‘I ragazzi della III F’, il romanzo di formazione ambientato negli anni ’80, di Marco la Greca

“I ragazzi della III F” di Marco la Greca, edito da Morellini, è un romanzo di formazione ambientato negli anni Ottanta dentro e fuori le aule del Liceo Orazio di Roma. I protagonisti sono quattro ragazzi alle prese con l’ultimo anno di scuola, nel loro passaggio da studenti ad adulti.
L’autore conduce il lettore in un emozionante viaggio attraverso il decennio degli anni Ottanta, un periodo che ha segnato profondamente molte generazioni, in particolare all’anno della maturità. tra amicizie, amori, speranze, paure, walkman e canzoni cantate a squarciagola.

Il libro offre un’occhiata intima e coinvolgente a un’epoca in cui la musica, la moda, i film e la cultura popolare erano in piena effervescenza. L’autore tesse abilmente una trama di ricordi e storie collettive, offrendoci un ritratto affettuoso di quegli anni di svolta, dove un ragazzo diventa irrimediabilmente un adulto. È come sfogliare un album di fotografie di famiglia, dove ogni pagina rievoca un sorriso o un momento speciale.

Ciò che rende questo libro davvero straordinario è il messaggio profondo che trasmette. Oltre alla semplice nostalgia per i bei tempi passati, l’autore ci invita a riflettere sul passare del tempo e sulla crescita personale. Il tempo, infatti, scorre inesorabilmente, e i ricordi di un’epoca passata si sbiadiscono lentamente mentre ci troviamo immersi nella vita quotidiana. Ci ricorda che, anche se i tempi cambiano e le priorità evolvono, è importante rimanere fedeli ai nostri principi fondamentali, anche se li abbiamo dovuti rivedere nel corso degli anni.

Marco La Greca ci svela come l’anno della maturità abbia lasciato un’impronta indelebile nella sua vita e come quei ricordi continuino a influenzare le scelte e le decisioni nel presente. Questo libro ci sfida a non rimpiangere il passato, ma a portare con noi i valori e gli insegnamenti mentre ci dirigiamo verso il futuro, mentre la vita si accorcia.

In un mondo che sembra sempre più veloce e caotico, l’autore ci offre una pausa per riflettere sui giorni più semplici e spensierati, ricordandoci che la nostra storia personale è la base su cui costruiamo il nostro futuro. È una lettura toccante, ben scritta e ricca di emozioni da consigliare a chiunque desideri riscoprire la bellezza dei ricordi e la forza della nostalgia positiva.

‘Mother Water Blues’ il romanzo sulla boxe di Elia Rossi

Mother Water Blues è il nuovo romanzo dello scrittore Elia Rossi, pubblicato da Durango Edizioni sul mondo della boxe, a metà tra romanzo di formazione e opera conoscitiva scaccia pregiudizi su uno sport abbastanza divisivo.

Con una narrazione moderna, riflessiva e attenta Elia Rossi porta il lettore all’interno di una storia avventurosa e combattiva. Con ironia l’autore fa conoscere il mondo della boxe con i due personaggi che interfacceranno tra loro. Così Elia Rossi parla della scrittura: <<Scrivere è un modo per mettere alla prova quegli oggetti della coscienza: scegli un’idea, una sola tra le tante, e provi a vedere se regge la messa a fuoco, se sopravvive alla luce in esterno della parola scritta>>.

“Spero innanzitutto che i lettori si divertano. Il primo strato del romanzo è infatti quello dell’avventura: dall’infanzia tra le strade di Benin City, fatta di caccia ai serpenti e fughe dai demoni, fino alla scoperta del pugilato, con le sue palestre piene di stralunati eroi. L’ironia è il tono di fondo di questo livello del racconto” dichiara l’autore. “Poi c’è sicuramente il ruolo della cornice, che forse è più riflessivo: due personaggi molto diversi, un pugile africano e un giornalista bianco e borghese, che si aprono l’uno all’altro mentre il mondo cambia le carte in tavola (soprattutto con il Black Lives Matter e con il tema della presunta cancel culture). In questo senso, spero che al lettore piaccia anche essere provocato e seguire sviluppi del ragionamento sinceri e privi di pregiudizi.”

“…La boxe è una celebrazione della religione perduta” ed è “roba da uomini, parla di uomini, e uomini”. Uomini, uomini, uomini. Se tutte le storie sono storie di iniziazione, è infatti vero che non tutte le iniziazioni sono uguali. Alcune iniziazioni, infatti, si svolgono all’ombra dei padri, altre all’insegna delle madri. Immagino che la boxe rientri nel primo caso. A partire dal più mascolino dei fraintendimenti…”

 Trama

Joshua N. è un pugile italo-nigeriano. Sul ring mostra una faccia buia e dura. I suoi cazzotti stendono uomini grossi come giganti. Almeno così lo vede Gionatan L., un aspirante giornalista che si trova a intervistarlo senza aspettarsi nulla di più di qualche aneddoto sportivo. Tuttavia, tra i due scatta qualcosa. La storia personale di Joshua scuote nel profondo il suo intervistatore, che si trova a smettere i panni del giornalista per inseguire quel racconto di demoni vudu, padri che nascondono misteri e coincidenze che determinano destini. In un dialogo fatto di avvicinamenti e fughe, soprattutto nei giorni del Black Lives Matter, Joshua e Gionatan finiranno per spogliarsi dei propri rispettivi ruoli, scoprendo, nella vergogna e nella confidenza, che l’umanità è una sola e che, in fondo, i segreti degli uomini sono tutti uguali.

