Dal 18 Aprile è disponibile in tutti gli store online il libro dal titolo “L’umana Fragilità” dello storico e critico d’arte Francesca Callipari. Un’analisi storico artistica ma anche socio-antropologica sul rapporto dell’uomo con la morte, che ci conduce in un viaggio introspettivo volto ad approfondire aspetti che troppo spesso tendiamo ad allontanare per paura, invogliandoci al tempo stesso a scoprire un po’ di più alcune grandi opere della Storia dell’arte.
È questo uno dei temi più diffusi dell’intera storia dell’arte e ciò si spiega non soltanto per il fatto che rappresenti uno degli aspetti ineludibili dell’esistenza ma perché, inesorabilmente, esso si intreccia con tutti gli ambiti e i valori fondamentali della civiltà. Sin dalla notte dei tempi la morte ha avuto un ruolo centrale nell’immaginario collettivo, configurandosi come pensiero estremo e tappa inevitabile per qualsiasi riflessione incentrata sulla vita e sui suoi significati. Il tema viene qui analizzato attraverso l’arte, prendendo in esame due secoli importanti e densi di cambiamenti nei quali essa è stata grande protagonista: ovvero il Seicento e il Settecento.
Un tema trattato dal punto di vista storico ma che si intreccia per forza di cose con la contemporaneità: come affermato dalla stessa autrice l’idea di questo libro è nata proprio nel periodo covid, durante il lockdown che “di colpo ci ha fatto ricordare in maniera così pressante la caducità della nostra esistenza, facendo emergere chiaramente quanto l’uomo contemporaneo sia impreparato ad accogliere la morte e quanto, anzi, la paura lo conduca al punto di negarla”.
Con un linguaggio chiaro e adatto ad ogni tipo di fruitore, Francesca Callipari procede all’analisi delle singole opere, cercando di scavare nell’interiorità degli artisti e del lettore, facendo sì che sia l’arte stessa con la sua magia a mitigare le nostre paure, invitandoci alla riflessione.
L’autrice
Laureata in Storia dell’arte moderna presso l’Università di Firenze con una tesi in Storia della miniatura medievale, è oggi critico d’arte e curatore mostre e si occupa prevalentemente di artisti emergenti. Ha curato mostre in Italia e all’estero. È membro del Comitato di Selezione Artisti per l’Atlante dell’Arte contemporanea e membro del Comitato Internazionale curatori della Biennale di Firenze.
Ideatrice della mostra itinerante I Love Italy, si impegna nella valorizzazione e promozione del talento italiano anche attraverso la Web Tv “I Love Italy TV – Gallery”. Tra i suoi libri già pubblicati: il romanzo “L’odiato amore” (2014) vincitore del Premio Miglior “Opera Prima” al Premio Internazionale Sirio Guerrieri.
La battaglia politico-culturale contro ogni tentativo di introdurre in Italia un federalismo ‘squilibrato’ – al di fuori cioè di un rigoroso quadro normativo nazionale che disciplini con chiarezza le ulteriori e specifiche competenze da trasferire alle Regioni conferendo ad esse le risorse con cui gestirle e senza un fondo perequativo in favore del Mezzogiorno – sta cercando di impedire una frattura fra un Nord più sviluppato che vorrebbe trattenere il suo surplus fiscale e un Sud con una ricchezza prodotta inferiore che verrebbe a perdere gran parte dei trasferimenti di risorse perequative provenienti dalle Regioni settentrionali.
Tale battaglia è al centro del dibattito politico-culturale da molto tempo, anche se ultimamente si è affievolito o lo so affronta in modo superficiale e pregiudiziale. Il Sud che produce, compete, esporta, innova e non vuole confondersi con il vecchio Sud accattone e parassita: è il Mezzogiorno moderno pertanto che vuole allearsi sempre di più con il Nord più avanzato per competere insieme nel mondo, di cui parla Aurelio Musi nel saggio Mezzogiorno moderno. Dai Viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie (Salerno editrice), il quale offre a lettore una sintetica ma rigorosa ricostruzione e un’interpretazione complessiva delle vicende del Mezzogiorno dal periodo spagnolo fino all’unificazione politica dell’Italia. La piena integrazione nella storia italiana ed europea e, al tempo stesso, l’originalità di una via napoletana, di una via siciliana e di una via sarda allo Stato e alla società moderni costituiscono il filo rosso del racconto che risulta fresco e mai pesante.
