Pet Sounds dei Beach Boys: il fantastico mondo di Mr. Wilson

Pet Sounds-Capitol Records (1966)
Pet Sounds-Capitol Records (1966)

Può un disco rasentare la perfezione? Dopo aver ascoltato Pet Sounds, la risposta non può che essere si. Eppure la sua genesi, la sua lavorazione e la sua accoglienza furono tutt’altro che semplici. Alla metà degli anni ’60 i Beach Boys erano i paladini della surf music, corrente musical/esistenziale tipicamente californiana la cui filosofia era incentrata su tre capisaldi: belle ragazze, macchine veloci e, ovviamente, il surf. L’estate senza fine, il calore del sole, amori folgoranti, tutti ingredienti imprescindibili che fecero di questi cinque ragazzi di spiaggia un’ incredibile macchina da singoli capace di sfornare, nel giro di pochi anni, brani di enorme successo quali: Surfin’ Usa, I Get Around, Surfin’ Safari, Fun Fun Fun. Ma nel 1966 le cose cambiarono improvvisamente. Una nuova consapevolezza sembrò pervadere il gruppo. La fine dell’adolescenza, l’avanzare di una nuova stagione, la cognizione che tutto ha una fine, portarono i Beach Boys ad un punto di svolta. Dopotutto all’estate segue sempre l’autunno, dopo il giorno arriva sempre la sera. In ambito musicale, l’uscita, nel dicembre del 1965, di Rubber Soul dei Beatles, spinse Brian Wilson, leader riconosciuto del gruppo, ad alzare notevolmente il tiro della sua ambizione musicale.

« Non ero preparato per quell’unità. Sembrava che tutto stesse bene insieme. Rubber Soul era un insieme di canzoni… che in qualche modo andavano insieme come in nessun album mai prodotto, e io ero molto sorpreso. Dissi: “Ecco. Ora sono davvero stato spinto a fare un grande album.” » (B. Wilson)

Quasi ricalcando le orme dei Fab Four, Brian Wilson smise di andare in tournèe (anche per crescenti problemi mentali), si chiuse in studio ed, insieme al paroliere Tony Asher, cominciò a lavorare a quello che sarebbe stato il suo capolavoro. Una tecnica di registrazione stupefacente (lo studio usato come uno strumento), testi crepuscolari venati di malinconia, strumenti insoliti, suoni inediti, primi accenni di elettronica fecero di Pet Sounds un caleidoscopio di colori e sensazioni assolutamente all’avanguardia. Dai mandolini di Wouldn’t It Be Nice, alle ondeggianti armonie di You Still Believe In Me, dai corni francesi di God Only Knows, alla leggendaria rilettura dello standard country Sloop John B., fino al theremin di I Just Wasn’t Made For These Times ed al latrato dei cani in Caroline No, tutto in quest’album segue un preciso filo logico, un chiaro disegno musicale scaturito unicamente dalla mente e dal genio di Brian Wilson. Gli altri membri del gruppo furono usati solo come meri esecutori delle parti vocali e le partiture musicali, data la loro difficoltà, furono eseguite da capaci turnisti. Di fronte a tanta complessità (e poca commercialità), molti storsero il naso. Primi tra tutti gli stessi componenti dei Beach Boys. Mike Love, voce principale e frontman del gruppo, una volta ascoltato il materiale di Pet Sounds ebbe a dire: “Chi ascolterà questa merda? Le orecchie di un cane?” .

Brian Wilson- Pet Sound Photo Session (1966)

Ironicamente fu proprio questo sarcastico commento ad ispirare il titolo dell’album. Ancor più duro fu il giudizio dei dirigenti della Capitol Records che, in un primo momento, vietarono la pubblicazione del disco. Di fronte all’insistenza feroce di Brian Wilson, decisero comunque di pubblicarlo senza però dargli un’adeguata copertura pubblicitaria. Le vendite iniziali furono prevedibilmente basse (con nefasti effetti sulla salute mentale dell’autore) ma la sua considerazione da parte del mondo musicale fu immediatamente enorme. Gli stessi Beatles rimasero stupefatti di fronte alla magnificenza dell’album e lo annoverarono tra le fonti d’ispirazione per la realizzazione di Sgt. Pepper. Ovviamente negli anni l’influenza e l’importanza di quest’opera sono cresciute a dismisura fino a diventare unanimemente riconosciute. Nel 2004 è stato inserito tra i cinquanta album da preservare nel National Recording Registry dalla Biblioteca Nazionale del Congresso a dimostrazione della sua longevità e universalità. Negli anni successivi i Beach Boys non riuscirono più a raggiungere simili vette artistiche limitandosi a pubblicare onesti album di pop/rock con alterne fortune commerciali. Brian Wilson fu costretto a lunghi periodi di completa inattività a causa della sua instabilità psichica, ma poco importa. Tutta la forza del suo genio è ormai impressa nella storia della musica e riemerge prepotentemente ogni volta che risuonano le note di Pet Sounds.