L’autore

Elia Rossi ha 37 anni e fa l’insegnante di filosofia nel torinese. Ha all’attivo due romanzi: L’anno dei cavoli a merenda (Alcheringa, 2014) e Fortunale (L’Erudita, 2016). Ha pubblicato racconti su riviste letterarie come Nuova Prosa e scritto recensioni per La balena bianca. Nel 2018 ha partecipato all’antologia NO – Dieci racconti per un nuovo immaginario novarese (Edizioni Effedì). Ha curato un laboratorio di scrittura creativa che si è svolto in contesti diversi, come biblioteche, licei e carceri. Con l’amico e scrittore Luca Colombo ha dato vita a uno spettacolo di pugilato letterario che si è svolto in pub e caffè letterari.

Premio Bancarella 2023: trionfa Francesca Giannone con “La portalettere”

A conquistare il Premio Bancarella 2023 è stata Francesca Giannone con il romanzo d’esordio  La portalettere pubblicato da Editrice Nord. Ieri 16 luglio 2023 nella piazza di Pontremoli, in Lunigiana, si è tenuta la cerimonia di premiazione della 71esima edizione del popolare Premio Bancarella, organizzato dalla Fondazione Città del Libro, presieduta da Ignazio Landi e dalle Unioni Librai Pontremolesi e delle Bancarelle.

Il primo scrittore ad aggiudicarsi, la prima edizione del premio nel 1953, è stato Hernest Hemingway. Nell’albo d’oro dei vincitore si annoverano, tra i tanti, gli illustri Boris Pasternak, Oriana Fallaci e Umberto Eco.

La portalettere con 172 preferenze, conquista la San Giovanni di Dioprotettore dei Librai, la ceramica realizzata da Umberto Piombino,  a seguire:

Il re della memoria di Massimo Cotto (Gallucci editore) 86, Il Quinto Sigillo di Davide Cossu (Newton Compton), L’anno delle parole ritrovate di Bea Buozzi (Morellini Editore) 72, Gaber (Hoepli) di Sandro Neri 72 ed infine “Le distrazioni” (HaperCollins) di Federica de Paolis.

Un trionfo quasi annunciato se si considera che il romanzo, sia già alla sua 12esima edizione: fin dalla sua pubblicazione si è imposto nella top ten dei libri più letti, rimanendo in classica per svariati mesi. Amazon lo annovera al terzo posto come best seller per la categoria Narrativa sulle saghe familiari.

Duplice successo anche per l’Editrice Nord che per il secondo anno consecutivo trionfa: Stefania Auci che lo scorso anno si era imposta con L’inverno dei leoni, passa il testimone alla Giannone.

Francesca Giannone, pugliese, si è laureata in Scienze della Comunicazione e ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Trasferitasi a Bologna, ha curato la catalogazione dei trentamila volumi della Associazione Luigi Bernardi e ha frequentato il corso biennale di scrittura della Bottega di Narrazione “Finzioni”. Ha pubblicato vari racconti su riviste letterarie, sia cartacee sia online. Tornata a vivere a Lizzanello, il suo paese di origine in Salento, ha continuato a scrivere e a coltivare l’altra sua grande passione, la pittura; come si può leggere nel suo sito https://www.francescagiannoneart.com/, il suo soggetto d’elezione sono le donne.

Nel corso della serata è stato assegnato anche il 60esimo Premio Bancarella Sport alla campionessa olimpica Sara Simeoni per Una vita in alto, edito da Rai Libri, scritto a quattro mani insieme al giornalista Marco Franzelli, e altri riconoscimenti a Giulia Faggian, moglie di Marco Mattioli, direttore commerciale di numerose case editrice nazionali; poi ai librai Davide Giovannacci, di Biella; Giorgio Tarantola, di Sesto San Giovanni (Milano); e Alessia Panassi, le cui librerie sono presenti in Val di Susa.

Premio Bancarella 2023: vince La portalettere

Il libro, uscito per la prima volta il 10 Gennaio 2023, è un romanzo di formazione, ispirato da una storia vera.

Salento, giugno 1934. A Lizzanello, un paesino di poche migliaia di anime, una corriera si ferma nella piazza principale. Ne scende una coppia: lui, Carlo, è un figlio del Sud, ed è felice di essere tornato a casa; lei, Anna, sua moglie, è bella come una statua greca, ma triste e preoccupata: quale vita la attende in quella terra sconosciuta?

Persino a trent’anni da quel giorno, Anna rimarrà per tutti «la forestiera», quella venuta dal Nord, quella diversa, che non va in chiesa, che dice sempre quello che pensa. E Anna, fiera e spigolosa, non si piegherà mai alle leggi non scritte che imprigionano le donne del Sud. Ci riuscirà anche grazie all’amore che la lega al marito, un amore la cui forza sarà dolorosamente chiara al fratello maggiore di Carlo, Antonio, che si è innamorato di Anna nell’istante in cui l’ha vista.

