Storia di chi fugge e di chi resta, di E. Ferrante

Elena Ferrante è diventata un vero e proprio caso letterario. La critica d’Oltreoceano l’ha accolta con parole entusiaste e un grande interesse aleggia anche intorno alla stessa identità dell’autrice.

Elena Ferrante è infatti uno pseudonimo che cela, a detta di alcune indiscrezioni, non altro che Domenico Starnone. Tuttavia al di là di questa parentesi da gossip, il plauso resta meritato e le vendite lo confermano, non accadeva da illo tempore. Leggere Storia di chi fugge e di chi resta (terzo volume di una quadrilogia intitolata L’Amica Geniale) fa tirare un gran sospiro di soddisfazione e si ha l’impressione di avere tra le mani, finalmente, un romanzo all’altezza della migliore tradizione italiana in prosa. Un capolavoro che non strizza l’occhio alle mode letterarie del momento o ci proponga la solita storia messa ben a punto da un bravo editor e da una strategia di marketing destinati solo ed esclusivamente a vendere e a far parlare di sé.

L’avvincente discussione sull’identità della scrittrice, per quanto aggiunga un po’ di pepe, rischia di sminuire la portata di quello che ha scritto, declassandolo a oggetto da salotto massmediatico, senza riconoscere che questa autrice ha elevato nuovamente ad alto rango il Romanzo.

Chiunque lo abbia scritto, Storia di chi fugge e di chi resta, non è solo un bellissimo romanzo ma un punto di svolta nella letteratura contemporanea italiana. Elena Ferrante è riuscita laddove già molti altri autori si sono cimentati con scarsi esiti, ovvero scrivere l’autobiografia di una generazione e di un preciso momento storico segnato dal comunismo e dal femminismo. Il livello della microstruttura investe temi più controversi e avvincenti quali il progresso, la mobilità sociale, la speranza in un riscatto sociale affidato alle proprie capacità.
L’intelligenza, infatti, è l’unica arma di cui le protagoniste dispongono. Nate nella miseria dei rioni popolari di Napoli, Lenù e Lila tentano di cambiare le proprie vite ma adoperano i rispettivi capitali cognitivi in modo dicotomico. Lenù rispettando tutte le regole e Lila non rispettandone neanche una. Eppure anche lei, pur nei limiti del quartiere, riesce a realizzarsi nel settore dell’informatica. Lenù parte, fugge. Lila resta e prova dall’interno e con il suo carisma ad opporsi alle regole eterne delle strade di Napoli. Tuttavia finiscono entrambe sconfitte se le si rapporta al mondo che non cambia e il riscatto delle loro esistenze risulta vano.

Insomma il romanzo, popolato da personaggi le cui vite si intrecciano slegano e ricompongono, è il manifesto di una grande sconfitta collettiva. Perdono tutti: chi la vita, chi la libertà. Gli amici cresciuti con le due protagoniste seguono la medesima parabola discendente: sconfitti quelli hanno fatto carriera con il Psi di Craxi, quelli che sono ascesi con la camorra, quelli che hanno sperato in una rivoluzione. Elena Ferrante non si limita a narrare una storia privata ma intesse il romanzo epico di un pezzo di storia, la nostra, quella italiana, del boom economico e delle sue contraddizioni. La scrittrice racconta un ‘68 filtrato dall’esperienza di personaggi tutti italiani. E allora è possibile constatare quanto in quei fantastici anni, in cui tutto sembrava possibile, da L’immaginazione al potere a Il sesso è politicoqualcosa in Italia si è inceppato e ha interrotto il cammino della nostra storia, tanto da far scrivere la carta stampata di un ‘caso italiano’. Un caso che non è quello, o non solo, delle grandi città del Nord ma anche del Sud, di coloro che borghesi non lo erano  affatto e se intentavano una ‘lotta di classe’, dovevano affrontarla in primis tra le mura domestiche, poi nel quartiere sino alla fabbrica.

Il lavoro di Elena Ferrante è un romanzo popolare ma immenso poiché restituisce, attraverso personaggi frastagliati, la complessità dell’Uomo. Risulta difficile parteggiare pienamente per ciascuno di essi, così come è impossibile definire a pieno titolo i Buoni e i Cattivi. Resta su di essi un cono d’ombra che lascia indefiniti alcuni interrogativi, ogni volto che il lettore incontra è un mondo a sé e pertanto ogni ontologia resta irrisolta.

