compare nel libro, Sylvie, di sei anni, e Philippe, 10 anni, l’ometto di casa. Così leggero e immediato, questo volume di sole 90 pagine accoglie in un’atmosfera nella quale tragico, noir e mélo si incontrano. Una trama semplice, personaggi delineati con delicatezza e dettagli che brillano. Luccicano come una lacrima, e le lacrime non mancheranno in Il ragazzo con gli occhi grigi. Per questo motivo è superfluo soffermarsi sulla vicenda, perché ossuta e lineare si rivela. Al contrario è da notare qualche passo, assaggi di una lettura che coinvolge e spiazza al tempo stesso. Come nella descrizione di Jean:

Il ragazzo si muoveva. I piedi sfioravano il parquet. Sembrava danzare su una musica lenta che solo lui sentiva. Il corpo ondeggiava come una bandiera nella brezza leggera e il braccio destro teso in avanti, di una rigidità assoluta, sembrava l’asta di quella bandiera.

In un momento d’azione, di cui il libro non è costellato, il ragazzo dagli occhi grigi, freddi come il polo artico, in una danza da guerra, si abbatte contro due farabutti che tentano di violentare la donna. Jean ha solo sedici anni, ed è per questo che non può che figurarsi così: un uomo maturo nel corpo di un giovane venuto dal nulla. L’autore moralizza, induce alla riflessione, ferma il procedere narrativo all’improvviso: “Il problema è che la tua spaventosa frivolezza t’impedirà sempre di cogliere la dimensione tragica degli eventi”.

Buoni o cattivi, una favola novecentesca

Colpa di una superficialità della classe medio alta? Può darsi, ma il narratore non è mai spietato con la co-protagonista, la moglie del tenente. Lascia che sia la protagonista femminile a compiere l’autoanalisi, a fare i conti con il proprio passato, non solo recente. Come se in lei si racchiudesse la sconfitta di un’intera – o forse più d’una – generazione alle prese con una nuova guerra. Il microcosmo di Il ragazzo con gli occhi grigi è tipizzato, da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi, che la protagonista sembra riconoscere, come a disporre di un acuto intuito. Ovviamente il momento bellico li fa incontrare e scontrare, ma nessuno abbandona mai il suo posto assegnato dal narratore. Ognuno mostra ciò che è, presto o tardi, la natura dell’uomo emerge nettamente.

Gilles Perrault profonde così l’assaggio di un’arte narrativa dedicata alla naturalezza, primo capitolo di una trilogia incentrata sul filo conduttore della maison, ovvero la casa che i personaggi occupano lungo il loro pellegrinaggio verso la propria. In questa storia carica di paure riesce a raccontare la guerra come si narra Cappuccetto rosso ai bambini prima di dormire. L’eroe è recuperato, anche se veste i panni di un adolescente strambo. Il lupo c’è ancora, anche se intimorisce di meno. E’ come una “favola” amara, questa seconda guerra mondiale sotto la voce di Girrault, una favola per adulti.

‘Atti osceni in luogo privato’, l’irriverente romanzo di formazione di Missiroli

Atti osceni in luogo privato dello scrittore riminese Marco Missiroli (Feltrinelli, 2015) ha per protagonista Libero, che più che un personaggio, rappresenta un’idea di istinto. Tutto comincia con una cena. Libero Marsell ha soltanto dodici anni, si è appena trasferito dall’Italia con mamma e papà. Sballottato in Francia, assiste al tradimento della madre, che si innamora del migliore amico di famiglia. A dominare l’inizio è il turbamento visivo del ragazzo, alle soglie del suo sviluppo sessuale, l’immagine della madre baciata da un uomo che non è suo padre. Uno choc, ex abrupto Libero entra nel mondo degli adulti ed è costretto a crescere sperimentando i sentimenti e condizioni proprie dell’essere umano: infatuazione ed amicizia, eccitazione, innamoramento e delusione, solitudine e libertà. Da qui in avanti una storia di formazione che condurrà Libero Marsell, tra coraggio e paura, di nuovo in Italia, a Milano, alla ricerca di se stesso e alla perdita della bussola emotiva e sessuale, inciampando o lanciandosi nelle vite di diverse donne, in una autoanalisi profonda e talvolta contorta che trova nel personaggio di Marie una complice ideale ed amica, bibliotecaria e oggetto di desiderio, fino alla scoperta dell’oscenità esistenziale.

Atti osceni in luogo privato: stile e contenuti

Atti osceni in luogo privato è un romanzo che vale la pena di essere sugli scaffali dei nostri lettori. Un libro di ricerca, formazione, autocritica e ironia anche di amarezza, che fa capire subito davanti a che tipo di scrittore ci troviamo. Marco Missiroli è uno che scrive senza chiedersi se andrà di moda, tanto che è stato criticato proprio per questo, per quei fraseggi troppo curati, articolati, poco limpidi. Atti osceni in luogo privato è un esempio di come la letteratura italiana possa ancora tirare fuori il meglio di sé. Non possiamo solo rimpiangere le letture di Moravia, Morante, Pirandello. Dobbiamo costruire un canone diverso, un approccio inedito versi i nuovi autori che stanno formando il nuovo filone dei grandi. Che poi ci sia valore anche nel piccolo (piccole case editrici o libri poco conosciuti), è giusto dirlo.

La copertina del libro potrebbe ingannare, perché sembrerebbe – ma non è – un libro erotico. Uno di quelli che i lettori da metropolitana acquistano distrattamente, non che sia una colpa ci mancherebbe, ma questo volume non è per lettori occasionali. Pretende molte conoscenze, le dà per scontate, allude a titoli come Lo straniero di Camus, Mentre Morivo di Faulkner, giusto per citarne un paio.

L’autore di Senza coda, Il buio addosso e del Senso dell’elefante, adotta uno stile coraggioso. Può non piacere, il modo di scrivere di Missiroli. E’ comprensibilmente vero. Un po’ zuccherato, non melenso, curato fino alla virgola, a volte sbavato e un poco scorretto. Come quelle calligrafie d’artista, o del medico di famiglia, che ogni tanto sul foglio lasciano traccia di una ribellione da non sottomettere a nessuna disciplina, nemmeno alla narrativa. A volte pecca di un esageato tentativo di comporre neologismi.
Non è certo politically correct l’incipit, e vince proprio per la sua imprendibilità “oscena” e invincibile, sfacciata:

Avevo dodici anni e un mese, mamma riempiva i piatti di cappelletti e raccontava di come l’utero sia il principio della modernità. Versò il brodo di gallina e disse – Impariamo dalla Francia con le sue ondate di suffragette che hanno liberalizzato le coscienze. – E i pompini. La crepa fu questa.