Per la prima con questo saggio viene presentata una storia del Mezzogiorno italiano moderno comprensivo della Sicilia e della Sardegna che, pur con i loro caratteri specifici, ne hanno fatto e ne fanno parte integrante: una storia ricchissima storia ricca compresa fra l’eredità medievale,– il catalano-aragonese, lo spagnolo, l’asburgico, il napoleonico, il borbonico, il sabaudo, – la fine del Regno delle Due Sicilie, l’ingresso nell’Italia unita.
Aurelio Musi distingue tre strade verso la modernità all’interno della storia del Mezzogiorno: una via napoletana, una via siciliana, una via sarda. Si tratta di tre vie che non contraddicono la relativa unità di caratteri del Mezzogiorno d’Italia come comunità economica, sociale, politica e culturale, differente rispetto alle altre due aree del paese, quella centrale e settentrionale. La relazione fra caratteri napoletani, sardi e siciliani, ha profondamente segnato la modernità dell’Italia centro-settentrionale.
L’autore ha giustamente osservato che in tutti e tre i regni meridionali appartenenti alla Spagna la Corona è stata il soggetto politico protagonista del passaggio alla modernità, in quanto dato vita allo Stato, la forma di organizzazione politica più moderna; la disciplina, cioè il rapporto fra capacità di comando di chi governa e disponibilità all’obbedienza, alla fedeltà da parte dei sudditi, grazie all’adozione di strumenti di equilibrio fra dominio e consenso; ha favorito un processo di riassetto dei ceti sociali; ha stimolato lo sviluppo di forme di contrattazione tra le istituzioni monarchiche e i ceti a vario titolo rappresentati. Tali processi erano comuni ai tre Regni.
Tutte e tre le parti del Mezzogiorno hanno poi sviluppato, nel corso dei secoli e con le proprie peculiarità, un ruolo di primaria importanza nel Mediterraneo, contribuendo, come ha rilevato Musi, a fornire un’indicazione non solo storica, ma anche di prospettiva geoeconomica e geopolitica. Se infatti inquadrate nell’ottica presentata da Musi, le vicende del Regno di Napoli, di Sicilia e di Sardegna dal tardo Medioevo alla prima metà dell’Ottocento, appaiono meno un’anomalia nella storia italiana e più un modo particolare di vivere un’esperienza storica su scala europea, impossibile ad essere vissuta sul piano dell’autonomia e dell’indipendenza.
Nell’Italia meridionale sono presenti tantissimi gruppi industriali settentrionali ed esteri che collaborano con cluster diffusi di aziende locali: insieme, costituiscono punte di eccellenza della competitività italiana nel mondo: è questo allora il Sud che è necessario anche al Nord, assicurandogli mercato, materie prime e beni intermedi. Questa unità nella modernità allora bisogna difenderla e proteggerla da dibattiti fuorvianti e faziosi, semmai arricchirli, partendo proprio dallo studio del saggio di Aurelio Musi.
“Sai osare. Genitori e figli alla conquista dell’autostima” di Lara Ventisette e Alessandro Paselli è un saggio scritto da due autori che da quindici anni lavorano nel campo della psicoterapia e del coaching; inoltre, hanno anche aperto un servizio culturale e ricreativo per bambini da 0 a 3 anni che ha permesso loro di supportare quasi cinquecento famiglie nel percorso di educazione dei figli, e nell’acquisizione di importanti consapevolezze in merito al ruolo genitoriale.