Nel 1935, Anna fa qualcosa di davvero rivoluzionario: si presenta a un concorso delle Poste, lo vince e diventa la prima portalettere di Lizzanello. La notizia fa storcere il naso alle donne e suscita risatine di scherno negli uomini. «Non durerà», maligna qualcuno. E invece, per oltre vent’anni, Anna diventerà il filo invisibile che unisce gli abitanti del paese. Prima a piedi e poi in bicicletta, consegnerà le lettere dei ragazzi al fronte, le cartoline degli emigranti, le missive degli amanti segreti. Senza volerlo – ma soprattutto senza che il paese lo voglia – la portalettere cambierà molte cose, a Lizzanello.

Quella di Anna è la storia di una donna che ha voluto vivere la propria vita senza condizionamenti, ma è anche la storia della famiglia Greco e di Lizzanello, dagli anni ’30 fino agli anni ’50, passando per una guerra mondiale e per le istanze femministe. Ed è la storia di due fratelli inseparabili, destinati ad amare la stessa donna.

Il romanzo, come ha dichiarato Francesca Giannone in un’intervista, è nato nel periodo del lockdown, quando rovistando nei cassetti per delle pulizie è emerso un vecchio bigliettino da visita della sua bisnonna, insieme a foto datate in bianco e nero, lettere d’amore e documenti. E’ proprio da qui che la scrittrice, trova l’ispirazione per la sua storia. Dopo aver realizzato di aver riportato alla luce un tesoro inestimabile inizia un’operazione di ricostruzione: prima familiare grazie ai racconti della madre e poi storica, infatti si reca nei luoghi pugliesi, in particolare a Lizzanello dove è riuscita ad ascoltare le testimonianze degli anziani del paese, che all’epoca bambini avevano conosciuto la portalettere Anna. La forestiera, come loro stessi la definivano, che ben presto seppe conquistare un posto nel cuore di tutti loro.

La portalettere è un romanzo intriso di storia, che fa conoscere la figura di una donna, una pioniera dell’emancipazione femminile che lotta per autodeterminarsi, che lascia il suo paese natio emigrando in Puglia, diventando la prima postina del meridione, riuscendo, con la sua intraprendenza, a fronteggiare tutti i pregiudizi del caso:

Carlo la fisso, sbalordito.                                                                                                                                                                                                 Antonio, invece, abbozzò un sorriso.                                                                                                                                                                       “Dai, Anna”, disse Carlo ridacchiando.                                                                                                                                                                   “Non è un lavoro da donne”.                                                                                                                                                                                “Cosa ci sarebbe di non adatto ad una donna?” ribatte lei, piccata.                                                                                                                      “È faticoso”, rispose lui.                                                                                                                                                                                              “In giro a piedi tutto il giorno, con la pioggia o con il sole.                                                                                                                                     Ci perderesti la salute. Siamo seri. Non esistono portalettere donna”                                                                                                                “Finora disse” Anna.

Per gli amanti del romanzo le sorprese non finiscono qui, infatti, i diritti del libro sono stati acquistati da La Lotus Production, società di produzione cinematografica e televisiva italiana, e presto diventerà una serie tv. Il best seller della Giannone, diventerà anche una fortunata trasposizione cinematografica? Considerando la tematica femminista tanto abusata in questo periodo, la risposta è affermativa. Nulla di di nuovo dunque, dall’universo dei premi letterari.

 

https://www.editricenord.it/libro/francesca-giannone-la-portalettere-9788842934844.html

 

 

 

‘Le due vite di Tu’, il romanzo di formazione di Aldo Cernuto

Solo dalle ferite può uscire un respiro vitale, che coincide con un cambiamento esistenziale che ha il sapore di una pacificazione familiare: è questo uno dei messaggi che contiene il romanzo di Aldo Cernuto, copywriter e direttore creativo in network pubblicitari, dal titolo Le due vite di Tu, romanzo di formazione sotto forma epistolare che non risparmia al lettore un doppio finale.

Le due vite di Tu racconta i due momenti contrapposti della vita del protagonista: nella prima parte l’autore si concentra sulla nascita fino all’adolescenza di un bimbo in apparenza ritardato, figlio di genitori separati.

E’ il padre a rivolgersi a suo figlio, facendo mea culpa e spiegandogli le cose della vita, affinché cresca forte e consapevole. Al momento T segue il momento U che si svolge ai giorni nostri: il protagonista, ormai realizzato professionalmente, fa un bilancio della propria vita, bilancio che lo condurrà verso una resa dei conti finali toccante e drammatica.

Il romanzo è un tirare le somme della propria esistenza fatta di errori più o meno deliberati, indispensabili per avere quel coraggio che basta per prendere per mano il proprio figlio e condurlo sulla strada della maturità. L’uomo ricorda le tappe decisive della vita del figlio con dolcezza e precisione quasi avesse un diario sotto gli occhi:

“La svolta della tua vita, o perlomeno l’abbrivio verso la curva decisiva, avvenne un venerdì sera, nel mese d’aprile del 2011. Rientravi da una giornata trascorsa distribuendo volantini in centro: cinque euro all’ora per promuovere un candidato alle imminenti elezioni comunali. Data la misera retribuzione, l’avresti detta una campagna non tanto in suo favore, ma contro di lui. Rientrato a casa con i piedi a bollore, trovasti un solo studente: gli altri erano tornati alle proprie famiglie per il weekend. Fu proprio lui, intento a curare con aria assente delle uova strapazzate, a parlarti di un’offerta di lavoro vista online: pensava potesse interessarti perché, disse testualmente, cercano uno che sa scrivere”.