E la crepa si genera anche nell’universo narrativo. Il termine pompino scandalizza più di un romanzo scritto con i piedi? E’ probabile. Non a caso, scrosciano e sono piovute critiche ed apprezzamenti. Perché Atti osceni è un romanzo degli anni ’60, e il lettore vincolato al contesto storico e alle tendenze attuali, non può comprenderlo ed assimilarlo completamente. Forse anche per l’omissione della tecnologia dalla storia:
L’autore stesso ha spiegato la scelta di Atti osceni in luogo privato: “Non volevo raccontare il sesso ai tempi di WhatsApp. Ho eliminato tutta la tecnologia da questo libro. Altrimenti Libero avrebbe scopato a 14 e mezzo, non a 20”.

“O” come oscenità

Ma il romanzo, nonostante l’effetto vintage, resta impresso e durevolmente. In che modo? Con l’irriverenza, la strafottenza con cui Missiroli parla della caccia alla compagna sessuale giusta, la sobrietà nel narrare la scoperta del corpo e l’autoerotismo, l’ostinazione nella ricerca della felicità, e la voglia di libertà, maschilismo criticato ma tuttora esistente tra gli individui, la sincerità cruda, la ricerca sapiente delle parole che sa di snobismo, l’essere così deliziosamente francese e al di sopra di una contestualizzazione, o ad una corrente culturale. Atti osceni è un po’ quello che le opere di Moravia furono per i contemporanei. Uno schiaffo alla critica, perché indecisa e un’invidiosa perplessità di chi scrive sforzandosi di conquistare il pubblico. E si mostra così osceno, senza veli e quasi perturbante, quando descrive la propria eccitazione. In questo passo descrive Marie, sua amica e bibliotecaria che Libero ama dall’età preadolescenziale. Un’infatuazione che si trasforma col tempo un rapporto dal valore quasi psicoterapeutico. Un’amica vera, alla quale però Libero associa un’attrazione perenne. La dipinge così:

Era un seno bianco, i capezzoli rosa e l’areola ampia. Maestoso, strabordava dai lati e rimaneva inspiegabilmente ritto e compatto. Servivano due mani per ogni mammella. Quel seno avrebbe scalfito la mia corteccia cerebrale in eterno: il Big Bang della mia memoria masturbatoria.

 

Atti osceni in luogo privato farà ancora parlare di sé, e darà fastidio a molti, ma ai più resterà come un piccolo classico da rileggere con nostalgia degli anziani senza eros che riguardano le vecchie fotografie. Atti osceni ha il plus che manca a molti libri sfornati oggi dalle grandi case editrici. Una sua anima, un proprio perché. Quale? L’oscenità del rischio di piacere, o di essere odiato.

‘Scacco al re’, l’esordio di Eraldo Guadagnoli

Scacco al re è il romanzo d’esordio di Eraldo Guadagnoli, abruzzese, classe 1974. Sono tre i personaggi a condurre vorticosamente il lettore, perché di vortice si tratta. C’è Eric Gardener, giovane promettente avvocato appena giunto a lavorare nel prestigioso studio legale di Manhattan, il Rodham&Carter, poi c’è Lawrence Corvi, di origini italiane, vecchio cliente dello studio per cui Gardener deve redigere il testamento. Infine Robert Rodham, proprietario dello studio legale, un uomo d’altri tempi, elegante, tra i migliori avvocati nella “Grande Mela” al tramonto della sua esistenza.

Scacco al re: una trama avvincente e piena di suspence

A tenere saldati i tre in una trama avvincente e scandita da ambientazioni e contesti incalzanti è proprio il (doppio) testamento. Quello scritto negli anni ’90 da Corvi e Rodham, uniti da un legame forte nato al fronte, e così difficile da spezzare nonostante le lancette del tempo non siano così clementi. Da evidenziare un’altra figura, che si insinuerà con scaltrezza per dare filo da torcere ai tre, il socio unico dello studio legale, Michael Carter: un avvocato ed un tipo scaltro, audace, un lupo nella tana. Segreti, intrighi, suspense invidiabile ad altri scrittori, dubbi e incertezze ma anche spunti ironici e un pizzico di romanticismo il rispetto della legge e dei diritti civili, della libertà di pensiero, il valore dell’amicizia e della lealtà, dell’integrità rendono Scacco al Re un legal thriller di tutto rispetto, ma molto di più. A completare il quadro, una citazione illuminante. Il conte di Montecristo ricorre due volte, alla pagina 10 e poi a conclusione del romanzo, un indizio che solo il lettore attento saprà cogliere. Un dettaglio che rivela pieghe inedite del passato di Eric…e un nodo non facile da sciogliere.

Chi è Eric Gardener? Un brillante avvocato di ritorno da Los Angeles per far decollare la sua già avviata carriera di avvocato. Quale segreto nasconde? In che rapporti sono Robert Rodham, proprietario dello studio legale in cui il giovane Gardener lavora da pochi giorni, e Lawrence Corvi? Sono le domande che verranno alla mente del lettore, e le risposte arrivano lentamente. Capire un thriller, specie di questo genere, non è semplice. In questo caso lo stile secco, i dialoghi e i rimandi tra passato e presente favoriscono la comprensione di molti passaggi altrimenti ardui. L’autore all’esordio colpisce con la capacità di dire ma non rivelare, narrare ma non perdersi nelle descrizioni votandosi all’azione, in uno stile che di certo Eraldo Guadagnoli riprende dall’assorbimento delle letture minimaliste: quelle di Hemingway, Carver, per esempio. Con minuzia nell’essenziale e con questa fluidità nel costruire dialoghi ad hoc, sferzanti, che si lasciano leggere come in una piece teatrale, con naturalezza. E poi le chiuse tra un capitolo e l’altro, in tutti sono undici, che non permettono a chi legge di rilassarsi. Ecco un esempio:

Eric, ancora in attesa della sua cena, si alzò e andò nella sua camera. Da un cassetto prese una busta gialla e esaminò il plico in essa contenuta. Poi, trasse fuori un’altra busta sigillata, dello stesso colore della prima: era indirizzata a lui. La dicitura a mano precisava che non poteva aprirla prima di un certo evento. La tentazione era forte.