Elena Ferrante è riuscita dove tanti hanno fallito perché “Scrive”, perché sa coniugare la testa e le viscere come a pochi è concesso dal talento e forse anche per la volontà di ripercorre una parabola esistenziale dal basso. Il punto di osservazione appartiene a coloro i quali l’ascensore sociale non era una definizione sociologica ma il confine tra la vita e la sopravvivenza. E perché non la mette mai al centro della narrazione, ma la rilegge attraverso il prisma emotivo di un’amicizia al femminile. Amicizia strana, peraltro, con una simmetria troppo perfetta tra le due biografie così perfettamente opposte, una il rovescio esatto dell’altra. Due amiche, legate dal rapporto più intimo della loro vita ma forse anche due parti della stessa identità.

Ma Elena Ferrante è una narratrice e rifugge da intenti pseudo pedagogici e si astiene dall’azzardo narcisistico di fornire una qualche spiegazione. In Storia di chi fugge e di chi resta, l’autrice ha raccontato e descritto una vita, un’amicizia, un’epoca storica, una generazione e la sua catastrofe. Andare oltre e trovare una spiegazione di senso sta a chi legge, perché questo è quello che si fa con i grandi libri.

Erri De Luca: ‘Il giorno prima della felicità’, un melò poco riuscito

Romanzo dai buoni sentimenti, Il Giorno prima della Felicità (2009) dello scrittore partenopeo Erri De Luca, non riserva molte sorprese e colpi di scena. Sin dalle prime pagine si intuisce che tutto finirà bene, qualsiasi evento coinvolga il protagonista.

La trama de Il Giorno prima della Felicità richiama uno dei tanti film ambientati nei quartieri poveri di Napoli, qui il giovane eroe, una sorta di David Copperfield partenopeo, orfano e abbandonato a se stesso può confidare sulle premure di un portinaio dal cuore d’oro che lo alleva come fosse suo figlio. Il bambino scopre nel cortile del palazzo in cui vive un rifugio segreto, utilizzato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Così al racconto si uniscono i ricordi sull’occupazione tedesca, una storia nella storia, espediente abusato ma sempre di indubbio effetto sul lettore. Il portinaio si fa a sua volta narratore e racconta le atrocità determinate dalla miseria. Ma siamo in un romanzo dai buoni sentimenti, pertanto immancabile è l’amicizia con un ebreo che egli ha protetto.

Nel lavoro di De Luca è possibile individuare ogni “furbata” che si sa per certo è in grado di coinvolgere il lettore e permette alla trama di non subire cadute di tensione emotiva. Il passato evocato dal portinaio si intreccia al presente del protagonista e l’atto del narrare pone l’accento sulla magia della parola sia essa scritta o orale. La disamina metaletteraria scivola però nel didascalico moraleggiante.

A coronare questa fiera delle banalità è l’amore, inevitabilmente travagliato e ancora una volta ricalcato su qualche figura romanzesca di brontiana memoria oltre che la  fastidiosa tenacia di volere a tutti i costi trovare e far trovare al lettore somiglianze con lo spirito della cultura ebraica, ed ecco che spunta il perseguitato che vive nell’oscurità delle cantine.

Pagina dopo pagina il lettore accompagna il protagonista dall’infanzia alla maturità e si abbandona alle parentesi introdotte dall’autore con arguzia. Infatti nulla è casuale e come nei romanzi di formazione che si rispettino il finale aperto è il suggello sulle “grandi speranze” riposte nel giovane scugnizzo.

De Luca evoca con perizia ed empatia la vita nei quartieri, la loro miseria e affonda la penna nella realtà. Tuttavia l’epilogo sbrigativo si colloca più nella dimensione televisiva e rovina la patina neorealista. È innegabile che l’autore sappia raccontare una storia con padronanza ma gli stereotipi sono notevoli e a volte non è ben chiaro il suo intento, ovvero se voglia raccontare la storia di un bambino o celebrare il proprio amore per la scrittura e i libri. In quest’ultimo frangente si evince un trasporto maggiore, una spinta emotiva che a tratti l’autore non riesce a controllare e a trattare con sufficiente distacco. Di conseguenza la dimensione narrativa e quella metaletteraria non si saldano ma restano su due livelli sbilanciati e distinti. Si cerca invano di replicare l’inarrivabile e poetico universo letterario di Eduardo De Filippo, come dimostrano la presenza dei ciabattini macchietta, dei portinai che insegnano a vivere, sciorinando pillole di saggezza, e di don Gaetano, vero protagonista della storia che sa leggere nei pensieri della gente e che alleva il bambino.

Il giorno prima della felicità risulta un melò non tra i migliori di De Luca, con un finale frettoloso, dove l’autore partenopeo ha messo troppa carne al fuoco, in cui si rintracciano calchi letterari, cinematografici e televisivi, ma con un intento tutt’altro che piacevole e originale, dettato da esigenze più che altro commerciali, un filone nel quale il lavoro di De Luca si inserisce a pieno titolo.

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