Uno degli aspetti più interessanti del romanzo è rappresentato dal ruolo, dalla funzione salvifica della scrittura, che come sosteneva Aharon Appelfeld può diventare la porta d’ingresso per quel mondo che sta nascosto dentro di noi. La parola scritta ha la forza di accendere la fantasia e illuminare l’interiorità.

In tal senso l’uomo, rendicontando la propria esperienza e riflettendo sulla genitorialità, mette a frutto due grandi doti dell’essere umano, la “parola” che dà  suono ai pensieri, e la “scrittura” che conferisce loro un senso nel tempo.

 

Genere: Narrativa/Romanzo di formazione

Pagine: 241

Prezzo: 16,64 €

 

Contatti

https://www.facebook.com/Aldocernutoauthor/

https://www.instagram.com/aldocernuto/

 

Link di vendita online

https://www.amazon.it/due-vite-Tu-Aldo-Cernuto/dp

 

 

 

 

 

‘La spirale dell’estate’, il nuovo romanzo di spionaggio di Enzo Verrengia

La spirale dell’estate è il nuovo romanzo dello scrittore  Enzo Verrengia, autore di testi teatrali, di cabaret e sceneggiature per gli albi di Martin Mystère. Collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, Conquiste del Lavoro e La Verità.

Verrengia ha pubblicato i racconti comici de La notte degli stramurti viventi, editi in digitale da Delos Books, per la quale ha firmato anche Lo scritto di sangue (2018), e la trilogia Morte a Venezia (2019), Il mondo finisce a Berlino (2020) e Finale di caccia (2021). Con lo pseudonimo di Kevin Hochs ha firmato per la collana “Segretissimo” di Mondadori i romanzi di spionaggio Sandblast (2008), Sturmvogel (2011), Targeting (2014) e Watchdog (2015). Ha rivisitato Stevenson con L’eredità di Hyde (PIEMME, 2013). Suoi i saggi Divora il prossimo tuo (Avagliano, 2004), Complottario (Avagliano, 2006) e Millennial (Pellegrini, 2017)

La spirale dell’estate, sinossi

Giorgio Brisante nel 1967 ha quattordici anni e doveva solo andare in gita alle grotte di Castellana. La vita, invece, per lui ha tutt’altri piani.

Giorgio dovrà crescere in fretta e diventare uomo confrontandosi con

un’avventura degna del miglior Le Carré. Il fratello di suo nonno, Bruno, ex spia di Mussolini, gli consegnerà una missione ad altissimo rischio: recuperare delle carte segrete a Londra, appartenute a Siro Tonaghi, grande giornalista fuggito durante la guerra.

Nella Swinging London, oltre alle minigonne e alla musica ribelle, lo attende una vera e propria spy story. Spie doppiogiochiste, emissari sovietici, tutti a caccia della famosa documentazione.

Giorgio Brisante si giocherà la pelle come il suo eroe preferito, l’agente segreto inventato dallo scrittore Ebury Glayson, anche lui invischiato in questa spirale frenetica e incontenibile.

La grande tradizione della letteratura dello spionaggio

La spirale dell’estate rimanda a titoli di film e romanzi di spionaggio che unisco la suspence, la tensione agli elementi tipici del romanzo di formazione. Lo scrittore si avvale di una narrazione avvincente e si dimostra, come a giustamente notato Antonio Manzini, molto abile nel saper raccontare e togliere un po’ di polvere da un genere che in Italia manca da troppo tempo.

La spirale dell’estate si colloca a pieno diritto nella migliore tradizione della letteratura di spionaggio, accanto a Greene, Maugham e Fleming. Ma è anche un romanzo di crescita, un’educazione sentimentale moderna, la scoperta dell’età adulta in cui Giorgio imparerà a scontare i suoi errori e ad affrontare tutte le disillusioni che un mondo poco romanzesco e molto crudo e reale gli riservano.

“Ci rivedremo, Giorgio. Quando avrai trasformato la tua innocenza in una corazza e in un’arma per sgominare i draghi” era stato il
saluto di Trevor, a Milano.
Prima di Londra, di Milano e del ritorno, avevo immaginato di farlo
con i draghi in agguato per Claudia oltre il varco degli allucinogeni. Ma quel varco era l’universo al quale lei apparteneva. La spirale
di una galassia estranea, psichedelica, che ruotando risucchiava
tutto. Anche l’estate appena finita e quelle che dovevano ancora
cominciare.

In effetti il genere noir offre all’autore l’opportunità di raccontare l’agonia del nostro tempo su scala mondiale confermandosi uno scrittore imprevedibile e non scontato.

‘Cose da bambini’ di Toni Brunetti: l’incredulità di fronte alla brutalità del mondo

Negli anni sessanta Milano è già “la capitale morale” e la “capitale sanitaria” del paese. Milano fa scuola nell’economia, nella cultura, nella moda, nella pubblicità, nel design.

Milano tra gli anni ’60 e ’70

La città nella storia dell’Italia è riuscita sempre ad avere un ruolo prioritario in qualsiasi ambito: dall’eroismo delle cinque giornate alla lotta partigiana. Anche il 1968 vede Milano protagonista. Nel gennaio di quell’anno vengono occupate alla Statale le facoltà di Lettere, Legge e Scienze.