 

Come si muoverà il protagonista? Aprirà la busta? A termine del capitolo, quasi di ogni capitolo e anche paragrafo, chi narra lascia un dubbio, lo insinua, o solletica i principi di chi legge. Eric è capace di violare un patto? O avrà la meglio la sua brama di conoscenza? Ed in ogni caso, saranno gli eventi a fornire la risposta. Ma questo libro non è soltanto un ottimo momento di evasione in una New York degli anni ’70, perché Guadagnoli riporta aneddoti e spunti curiosi sulla vita dei militari durante la seconda guerra mondiale, e salta sul carro di nuovo al presente, voitlà, con grande disinvoltura. E non è una dote comune. Scacco al re è un romanzo di “sole” 149 pagine: sintetico, diretto, insinuante. In poche pagine riesce anche a suggerire, senza il fare da maestro, un’idea di vita. Perlomeno ricorda che i valori dell’uomo dal dopoguerra al 2016, sono sempre quelli, invariati, è al contrario l’individuo ad essere cambiato: volubile e incerto, caparbio ma solo dell’ovvio, egoista e meschino spesso. Il giovane Eric corre il rischio di perdersi nella sua audacia e nella grinta del giovane rampollo, ma incontra una persona, anzi più di una che lo cambia, facendolo maturare. Una fioca luce brilla anche in Scacco al re, tra sorprese e danze cronologiche, con un finale che non ha niente da invidiare al suo incipit in medias res. Come un long-seller merita.

“Sono esausto, ho detto un po’, lascerò a te il desiderio di correre oltre, alla pagina, al capitolo successivo”. Questo sembra dirci Guadagnoli con la sua scrittura che si può definire volatile, rapida. E lo dice forte e chiaro. Un romanzo da leggere, ma anche rileggere. Un nuovo talento della narrativa contemporanea che consigliamo di seguire.

 

Eraldo Guadagnoli nasce nel 1974 a Sulmona, in provincia dell’Aquila. Dopo gli studi classici, consegue il diploma di Master in Editoria e Comunicazione. Editor free lance, collabora con diverse case editrici. Scacco al re (Cavinato Editore, 2016) è il suo primo romanzo, ma si attendono nuove pubblicazioni.

Io, Pee Gee Daniel, osservatore di esseri umani

Salve, mi presento: il mio nome è Pee Gee Daniel. Anche se questo, a ben vedere, già non è vero. Voglio dire: il nome con cui firmo le mie opere, come forse si può intuire, non è registrato in alcun ufficio anagrafe. Si tratta di uno pseudonimo, ovvero di un nome d’arte (o nom de plume, più propriamente). E allora, visto che ci siamo, cominciamo proprio da qui… Come mai uno pseudonimo? Come mai Pee Gee Daniel?

Chi è Pee Gee Daniel

Quella che da sempre mi è apparsa evidente è la discrasia che solitamente intercorre tra persona e artista, tra l’individuo storico-empirico che campa la vita giorno per giorno (“Signor Grigiastro, Qualunque dei Qualunqui” per dirla con Gadda) e la sua trasfigurazione artistica con la quale – chissà perché – non capita quasi mai che collimi. È appunto per ribadire una tale legge che sin da subito scelsi di camuffarmi con un soprannome letterario che rimarcasse definitivamente le differenze ontologiche tra me autore e me povero tapino di tutti i giorni. Perché se l’uomo qualunque vive, gode, soffre, si annoia, si entusiasma, va a fare la spesa, paga luce e gas, prende lo Spritz al bar con gli amici, fa addormentare i figli quand’è ora, è poi il distillato più rarefatto e sottile di tutta questa sua esistenza ordinaria che andrà invece a sostanziare i suoi scritti, rendendolo interprete, a seconda delle volte, più o meno efficace del proprio tempo, nonché delle eterne dinamiche umane.

Io, Pee Gee Daniel, parto da studi filosofici e la mia narrativa altro non è che la prosecuzione pratica di un mio pensamento teorico che da allora si è andato formando. Ammetto che sia più comodo, e anche più gradevole, raccontare una storia con trama, costruire attitudine e psicologia dei personaggi, perdersi in descrizioni e digressioni piuttosto che prestarsi con diligenza alle regole disciplinari della metafisica, ma – fatto salvo tutto questo – quel che ancor più mi premeva era applicare la mia personale visione del mondo in corpore vili, per così dire, passando cioè dai postulati universali alle vicende particolari e feriali in cui essi si riverberano.

Nel corso della storia della letteratura le visioni dell’uomo che si sono via via avvicendate sono state quella animista, quella teistico-morale, quella religiosa, quella umanistica e infine quella antropologica. La mia scrittura tenta il passo ulteriore e definitivo verso un punto di vista prossimo alla zoologia, ovvero puramente etologico.

Questa è un po’ la mia cifra stilistica: osservare gli umani pressapoco come l’entomologo osserva e annota gli schemi comportamentali della comunità di ditteri che tiene sotto esame. Tali osservazioni vengono da me condotte quasi sempre attraverso quella sorta di lente grandangolare che è il grottesco. Amo rintracciare storie e personaggi che qualcuno dei loro aspetti renda in qualche maniera fuori dal comune, sposando una teoria del tutto personale che vuole che proprio attraverso l’eccezione si confermi meglio la regola e che ciò che ci appare insolito, eslege, straordinario serva in realtà a mettere in luce situazioni e momenti anche piuttosto comuni, resi magari più visibili (e risibili) da quell’apparente carattere di eccezionalità.

Non tenendo conto di articoli vari, raccontini, poesie, brevi monologhi disseminati in numerose raccolte e antologie, ho pubblicato sinora una decina di libri. Tutti di narrativa, fuorché un saggio di filosofia che tenta di scoprire i meccanismi e le ragioni della comicità. Visto che, per l’appunto, l’atteggiamento ludico, irriverente, ironico-socratico e ridanciano è uno dei fondamentali di tutta la mia produzione letteraria.