 

di Gabriele Gambardella

Revolver dei Beatles: Il sacrario del pop

“Revolver”- Parlophone-1966

Da bambino chiesi a mio padre (beatlesiano ortodosso e presente all’epoca dei fatti): “Papà qual è il disco più bello dei Beatles?”

Lui, senza pensarci un momento, rispose: “Revolver”

Io, li per li, non dissi niente.

Ma come Revolver? E Sgt. Pepper allora? Il White Album? Abbey Road?

A più di vent’anni da quella domanda e dopo innumerevoli ascolti dell’intera produzione beatlesiana, posso dire che aveva ragione. Il disco più bello dei Beatles è Revolver. Meno unitario del precedente Rubber Soul ma più caleidoscopico e sperimentale, quest’album rappresenta il momento esatto in cui i Fab Four prendono la volgare canzonetta e la innalzano ad opera d’arte.

Nel 1965 al gruppo accadono due cose fondamentali: cessano di esibirsi dal vivo ed esplorano tutte potenzialità che offre lo studio di registrazione. Ormai lontani dall’isteria dei fans e dallo stress delle tournèe, i Beatles si chiudono negli studi EMI di Londra e danno sfogo a tutta la loro creatività: il classicismo di Paul McCartney, il misticismo di George Harrison, la psichedelia di John Lennon, l’ironia di Ringo Starr si amalgamano in un coacervo incredibile di stili, tendenze e musicalità diverse. Il risultato è sorprendente.

«Dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi. Nessuno aveva mai udito niente di simile.» (Geoff Emerick-tecnico del suono)

 

The Bealtles-1965

L’arguta critica sociale di Taxman, la dolente bellezza di Eleanor Rigby, gli umori acidi di She Said She Said, l’allegria di Yellow Submarine, la sperimentazione pura di Tomorrow Never Knows, elevano Revolver al rango di capolavoro assoluto e manifesto di un’intera generazione. Perfino la copertina (straordinario collage creato dall’amico di vecchia data Klaus Voorman) cessa di essere una mera fotografia per diventare parte integrante del disco. Arte visiva e musicale, oriente ed occidente, pop e musica colta, amore e filosofia, i Beatles alzano il tiro, spingendo “oltre” la loro ambizione e la loro consapevolezza. Ormai fanno terribilmente sul serio. Si sbarazzano dello spettro di Bob Dylan (che aveva caratterizzato gli album precedenti) e dell’etichetta di “phenomenal pop combo” per raggiungere lo status di guru della musica moderna.

Aiutati anche da un crescente consumo di LSD e da possibilità economiche pressoché illimitate, i Favolosi Quattro recepiscono ogni sentore di mutamento, ogni minima vibrazione socio/musicale, ogni tensione rivoluzionaria e li trasformano in splendide melodie realizzando idee assolutamente inconcepibili fino a quel momento. Riescono nell’impresa di diventare il gruppo più innovativo del mondo e, nello stesso tempo, il più commerciale. Revolver, infatti, raggiunge, nel suo anno di pubblicazione, la vetta delle classifiche sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti ed è, successivamente, inserito ai primi posti in quasi tutte le liste dei migliori album mai pubblicati.

Anche dal punto di vista lirico e poetico quest’album rappresenta un punto di svolta. Sono lontane le semplici parole d’amore di Michelle, She Loves You, Love Me Do e You Won’t See Me. Qui trovano spazio la solitudine e la tristezza, la satira politica e la filastrocca, le droghe ed il “Libro Tibetano Dei Morti”. L’impatto sul mondo musicale è enorme. Un terremoto vero e proprio. Le tecniche di registrazione, i testi criptici ed ermetici, i nastri suonati al contrario, il sitar e la tambla, gli archi e gli ottoni, i rumori di fondo, tutto, ma proprio tutto, viene studiato e ripreso da gruppi contemporanei e successivi (inclusi gli stessi Beatles). Pink Floyd, Who, Byrds ma anche U2 e Chemical Brothers hanno fatto un punto d’onore riprendere e cercare di superare Revolver. Si tratta di un disco rivoluzionario sotto ogni punto di vista. Lontano eppure attualissimo tanto da continuare a lasciare tracce visibilissime a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione. Dopo Revolver, nulla sarà più come prima. La via era stata indicata ed il solco tracciato. Il mondo era ormai pronto per Sgt. Pepper.

 

 

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