A marzo avvengono gli scontri di Largo Gemelli tra studenti e poliziotti. Ad aprile un centinaio di artisti occupa la Triennale. A giugno gli studenti contestatori attaccano la sede del Corriere della sera. A dicembre la contestazione degli studenti alla Scala: uova e cachi lanciati contro signori in smoking e signore impellicciate. Questi sono gli avvenimenti salienti del 1968 milanese. Ma nessun trionfalismo perché il peggio deve ancora venire.

Il 12 Dicembre 1969 proprio a Milano inizia la strategia della tensione: 16 morti e 90 feriti nella strage di piazza Fontana. Milano in quegli anni ha soprattutto il volto di una città operosa e ricca. Non tutti però riescono a raggiungere il benessere. Molti sono costretti alla “vita agra” descritta dallo scrittore Luciano Bianciardi.

La strategia del terrore

All’epoca si registra una massiccia migrazione interna. Torino e Milano sono le destinazioni di molti uomini del Sud, che partono con la valigia di cartone legata con lo spago, alla ricerca di lavoro. Giungono a Milano e subito si sentono spaesati e soffocati dalle coperture a tettoia della stazione centrale.

Milano come Torino ha bisogno di questi lavoratori, ma riesce a stento ad offrire loro un alloggio adeguato: nascono di conseguenza anche delle abitazioni abusive, quelle che verranno battezzate dai milanesi le coree. Milano non è solo vetrine sgargianti, capitani di industria, direttori di giornali, conversazioni da salotto dell’alta borghesia e benessere; è anche asfalto, cemento, traffico, stress, freddo e nebbia. A Milano ci si può perdere nel reticolo di strade del centro, ma anche nelle vie anonime dei quartieri di periferia.

Milano è una moltitudine di volti, una massa di pendolari e di gente che va di fretta. Negli anni settanta Milano era già una “città che sale”, come dicevano i milanesi: erano già stati costruiti il Pirellone e la torre Velasca. Palazzi e grattacieli spuntavano in ogni zona della città. Molti fanno parte della “gente che corre, che si dibatte, che ti ignora” come testimonierà Luciano Bianciardi. Per questa massa di persone Milano promette e non mantiene, fa sognare e poi risveglia bruscamente.

Milano all’epoca era una metropoli abitata da un milione ed ottocentomila persone. Forse a causa di quella che i sociologi chiamano anomia e/o forse a causa della correlazione tra frustrazione ed aggressività e/o forse a causa della società di massa dal dopoguerra in poi Milano diviene nota anche per i fatti di cronaca nera: delitti, sequestri lampo e rapine a mano armata fanno di Milano anche la capitale italiana del noir.

Il lato oscuro di Milano in alcuni romanzi

Giorgio Scerbanenco è il primo scrittore a descrivere magistralmente il lato oscuro di Milano con i suoi gialli: è il primo ad intuire che l’indifferenza, la solitudine e l’apatia possono avere la meglio sulla famosa gioia di vivere milanese. In Cose da bambini (edito da Planet Book) di Toni Brunetti, autore e regista, si sentono gli echi di questi due grandi scrittori.

L’autore rivela una cura certosina del dettaglio, una descrizione minuziosa e mai sciatta dei particolari, che probabilmente richiama Calvino. Però ciò non è un difetto perché Calvino ha influenzato molti ottimi autori, come ad esempio Daniele Del Giudice.

Cose da bambini: un romanzo di formazione che è anche un thriller

In Cose da bambini, ambientato tra il 12 dicembre 1969 e il 31 dicembre 1970, che è al contempo romanzo di formazione e thriller, c’è la periferia violenta di Milano sullo sfondo. Il protagonista vive nel problematico quartiere dell’Anello. Ma siamo davvero certi che quella fosse una Milano minore? Comunque in primo piano c’è la vita del giovanissimo protagonista, Marco di soli 11 anni, sospeso tra il mondo dei cosiddetti pari, con tutti i suoi conflitti come ad esempio la guerra delle clave, e quello familiare, in cui troviamo i contrasti dei genitori e della sorella più grande.

C’è l’evoluzione di Marco, con tutte le sue sensazioni, la sua curiosità, il suo stupore, in una parola sola il suo sguardo partecipe sul mondo. È descritta anche la realtà di un’altra epoca, fatta di cose, oggi ritenute insignificanti, ma che agli occhi del bambino erano importanti, come la cartolina da spedire per fare un provino nell’Inter o i pettegolezzi riguardanti la maestra più bella della scuola. Non ci è dato sapere quanto biografica sia la vicenda narrata.

Forse alcuni episodi ed alcuni personaggi della sua infanzia sono stati trasfigurati in Cose da bambini. La cosa fondamentale è che l’autore l’abbia tratteggiati perché restituiscono uno spaccato di quella Milano, oggi dimenticato o addirittura sconosciuto ai più. E poi leggendo questo libro viene rovesciata la prospettiva: non è che le nuove tecnologie di adesso siano esse stesse davvero insignificanti? Ma Milano ha anche un cuore nero.

Freud e il crimine

Nella metropoli vengono compiuti crimini efferati ed anche nel romanzo una bambina scompare. Un interrogativo interessante, che sorge spontaneo, leggendo questo libro è il seguente: Freud riguardo al periodo di latenza, quello riguardante la preadolescenza, aveva ragione oppure no?