Il mio modello di partenza è il romanzo ottocentesco con il suo inconfondibile stile internazionale e interculturale. Meglio sarebbe parlare però di un’azione programmaticamente parodistica su quello stesso pattern iniziale, che mi dà modo di ricorrere a una forma talora persino ampollosa per trattare (per giustapposizione) contenuti non di rado deteriori e riprovevoli. Oltre a ciò ho scritto il libretto di un musical dal titolo Cogli l’attimo, con le musiche di Fabio Zuffanti e arrangiamenti di Luca Scherani, e curo da qualche anno un corso teatrale all’interno di un carcere alessandrino insieme all’attore Omid Maleknia, grazie al quale abbiamo allestito e portiamo in tournée Spettacolo d’evasione, che vede una mezza dozzina di detenuti parlare del trauma carcerario e dei motivi che li hanno condotti in galera attraverso brillanti pezzi cabarettistici.

Attualmente sono in attesa che la casa editrice Kipple pubblichi il mio nuovo romanzo Freakshow, incentrato sulla storia di un manipolo di fenomeni da baraccone (tanto per restare in tema di eccezionalità), e sto portando a termine un copione teatrale cucito addosso a tre bravissimi giovani attori.

‘Il male oscuro’, la psicoanalisi secondo Giuseppe Berto

Il male oscuro è un romanzo del 1964 edito da Rizzoli, dello scrittore trevigiano Giuseppe Berto, tornato al successo dopo un periodo non felice, affetto egli stesso dal male oscuro. Lo scrittore, che non ha mai fatto parte dell’establishment culturale italiana, dell’intellighentia che contava, isolandosi e iscrivendosi al partito dei perdenti, non semplicemente a quello dei “bastian contrari”, opera un’analisi del proprio vissuto attraverso un uso insistito del flusso di coscienza, senza ricorrere a interposizioni narrative. Egli rivela così i diversi avvenimenti della sua infanzia, specialmente il suo rapporto difficile con il padre che lo spinge verso la depressione in seguito alla morte del genitore (simbolo del super-io oppressivo), ed in seguito il suo complesso di Edipo, dunque l’ambigua e latente conflittualità sessuale nonché lo smodato desiderio di gloria, a sua volta all’origine di forti sensi di colpa. La trama segue la descrizione e l’evoluzione della malattia (che dura complessivamente un decennio), il matrimonio e la nascita della figlia Augusta, in un continuo alternarsi di flashback. La costante ricerca di medici più o meno esperti, spinge il protagonista a rivolgersi a uno psicoanalista che risolverà in parte i suoi problemi, fino al tradimento della moglie e al ritiro dell’autore in Calabria. La prosa del romanzo è volutamente povera di punteggiatura, al fine di rendere lo scritto un ininterrotto flusso di coscienza, riproducendo l’instabilità interiore del tempo codificato e l’idea di quel che l’autore avrebbe potuto dire, in sede di analisi, proprio al suo psicanalista. Berto dissolve la struttura narrativa e fa del suo libro una novità assoluta nel panorama letterario italiano novecentesco.

Il male oscuro, che si è aggiudicato il Premio Campiello e il Premio Viareggio, è un’ininterrotta confessione, e lo stile segue il percorso del pensiero. A differenza di altri autori, Berto non va alla ricerca di una cifra formale e linguistica, ma egli approfondisce l’indagine per riprodurre in maniera più efficace i collegamenti del pensiero. Il risultato è simile a quello di un monologo teatrale, che inevitabilmente richiama alla mente il flusso di coscienza di James Joyce.

Il male oscuro: capolavoro sull’ipocondria sulla scia della Coscienza di Zeno

Il male oscuro di cui parla Berto è storico e cosmico, unito ad un profondo senso di colpa che deriva dall’incapacità di perdonarsi delitti che in realtà non si sono mai commessi. L’opera di Berto è un capolavoro sull’ipocondria, che racconta con ironia grottesca, l’assurdità del vivere quotidiano, le meschinità che spesso tengono in piedi rapporti familiari e relazioni. Berto mette a nudo il concetto di padre, addentrandosi in un’analisi tormentata di tutti i valori di quella civiltà, di quell’Italia post-rurale in cui l’autore nacque e crebbe; tuttavia lo scrittore dimostra di nutrire pietà e compassione verso le tradizioni e la morale cattolica, cui da giovane aveva tentato di sottrarsi. Grazie al suo innato piglio scorrevole e “confidenziale”, Berto ha saputo rendere il suo romanzo leggero e divertente, nonostante l’argomento trattato, quello della nevrosi depressiva, presente anche in altri grandi romanzi del ‘900, come nella Coscienza di Zeno (di cui Il male oscuro potrebbe essere considerato non a torto come la sua naturale prosecuzione, basti pensare all’esposizione ironica delle teorie freudiane) di Svevo e nella Cognizione del dolore di Gadda.

Berto inoltre, nel suo vorticoso inseguimento di pensieri, non risparmia frecciatine satiriche alla classe borghese del boom economico del dopoguerra, giocando con il lettore in maniera spregiudicata; sembra quasi dirgli: “Ma davvero credi a tutto quello che sto dicendo?”. Ne emerge un Giuseppe Berto sincero, sorprendentemente moderno se si considera il suo essere conservatore per natura, ossessionato dal successo, un po’ cialtrone, sofferente che può far pensare a qualche lettore che in fondo Il male oscuro non è altro che un testo di una banale e comune lagnanza pre-senile. Tuttavia il romanzo di Berto ci comunica implicitamente qualcosa di più profondo: la sofferenza è di tutti e la vita è un posto pieno di dissimulatori, commedianti umani che recitano una parte, che nascondono delusioni e disperazioni dietro grandi sorrisi. Forse, per chi ha una visione mistica della sofferenza, il male oscuro, qualunque esso sia, purifica l’anima e ci rende più sensibili e vicini alle sofferenze altrui. O forse, in fin dei conti, ciò che chiamiamo malattia, disturbo, non è un modo di essere diversi, “normali”, “sani”, ma non comuni e dunque la psicoanalisi non è garanzia di guarigione? Da cosa si deve guarire? E qual è allora il rimedio alla nevrosi proposta da Berto? Un processo di “transfert” con il quale lo scrittore trasferisce ogni suo rimorso nel rapporto con il suo analista. Le sue colpe si dissolvono e l’identificazione patologica con il padre morto di tumore si risolve nella seguente constatazione: “In quale enorme misura somigli al padre mio lo vado scoprendo per mezzo di questa figlia Augusta a mano a mano che cresce, e sta a vedere che lui mi amava come io amo lei ossia immensamente potrei dire”.