Freud descrive questo periodo quasi come asessuato, ma probabilmente non è così. In quegli anni, come rivela Brunetti, facendo un quadro realistico, molto fuoco cova sotto la cenere. L’erotismo non è rimosso, ma tutto al più un poco inibito.

Inoltre  l’autore mette in evidenza acutamente anche il fatto che in quegli anni settanta i bambini crescevano in presa diretta con la realtà, frequentavano la strada, giocavano ad esempio a calcio in strada, cosa che oggi nessuno fa più. Non c’era nessun familiare allora che mediava il mondo di un quartiere difficile.

I bambini allora si lasciava che lo affrontassero da sé. I genitori non erano in genere iperprotettivi. Se due bambini facevano a botte nessuno chiamava il legale di fiducia, ma si diceva che erano cose da ragazzi. Le mamme allora non erano delle chiocce, che difendevano i loro ragazzi dai pericoli del mondo.

Eppure anche allora il mondo era pieno di  insidie e minacce a non finire. Erano allora i bambini più immorali o amorali? È molto difficile stabilirlo. Di sicuro non vivevano nell’ovatta, in quella che oggi chiameremo comfort zone. Un altro interrogativo sorge spontaneo dalla lettura di queste pagine. Viene da chiedersi se un tempo si maturava più in fretta e se si raggiungeva prima la capacità di intendere e di volere.

L’argomento è controverso, ma la riflessione è più che lecita, anzi doverosa. Altra cosa lodevole è che l’autore ha trovato uno scarto dal senso comune e dal linguaggio convenzionale, un ribaltamento del senso, una parola che indaga, che testimonia l’incredulità di fronte alla brutalità e all’assurdità del mondo.

 

Di Davide Morelli

‘L’amica geniale’: il romanzo del ricordo sulle età della vita, di Elena Ferrante

Due bambine si tengono la mano su per la scala buia e polverosa della vita. Il loro mondo è quello di un rione povero di Napoli, pare un paese sperduto, la città è appena dietro la collina ma sembra già un’altra realtà. Nelle strade, fra i palazzi la voce della violenza impesta l’aria, memorie di tempi lontani che affondano le radici ben prima della nascita delle due protagoniste di quest’ultimo libro di Elena Ferrante, L’amica geniale (edizioni e/o, pp. 329).

L’amica geniale: trama e contenuti

L’infanzia di Lila e Lenù è un’infanzia di brutalità, di pietre in faccia, di sangue, di urla contro i genitori, di voli fuori dalla finestra scaraventate da padri imbufaliti. I bambini riproducono i comportamenti degli adulti, delle proprie famiglie, l’odio si rigenera nei figli eppure una strada alternativa sembra spalancarsi di fronte alle due ragazzine: la scuola, se sei bravo, se brilli la maestra ti apprezzerà e così l’intero rione, e chissà, forse potrai andare via, scrivere un romanzo e diventare ricco e famoso. E Lila era bravissima, aveva imparato a leggere da sola, sapeva fare i conti a mente a una velocità fulminea, pur essendo ribelle e fastidiosa in classe. Noi la guardiamo crescere attraverso gli occhi dell’amica Lenù, voce narrante, che la trova talmente intelligente che i suoi sentimenti d’affetto si mescolano spesso all’invidia e a un senso d’inferiorità e d’impotenza. Lenù è la ragazzina buona e diligente che non ha nulla di quel demone geniale che scorge così potente nella sua amica. Tenta di starle dietro, studia solo per cercare di superarla. Tutto inutile, Lila è troppo. Almeno Lenù si sente bella, è bionda e paffuta, Lila invece no, è così magra che sembra rachitica, con quei capelli neri sempre arruffati.

Ma l’infanzia finisce e l’adolescenza stravolge tutto, Lila non può proseguire gli studi perché i genitori sono troppo poveri. Solo Lenù continuerà la scuola e sarà l’unica sua ricchezza, l’unica forza. E se per un po’ Lila tenta di starle dietro studiando latino e greco sulla panchina del giardino pubblico, e divorando romanzi presi in prestito nella biblioteca della scuola, ben presto comincerà a infuocarsi per altro, ad esempio per la politica che sembra finalmente dare “motivazioni concrete, facce comuni al clima di astratta tensione” che avevano respirato nel quartiere. “Il fascismo, il nazismo, la guerra, gli Alleati, la monarchia, la repubblica, lei li fece diventare strade, case, facce, don Achille e la borsa nera, Peluso il comunista, il nonno camorrista dei Solara, il padre Silvio, fascista peggio ancora di Marcello e Michele, e suo padre Fernando lo Scarparo, e mio padre, tutti tutti tutti ai suoi occhi macchiati fin nelle midolla da colpe tenebrose”. Quelle di Lila sono passioni brucianti che si consumano in un baleno. Ma se la scuola non è più per lei un modo per mostrare al mondo quel suo stile da fuoriclasse nel frattempo Lila è diventata bella, sensuale e corteggiatissima, sempre al centro dell’attenzione, immischiata più che mai nei meccanismi violenti del rione, tra spasimanti, fidanzati, fratelli, progetti imprenditoriali per arricchire la famiglia e un matrimonio ambiguo tra amore e convenienza.