Tuttavia come Svevo, per il quale tutti sono malati, essendo la vita stessa una malattia, anche Berto non considera la psicoanalisi una terapia curativa, bensì un valido sistema che consente di attivare un particolare tipo di conoscenza dell’animo umano. Non a caso, infatti, prima della psicoanalisi, Berto descrive la nevrosi che lo attanaglia come una malattia basata sulla paura, ma dopo i due anni trascorsi in cura dall’analista confessa: “Ho un sacco di fobie, sono quindi ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere”.

Il personaggio di Berto non è certamente un esempio di simpatia, anzi, suscita piuttosto fastidio, soprattutto perché il suo intento non è quello di suscitare pietà nel lettore, ma non si può augurargli del male, perché è sincero. Lo stesso scrittore nell’Appendice al romanzo ha dichiarato: “Nonostante racconti la più straordinaria sequela di disgrazie che possano capitare a un uomo, Il male oscuro non è, spero, un romanzo deprimente e neppure noioso. Ha, spero, un continuo umorismo che si mescola anche agli avvenimenti più tragici e tristi. Non è certo un’invenzione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima e meglio di me, e d’altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”.

John J. Greenflowers e la tecnologia delle piante

John J. Greenflowers è l’autore del romanzo fantasy-rivelazione Badroots-Cattive radici, (anche se lui lo considera un romanzo di Oltrescienza), edito nel 2013 da Tommaso Scutari, e che lascia presagire ad un sequel, che vogliamo riproporre ai nostri lettori, attraverso un’intervista all’autore stesso che riflette sul genere del fantasy, su tematiche ambientali e sull’amore. Come spiega lo stesso John J. Greenflowers, Badroots è un romanzo dinamico per tutti coloro che hanno cura della propria casa, e sono invece pronti a difenderla dai fanatismi delle lobbies commerciali e industriali che mettono a repentaglio la vita sul pianeta. Interessante la sua teoria della tecnologia delle piante, costituita da un insieme di processi biologici e metodologici che da sempre hanno consentito agli tutti gli esseri viventi di sopravvivere ed evolversi. John J. Greenflowers è laureato in biologia marina e vive negli Stati Uniti d’America e ammira pensatori come Platone, Aristole, Cicerone, Pasolini. Badroots non segue le consuete logiche commerciali o di marketing, perché è un romanzo scritto per i lettori, non per gli editori, come tiene a sottolineare Greenflowers stesso, mostrando nel romanzo le sue profonde conoscenze biologiche unite ad una storia avvincente, che erudisce il lettore senza annoiarlo.

 

1. Perché ha deciso di scrivere un fantasy? Cosa lo attira maggiormente di questo genere letterario?

Più che un fantasy, considero Badroots un romanzo di Oltrescienza, o B-sci (Beyond science), cioè il racconto di una “prospettiva possibile”, di uno “scenario non impossibile, o non del tutto improbabile”. Ho sempre pensato che una palla azzurra al centro dell’universo sia già qualcosa di estremamente “fantasy” (se non addirittura fantascientifico), anche se ciò che è sotto il cielo lo chiamiamo “realtà” per comodità, per pigrizia, per timore dell’ignoto: eppure l’ignoto è reale, anzi, in proporzione, la realtà nota è un granello di sabbia nella spiaggia dell’ignoto. Inoltre ho sempre pensato che lo scrittore non abbia grandi margini di scelta: quando afferra con decisione una penna, o digita sulla tastiera, per lo scrittore è già troppo tardi per fermarsi. Mi spiego. Esistono pensieri e idee che vagano nel cosmo come naufraghi, attraversando dimensioni temporali e spaziali, in attesa di individuare il trasmettitore giusto: le chiamano “ispirazioni”, ed entrano nel cuore e nella mente dello scrittore, tormentandolo giorno dopo giorno, fino a quando non asseconda il loro desiderio di “esistere” nella realtà degli esseri umani. In altri termini sono convinto che non sia lo scrittore a decidere cosa scrivere, ma siano i pensieri e le idee a scegliere lo scrittore cui affidarsi per essere tradotti in parole da armonizzare in un libro. Come il compositore di musica classica interpreta i suoni della natura in un pentagramma di note ad uso degli strumenti musicali, allo stesso modo quando i pensieri e le idee libere incontrano lo scrittore adatto a loro come gabbiani che si posano sulla nave dopo un lungo viaggio nell’oceano, ecco che accade qualcosa di meraviglioso: lo scrittore diventa una ricetrasmittente in grado di captare e decifrare pensieri e idee, trasformandole in parole, e rendendole commestibili ad una pluralità di soggetti che vivono nel c.d. mondo reale. Credo che “Badroots” abbia scelto JJG, perché ha scelto di andare Oltre, verso l’Impossibile, alla ricerca di esperienze di cui l’uomo non immagina neppure l’esistenza. La Fantascienza e il Fantasy, ricomprese nel concetto più ampio di Oltrescienza, sono dunque generi letterari di fondamentale importanza che meriterebbero un corso scolastico ad hoc, perché hanno la capacità di attivare nel lettore quelle particolari esperienze psichiche e sensoriali che nel corso della esistenza lo renderanno progressivamente consapevole delle infinite potenzialità e capacità che si celano in ogni essere vivente. Il fantasy e la fantascienza sono per loro natura orientati all’Oltre, e l’Oltre è ciò che mi attira più di ogni altra cosa reale. Si, JJG scrive per andare Oltre.

 

Jhon J. Greenflowers è l’autore del fantasy Badroots

 

2. Come spiegare a chi pensa che il contenuto del suo romanzo sia solo fanatismo e propaganda ecologista frutto della retorica dell’uomo cattivo al quale madre natura si ribella?

Nessuna propaganda. Badroots è un libro per tutti coloro che hanno cura della propria casa, e sono invece pronti a difenderla dai fanatismi delle lobbies commerciali e industriali che mettono a repentaglio la vita sul pianeta: è un romanzo dinamico, avventuroso, divertente, riflessivo e finanche profetico, affatto propagandistico, anzi teso a sensibilizzare l’uomo sulla necessità di considerare il pianeta Terra come l’unica casa allo stato abitabile nell’universo, cioè a portata di Uomo. La Terra è un’astronave perfetta, e come le macchine create dalla mediocre tecnologia imitativa degli uomini, ogni suo componente ha una precisa funzione: rispetto alla tecnologia degli Uomini, la tecnologia di Madre Terra si differenzia per i sistemi di autocontrollo e di rigenerazione dei suoi componenti che sono ineguagliabili sotto il profilo biologico e tecnologico. Nell’astronave Terra ogni membro dell’equipaggio ha un ruolo importante, mentre l’Uomo è innegabilmente un passeggero scomodo, irrequieto, superfluo per l’economia del pianeta. Madre Natura, in altri termini, è il vero pilota del pianeta, il custode del pannello di controllo della cabina di pilotaggio, e può fare a meno dell’uomo: ma non è vero il contrario.

3. Cos’è davvero la tecnologia delle piante?

La tecnologia delle piante è costituita da un insieme di processi biologici e metodologici che dalla notte dei tempi hanno consentito a tutti gli esseri viventi di sopravvivere ed evolversi: una tecnologia tesa a razionalizzare i bisogni della propria specie, semplificando i processi di soddisfacimento, attenta alla conservazione e alla rigenerazione delle risorse disponibili, finalizzata a massimizzare i risultati dei processi biologici attivati. La tecnologia delle piante serve davvero al benessere e alle necessità di ogni essere vivente, essendo fruibile da tutti indistintamente. Le piante, infatti, forniscono cibo e ossigeno, sintetizzano i minerali per sfamarsi, e producono frutti per riprodursi in quantità sufficiente per nutrire altre specie viventi: sono insomma esseri altruisti. Allo stesso tempo soddisfano i propri bisogni e quelli di altri abitanti del pianeta, a differenza dell’uomo e di altri esseri viventi della specie animale che non producono alcunché di utile né per se stessi né per altre specie come le piante, ma sfruttano le risorse disponibili come predatori suicida perché consapevoli che prima o poi la credenza si svuoterà. Strani esseri, gli umani: consumano le risorse, senza nulla concedere in cambio al pianeta: anziché ossigeno come fanno le piante, potrebbero almeno donare Amore e solidarietà, ma pare che gli uomini siano più propensi a distribuire odio, invidia, rancore.

4.In che senso l’Amore si configura come la perfezione tecnologica all’ultimo stadio?

Amore è innanzitutto armonia: quando c’è Amore, chi davvero Ama ha già teso la mano verso la bocca di chi ha fame. La tecnologia dell’Amore, dunque, è orientata al bene: anche al bene di un solo individuo in difficoltà. Amore è spontaneità, come spontaneo è il sole che scalda, spontanee le foglie che ossigenano senza nulla chiedere: la tecnologia dell’Amore è un metodo che consente di comprendere i bisogni prima che questi siano espressi. Un pianeta come la Terra ricco di beni disponibili gratuitamente ai suoi abitanti, ben può essere definito un pianeta con “Tecnologia dell’Amore”, perché continuamente al servizio di tutti, indistintamente. L’Uomo invece pretende di sostituirsi alla Madre Terra, prima accentrando e poi distribuendo a proprio piacimento le risorse, imponendo la tecnologia dell’Egoismo in antitesi a quella dell’Amore: ma quella dell’Uomo, per fortuna, è una tecnologia destinata a estinguersi.

5.Nel suo romanzo, lei affronta anche questioni politiche e sociali, secondo lei come è possibile liberarci del pensiero unico e dominante?

Nella misura in cui gli uomini accetteranno la possibilità di essere discriminati in ragione dei propri pensieri diversi da quelli condivisi dalla generalità dei consociati e dalle lobbies di potere, sarà possibile assistere a cambiamenti epocali che consentiranno all’Uomo di progredire. Il progresso, infatti, non è per tutti, ma è per chi è ancora capace proporre e difendere le proprie idee.

6.Come si colloca il suo romanzo in una logica puramente commerciale e di marketing?

Badroots non segue le consuete logiche commerciali o di marketing, perché è un romanzo scritto per i lettori, non per gli editori: certamente è scritto per le generazioni future. Del resto i libri non si scrivono per essere venduti, ma per essere letti: lo scrittore non è un commerciante, ma un servo della parola che nutre. Centinaia se non migliaia di autori classici del passato, tradotti in tutto il pianeta, hanno lasciato il loro profumo pur essendo estranei a logiche commerciali o di marketing, segnando così la storia dell’umanità.

7. Perché molte persone sono attratte da storie banali, politicamente corrette ma che inevitabilmente hanno molto successo?

Perché riempiono la pancia: insomma, vale il principio del “fast food”: è certamente più redditizio impegnare la mandibola dei consumatori e far cassa con piatti veloci, dando ai lettori la sensazione di sazietà con cibi dal gusto omologato, cioè con storie che tutti “devono vivere”, e in cui tutti possono facilmente “immedesimarsi”, piuttosto che offrire storie originali e saporite da cui i lettori possano trarre spunti per costruire la “propria unica e irripetibile storia di vita”: certa editoria, insomma, promuove storie banali, dal gusto omologato, che offrono una sensazione di sazietà mentale, cioè fast book banali come altrettanto ripetitivi e banali sono gli ingredienti di un hamburger con patatine fritte in salsa cocktail. Un fast book dopo l’altro, e per il lettore la “trombosi mentale è servita”. Il cinema attuale (e certa letteratura) è un esempio emblematico dello stato di pigrizia di chi anziché investire sul nuovo, punta a promuovere un consumo veloce e all’ingrasso imponendo nella distribuzione i vari “remake”, “prequel”, “sequel”, e…”requiem” dei soliti noti. Un buon libro, invece, è rivoluzionario, unico e irrepetibile, dal sapore forte e penetrante, diretto a provocare il senso critico del lettore, a saziarne la mente e attivarne ogni sensibilità: basterebbe leggere due libri rivoluzionari all’anno per riappropriarsi della propria indipendenza logica e del proprio senso critico, liberandosi da catene affatto occulte. Lo scrittore, il vero scrittore, è un umile servitore dei suoi pensieri, e di essi soltanto.

8.Quali autori stima e apprezza maggiormente?

L’elenco è lungo, ma in sintesi: Platone, Aristotele, Marco Tullio Cicerone, Isaac Asimov, Jules Verne, Emilio Salgari, Charles Dickens, Primo Levi, Italo Calvino, Franz Kafka, Egdar Allan Poe, Pier Paolo Pasolini, e tanti altri servitori dei loro pensieri.