Questa è la storia dell’evolversi della vita attorno a quella stretta di mano nata durante l’infanzia. Le bambine crescono, cambiano, si osservano, si invidiano, si stimano, si amano. Sono l’una l’amica geniale dell’altra, lo specchio dentro cui osservare se stesse e la povertà di Napoli. Contro ogni aspettativa Lila, ribelle e fulminante, sembra affondare sempre più le sue radici tra i palazzi del quartiere, Lenù invece, nella sua insicura pacatezza comincia a desiderare di diventare altro, volare via.

L’inizio di una saga moderna sulle età della vita

L’amica geniale è forse la più famosa saga italiana moderna sulle età della vita e dal suo primo capitolo, dedicato alle età dell’infanzia e dell’adolescenza, dove emerge la dimensione del ricordo e della memoria. Elena Ferrante non scrive una storia romanzata, fa romanzo della vita, perciò ciascuno è indotto, attraverso il racconto dell’esistenza più spesso misera ma sempre accesa di speranza di Lila e Lenù, a riconsiderare le proprie miserie e i propri agi, le proprie scelte e i propri pensieri, a rievocare i sogni realizzatisi o no, a fare racconto di sé, raccontarsi e redimersi, se si vuole, o semplicemente riconsiderarsi.

Facendo i conti con se stessi, con quello che, in effetti, siamo e quello che invece mostriamo, considerando con interezza il nostro genio interiore e non confondendoci con la nostra doppiezza.  La vita si svolge sempre su un binario doppio, bianco e nero, bene e male, sì e no, la vita ha sempre una valenza binaria; per questo, le ragazze protagoniste sono due, Lila e Lenù, ciascuna di lei ha, come tutti noi, il desiderio, la voglia, la volontà di crescere e cambiare, affrancarsi dal degrado morale e materiale in cui per caso o per volere degli dei si sono trovate a vivere, con metodi e scelte differenti, adeguati al proprio io, o semplicemente ritenute le più efficaci e opportune da seguire.

Lila e Lena sono diverse, e complementari; in realtà, non sono come due sorelle, o come due amiche intime e intensamente vicine e compartecipi, tutt’altro, tra loro c’è anche astio, livore, disagio, timori, litigi, rivalità, ci sono slanci di affetto e periodi di distacco, non per forza vanno sempre d’amore e d’accordo, spesso sono separate per tempi lunghi dalle distanze e dai casi squisitamente personali, nemmeno si dicono e si confidano completamente tutto di sé, molte sono le zone d’ombra che ciascuna cela volutamente all’altra.
Il romanzo non è, infatti, come molti credono, un’elegia dell’amicizia, è un di più: Lena e Lila sono due metà dello stesso essere, le famose metà di un’unica mela, ma con qualche distinguo. Non sono propriamente complementari, sono intimamente parecchio contrapposte:

L’amica geniale non è un romanzo dalle grandi rivelazioni, di quella violenza del sud incancrenita e tramandata di generazione in generazione s’è già parlato molto, da Sciascia fino a Saviano. Eppure la scrittura luminosa di Elena Ferrante imbriglia la lettura e la trascina. E la storia è viva più che mai, le due ragazzine crescono sotto i nostri occhi con tutte quelle sfumature psicologiche che danno un’impronta profonda alla narrazione. La casa editrice e/o ha annunciato per i prossimi mesi altri volumi di Elena Ferrante sulla giovinezza, la maturità e la vecchiaia delle due amiche ‘geniali’. Sarà un raro esempio di romanzo di formazione italiano?

“L’attimo in cui ci rendiamo conto, per la prima volta, che a nessuno importa davvero di noi è quello in cui smettiamo di essere bambini! Aveva percepito la freddezza che nascondono i cuori più vicini ai nostri. In superficie si sente la compassione e l’amore, ma basta che si scenda un po’ e si scoprono profondità in cui la nostra immagine non riesce a penetrare che racchiudono dei segreti a noi sconosciuti e ai nostri occhi degli oceani, degli abissi di indifferenza.”

 

Fonte: Redazione Doppiozero-Claudia Zunino

‘Quando gli squali mangiano vento’, di Enrico Meloni

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo di formazione di Enrico Meloni (Tre Padri, Arca allo sbando?) pubblicato da Edizioni Progetto Cultura nel 2012. Il testo è accompagnato dalla prefazione della professoressa di pedagogia dell’università di Pisa Maria Antonella Galanti, e dalla postfazione di Carlo Santulli, ricercatore e docente all’università di Roma e di Napoli.

Quando gli squali mangiano vento / S’accende al sole un lampo di follia

La storia di Alessio e Roberto, due adolescenti romani cresciuti negli anni Ottanta, viene raccontata dal loro professore di filosofia del liceo, Felice Rapisardi, ormai novantenne, il quale decide di rimettere mano a dei suoi vecchi appunti e al diario di Alessio per tornare con la memoria a quanto avvenuto ai due ragazzi fra il 1980 e il 1981. La loro amicizia limpida, infatti, viene a corrompersi fino a sfociare in una totale inimicizia quando la notizia di una serie di avventure omoerotiche fra i due sfocia in pettegolezzi e disprezzo all’interno della scuola. Siamo a cinque anni dall’assassinio, per motivi simili, di Pier Paolo Pasolini.

Fra la confusione sessuale (entrambi gli adolescenti frequentano altre ragazze, anzi Roberto è rinomato nel suo ambiente per essere un gran conquistatore) e gli sconvolgimenti e le manifestazioni politici dei primi anni Ottanta, si consuma questa piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla. Parliamo di “piccola tragedia destinata a sfociare nel nulla” perché la carica di tensione accumulata da Alessio, principale vittima delle voci di corridoio e, a quanto pare, unico a soffrire per la situazione, non arriva a sfociare in qualche gesto eclatante. Come negli Indifferenti di Moravia il protagonista della storia rinuncia più volte all’azione che avrebbe forse potuto sistemare (o mandare al tracollo) gli eventi.

Dopo la maturità il professore perde di vista i due ragazzi, per cui poco o nulla sappiamo delle loro vite post liceo; alla fine del romanzo leggiamo una mail inviata da Alessio ad Aurora (vecchia fiamma del ragazzo e anch’essa alunna del professore), e da questa verosimilmente rigirata al narratore, in cui l’ormai cresciuto protagonista riporta tre possibili sviluppi della sua “storia” con Roberto. Il finale è dunque aperto ma di fatto la storia in sé risulta conclusa in modo più che soddisfacente, in quanto il core della trama è un altro: affrontare la (purtroppo ancora spinosa) tematica dell’omosessualità, e il modo in cui si  è evoluta fra gli anni Ottanta – durante quello che viene più volte definito “riflusso” socio-politico dopo i movimenti del Sessantotto e del Settantasette, ossia un ritorno quasi restauratore a una sorta di normalità borghese – e i nostri anni Dieci, che niente hanno di rivoluzionario al riguardo, se togliamo la neo (e tanto giustamente attesa) legge sulle unioni civili.

Un romanzo “quasi saggio”

Quando gli squali mangiano vento è un romanzo dalla struttura peculiare, quasi eclettica. A una narrazione in retrospettiva si accompagnano brandelli del diario di Ale, flashback, dialoghi pseudo teatrali. Il mix di forme viene giustificato dal fatto che il professore sta cercando di raccontare una storia avvenuta diversi anni prima ricostruendone come può le varie fasi; le lacune sono inevitabili, così come le diverse prospettive e le diverse fonti da cui il narratore attinge. A questa giustificazione Rapisardi aggiunge una dichiarazione d’intenti a inizio testo dal sapore un po’ manzoniano:

Scrivere la storia di Ale e Rob. Non possiedo tutti i dati per ricostruire l’intera vicenda in modo attendibile, e mi trovo nell’impossibilità di fare indagini o ricerche […]. Comincerò col loro primo incontro, che precedé l’inizio della scuola. Alessio Leonetti e Roberto Mangredi. Alunni di quinta effe, anno scolastico 1980/81. Ne sono al corrente soltanto grazie a una testimonianza orale e a qualche pagina del diario di Alessio.

Non ci perde mai nella lettura, pur scivolando fra una forma testuale e l’altra, complice anche una (fin troppo forte) struttura didascalica che mette il punto su determinati eventi spiegandoli al lettore, e a tratti spezzando il tacito gentlemen agreement che con questo l’autore deve intrattenere: il far sapere, cioè, di star leggendo una storia.

Questo ci porta a due elementi di debolezza di Quando gli squali mangiano vento: il primo è che a tratti sembra di avere a che fare con un saggio divulgativo di psicologia/sociologia, soprattutto verso la fine, quando Rapisardi e Aurora discutono sul tema dell’omosessualità e del pregiudizio nella società. Il secondo riguarda il modo in cui questi argomenti vengono trattati: laddove spesso si interrompe la narrazione per entrare nella mente del professore, il quale tenta di sviscerare a suo modo la faccenda nella sua complessità, ciò avviene in modo parziale. L’argomento “omosessualità e pregiudizio”, come il finale del romanzo, resta aperto, non viene sviscerato, non ne vengono esplorati i perché, le conseguenze, le ricadute sulla società. Per dirlo con un’immagine, si ha l’impressione di sorvolare una città con un aereo anziché attraversarla camminando: la si vede nella sua interezza, ma se ne perdono i dettagli.

Per comprendere meglio questo passaggio, si riporta una parte del discorso di Aurora a fine testo:

Io li chiamo nazigay: chi non si conforma ai loro canoni, alle loro convenzione ecc., viene ghettizzato e demonizzato peggio di un giudeo all’epoca del papa-re. E chi pensava di trovare nell’omosex una via alternativa per essere libero farà meglio a stare lontano da certe bande di conformisti che, se trascuriamo qualche dettaglio, hanno la mentalità di una casalinga anni ’50.

Il refuso nella parola “convenzione” (non concordanza di numero) è di utile esempio per un’ulteriore problematica: editing e correzione di bozze poco accurati hanno portato a un libro con alcune debolezze strutturali, perché molti sono i refusi (spazi ripetuti, mancanza di uniformità nella punteggiatura ecc.) e le carenze. Ad esempio, molti riferimenti letterari e musicali (compresi il più volte citato Rino Gaetano e la sua Mio fratello è figlio unico) e personaggi non risultano incorporati nel testo, rimanendo con una funzione di contorno o sfondo.

Il che è un peccato perché Quando gli squali mangiano vento è un testo che, di suo, avrebbe avuto moltissime altre potenzialità.

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