9. Nonostante lei faccia divulgazione,affrontando argomenti scientifici, religiosi e tecnologici, ha adottato uno stile cinematografico, abbastanza scorrevole, comprensibile e di una certa compatezza. Tale scelta è dettata dal desiderio di essere trasversale presso i lettori, comprensibile a tutti, anche a chi non mastica biologia e filosofia?

Un tempo, quando il popolo non leggeva perché la scuola era per pochi eletti, la Chiesa incaricava celebri artisti per erigere luoghi sacri e per diffondere la religione attraverso i dipinti, mentre i Re erigevano templi e statue giunti sino a noi che avevano lo scopo di comunicare ed esaltare il potere e il coraggio dei guerrieri, mentre gli Imperatori si circondavano di musicisti in grado di esaltare le qualità di un regime con le loro composizioni melodiche. Per secoli, insomma, quando i libri erano oggetti ad uso di monaci e di pochi privilegiati, la comunicazione è stata “passiva”, un modo certamente efficace per controllare ed educare le masse. Dal rinascimento al dopoguerra il libro ha però avuto i suoi tempi di gloria, ed è in quel tempo che l’Umanità è cresciuta sotto il profilo critico: poi, con l’avvento dei media e dell’educazione passiva, il processo si è nuovamente invertito, e ancora oggi la popolazione sta subendo un progressivo ed evidente regresso, una violenza visiva, acustica e sensoriale senza precedenti che riporta l’umanità indietro di secoli e millenni, e che raramente stimola il senso critico e di formazione della “logica personale”. La scelta dello stile cinematografico nella stesura di un libro, quindi, risponde al desiderio di armonizzare contenuti letterari di ritenuto spessore morale, scientifico e filosofico in modo tale da essere comunicati anche cinematograficamente a chi, più o meno indotto da logiche commerciali, considera il libro un oggetto privo di vita. Tutti devono andare Oltre, anche chi non può o non vuole leggere, ma può apprendere da un buon film: la parola, tradotta in immagine o suono, è un cibo che tutti devono poter assimilare, ed è la vera macchina del tempo che accompagna l’intera esistenza dell’Uomo.

10.Cosa pensa delle manifestazioni “pro Terra”, mirate a lanciare il rispetto per l’ambiente organizzate anche dalla politica? Non le trova ipocrite, a vantaggio di sponsor?

La Terra non ha bisogno di manifestazioni in sua difesa, benché meno finanziate dalla politica e sponsorizzate da chi sfrutta le risorse del pianeta: sono gli esseri umani che hanno bisogno di manifestazioni “anti estinzione”. Non a caso sono state intensificate le missioni esplorative nello spazio alla ricerca di nuove opportunità e modalità di sopravvivenza. Se davvero si vuole salvaguardare la casa degli Uomini, la politica deve seriamente promuovere la costituzione di un “Gran Consiglio delle Risorse Naturali”, le cui regole per la salvaguardia dei pianeti abitabili debbano prevalere su tutte le altre.

11.Quale messaggio lei spera che venga recepito dai lettori di “Badroots”?

Come le piante donano se stesse, offrendo i loro frutti e finanche se stesse come cibo, producendo gratuitamente ossigeno e garantendo riparo a specie differenti senza nulla chiedere in cambio, spero che i lettori di Badroots sappiano almeno tendere la mano ai propri simili in difficoltà, offrendo loro la possibilità di rialzarsi.

12.Progetti futuri?

Beh, ovvio: andare “Oltre…”

 

‘Diario di un parroco di campagna’ di Bernanos: quando la fede non rassicura

L’opera Diario di un parroco di campagna (1936) dello scrittore francese Georges Bernanos, è una storia d’altri tempi, di un mistero che turba un animo alto e nobile, il racconto di un qualunque paese, che conduce una vita talmente regolare e banale, da apparire agli occhi del lettore moderno come impossibile e terribilmente lontana dal vero, seppur non vi siano elementi del fantastico a rendere paradossale o irreale la narrazione. L’elemento più improbabile e straniante rispetto alla moderna ed attuale quotidianità è sicuramente la figura del protagonista della storia: un giovane prete, dalla salute cagionevole e dal cuore puro, a cui viene affidata una piccola parrocchia di campagna, in Francia.

Non vi è quindi niente di straordinario nella trama messa a punto da Bernanos, nel succedersi degli eventi, nello scorrere dei giorni narrati: la vita scorre placida e monotona come in un qualsiasi paesino di campagna, ed il lettore vi assiste passivamente attraverso gli occhi del giovane prete, che si trova da un lato disarmato nei confronti della civettuola e sottile cattiveria dei compaesani, dall’altro lo si vede affrontare la propria missione con un passo forse anche idealista, nel suo semplice e limpido modo di vivere la propria vocazione, che lo porta a condurre una vita ridotta agli estremi, nel vano e spesso equivoco tentativo di riunire una comunità distante.

Il giovane prete di Ambricot è un personaggio debole, ma che accetta la propria diversità, tanto di struttura fisica quanto di psiche, una figura totalmente agli antipodi di un più famoso Don Camillo, fortunato personaggio e co-protagonista dell’opera di Guareschi, che tiene saldamente le redini e conduce con maestria ed ironia la vita del piccolo paesino emiliano a lui affidato. Ed ancora diverso è da un altro celebre curato della nostra letteratura, il Don Abbondio manzoniano, una figura anch’essa fragile, ma a causa di un timore molto più terreno che divino. Il curato di campagna di Bernanos è una figura nuova, che narra le sue piccole quotidianità con la forma narrativa più antica e introspettiva che vi sia, ossia la narrazione quotidiana del diario, nel quale i pensieri di un personaggio realistico si mescolano alle vicissitudini di un piccolo paese.

Ciò che invece appare fin troppo attuale e veritiero, nella storia, è la forza negativa e decisiva che acquistano le dicerie, espresse spesso in leggerezza, e senza una riflessione a priori delle possibili e quasi inevitabili conseguenze negative che queste possono avere sulla vita degli individui, in particolar modo su persone ingenue, guidate dalla buona fede e nella fiducia verso il prossimo. La mano dell’autore in quest’opera è leggera, nascosta da un’esposizione dei fatti descritta in prima persona ma, nonostante questo, la sua mentalità è determinante e conduce interamente non solo la narrazione, ma l’ideazione stessa del racconto. Georges Bernanos, autore parigino e cristiano “scomodo” del tardo ‘800, vede la sua vita caratterizzarsi profondamente dalla costante presenza dell’aspetto religioso, presente infatti anche in altre sue importanti opere come L’eretica e santa Giovanna, Sotto il sole di Satana e Dialoghi delle Carmelitane.

La lettura del Diario di un parroco di campagna è scorrevole, coinvolgente, pervasa da una stoica indifferenza e induce il lettore alla riflessione dato il suo taglio introspettivo; il libro si configura come una sorta di raccolta di aforismi contornati da avvenimenti che incorniciano eventi separati, dando un senso ed un filo conduttore a riflessioni più profonde e veritiere, quasi come in una ben strutturata predica domenicale. Bernanos ci consegna una Francia inquieta dal punto di vista religioso (pensiamo a Gide, Mounier, Mauriac), attraverso il dramma di un uomo di fede, semplice, umile, caritatevole, lontano dalla saccente e spesso superba sapienza dei dotti e degli alti prelati, che richiama alla mente il protagonista dell’Idiota di Dostojevskij, che ci dice che credere in Dio non è poi tanto rassicurante e rilassante come si suole pensare. Ma in fonda cosa importa? Come dice il parrocco stesso alla fine del libro: “Tutto è grazia”. Grazia che è riuscita ad assorbire la lotta interiore che consumava il protagonista di questo gioiello della letteratura contemporanea da cui è stato tratto un validissimo film diretto da Robert Bresson.

La schiava dei Tudor, di Isabella Izzo

La schiava dei Tudor (Libromania, 2013) è il secondo romanzo della scrittrice casertana Isabella Izzo, ambientato nell’Inghilterra del 1500 durante l’epoca dei Tudor. I temi trattati sono principalmente la schiavitù, la sete di potere, le convenzioni sociali dell’epoca, l’amore spesso ostacolato, il dolore per la perdita delle persone a noi care. La protagonista del romanzo è Dayla, giovane schiava rapita da un paesino rurale africano per essere deportata insieme alla sua famiglia. La ragazzavedrà moriread uno ad uno, davanti ai suoi occhi, tutte le persone a cui vuole bene, uccise dalla disperazione e dalle mani insanguinate degli schiavisti.

Rimasta sola al mondo viene venduta a una ricca famiglia inglese, che la costringerà a subire quotidiani soprusi e violenze fisiche. Tuttavia la vera vita di Dayla comincia solo dopo essere arrivata al monastero di Whitby e aver incontrato padre Simeon, che ordirà un piano per liberarla dalla schiavitù organizzando la sua presunta morte. Da quel momento in poi Dayla scomparirà, per lasciare spazio a Jim, la sua nuova identità maschile. Per poter alloggiare al monastero, infatti, dovrà presentarsi come un ragazzo, e dati i suoi quattordici anni appena e i suoi lineamenti ancora androgini ci riuscirà senza destare grandi sospetti. Lì tra padre Simeon, padre Geremia e i suoi nuovi amici Masala, Cristof e Anna vivrà finalmente una vera e spensierata adolescenza, dopo aver patito numerose violenze e abusi nel suo passato ancora recente. Fra lei e Masala nascerà col tempo un’attrazione che andrà oltre l’amicizia, anche quando la vera identità di Dayla sarà ancora celata agli occhi di tutti. Solo dopo essere uscita allo scoperto la ragazza sarà libera di vivere il suo amore, andando incontro a mille ostacoli tra i quali le volontà di Lord De Wilton, padre di Masala, e del fratello maggiore Cristof, che voglionovederlo prendere i voti e trascorrere la vita dentro le mura di un monastero.

La schiava dei Tudor è un romanzo ricco di colpi di scena e di intrighi, sia di potere, orditi dal vescovo e da padre Dannis per destituire padre Simeon dalla sua carica, sia passionali, una donna infatti è nascosta nei sotterranei del monastero e nasconde un oscuro segreto. La parte migliore dell’intera trama sembra essere, più che la storia d’amore fra i protagonisti, trattata superficialmente e con scene troppo melense e poco realistiche: la tragica storia di Margaret, diventata pazza per la perdita di sua figlia e allontanatasi così anche dal suo grande amore. È ben architettato anche l’espediente della morte del cane Billo, appartenente alla famiglia di Masala, che cade da una rupe e si schianta contro gli scogli per essere poi risucchiato dal mare. La scena anticipa la fine tragica della protagonista, una tecnica che sembra mutuata da Anna Karenina, dove la morte di Anna viene predetta all’inizio del romanzo dal suicidio di un uomo lanciatosi sotto un treno. Isabella Izzo  alterna momenti di lentezza, soprattutto nella prima parte, a scene di incredibile velocità. Si fa fatica, infatti, a tenere il filo degli ultimi capitoli e dei colpi di scena finali, che avvengono a distanza di una pagina l’uno dall’altro e che, naturalmente, non hanno il tempo di sedimentare nella mente del lettore e non vengono approfonditi con la dovuta maestria. Il romanzo sembra quindi molto approssimativo nel finale, come se l’autrice avesse avuto una gran fretta di concludere.

Un altro punto a sfavore deriva dal titolo, La schiava dei Tudor, appunto, che non riflette per nulla la natura del romanzo. Di Tudor c’è poco o niente, solo l’ambientazione e il periodo storico, ma il titolo suggeriva invece un legame più stretto fra la dinastia Tudor e la protagonista, un’illusione che lascia l’amaro in bocca dopo aver concluso il romanzo. A disturbare la lettura contribuiscono anche i numerosi errori ortografici e di sintassi come “non c’è la faccio più”, oppure “scommetto che neanche mio padre non lo sapeva!” (due negazioni all’interno della stessa frase affermano). La schiava dei Tudor appare quindi come un tentativo malriuscito di romanzo storico, se l’autrice avesse curato di più la stesura delle varie parti del libro avrebbe dato maggior risalto all’idea base della trama, che non era per nulla male, soprattutto il tema della schiavitù che all’inizio della lettura prometteva bene, e se avesse curato di più la forma (ovviamente il problema dell’editing non è da imputare solo a lei ma anche alla casa editrice <<Libromania>>) allora sarebbe venuto fuori un romanzo di spessore maggiore, ma così non è stato.

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