Desideriamo accompagnarti come genitore in un percorso fatto di opportunità travestite da ostacoli, utili a rendere i tuoi figli forti, equilibrati, intelligenti, sensibili, responsabili, resilienti e capaci di costruire la vita che desiderano. Aiutando loro, aiuterai te stesso; aiutando te stesso, aiuterai loro. Mettendo in moto questa ruota benefica, trasformerai l’onere educativo in onore e la fatica in dono
Partendo dall’assunto che il benessere dei figli deriva dal benessere dei genitori e viceversa, i due professionisti hanno deciso di scrivere questo libro, ispirato dalle tante domande che vengono poste ogni giorno dai loro pazienti, per offrire strumenti utili e immediati per intraprendere un percorso di conquista dell’autostima. Aiutano infatti i genitori a cambiare prospettiva emotiva e a lasciar emergere i loro vissuti, le loro istanze emotive, comunicative, relazionali, organizzative e operative che risultano più problematiche, per poi riorientarle; questo approccio li guida passo dopo passo a diventare i genitori che hanno sempre desiderato essere – «Questo libro è dedicato ai genitori che vogliono sentirsi liberi. Liberi di fare pace con i bambini che sono stati. Liberi di emanciparsi da ciò che avrebbero voluto ricevere, senza poterlo ottenere. Liberi dalle ferite che hanno corredato il romanzo della loro vita. Liberi dai condizionamenti limitanti che hanno ricevuto. Liberi dalla tentazione di essere uguali, o antitetici, a quello che sono stati i loro genitori. Liberi di riscattare i tentativi fallimentari agiti dai loro familiari, scegliendo di essere i genitori migliori che possono essere».
Con un linguaggio scorrevole e diretto, gli autori ci conducono in un viaggio sia teorico che pratico – sono infatti presenti esercizi di autovalutazione alla fine di ogni capitolo, relativi all’argomento trattato – in cui si può apprendere come acquisire una sana autostima genitoriale e come accompagnare coscientemente i propri figli a sviluppare la propria. Il titolo del libro “Sai osare” è un acronimo che guida il lettore negli otto passi per conoscere le competenze genitoriali imprescindibili per aiutare i propri figli in questo processo di ristrutturazione percettivo-emotiva: supporto, autonomia, impegno, organizzazione, studio, attenzione, responsabilità ed emozioni. L’opera è rivolta sia ai genitori che a coloro che, pur non avendo figli, vogliono rileggere in modo diverso la propria storia e il proprio rapporto con la famiglia d’origine.
SINOSSI DELL’OPERA. Questo manuale aiuta i genitori a cambiare prospettiva emotiva e, di conseguenza, a interpretare i fatti con occhi diversi, riorientando il loro modus operandi grazie a nuove azioni comportamentali, comunicative e relazionali. Gli autori accompagnano le figure genitoriali in un percorso fatto di “opportunità travestite da ostacoli”, insegnando loro l’utilizzo di una lente di ingrandimento dinamica che si sposti perpetuamente dai loro comportamenti a quelli dei bambini e viceversa. In virtù di questa forte relazione biunivoca, i genitori – attraverso un lavoro continuo su loro stessi – giorno dopo giorno s’impegnano a rafforzare la propria autostima così da aiutare i figli a costruire la loro. Solo in questo modo, li renderanno forti, equilibrati, sensibili, responsabili, resilienti e capaci di fare ciò che più desiderano della propria vita.
BIOGRAFIE DEGLI AUTORI
Lara Ventisette è psicologa e psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Breve Strategica. Docente del Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Formatrice. Creatrice del Metodo PsicoStyling®, un innovativo coaching psicologico per migliorare l’autostima. Coordinatrice del Baby Parking Zerotre Spazio Infanzia. Insegnante di Yoga.
Alessandro Paselli è executive e business coach con venti anni di carriera corporate alle spalle. Specializzato in coaching e Problem Solving Strategico. Founder e managing director di Studio Action, nonché general manager e docente della PsicoStyling® Academy.
“Homo prospectus. Verso una nuova antropologia” di Martin E.P. Seligman,Peter Railton, Roy F. Baumeister e Chandra Sripada è un saggio interdisciplinare in cui si riflette sulla possibilità che la coscienza possa consistere in gran parte nella produzione di stimoli connessi ai futuri possibili. Seligman, esperto di psicologia generale con una solida preparazione nel campo della psicologia sperimentale e clinica, ha messo insieme un incredibile gruppo di lavoro che in anni di studi e ricerche ha elaborato questo innovativo e interessante testo. Gli undici capitoli del saggio sono organizzati in modo che sia solo uno dei quattro autori a prendere la parola, fermo restando la presenza dei commenti degli altri tre studiosi; Seligman si è poi assunto il compito di limare le differenze di stile e di prospettiva.
«Che cosa succede nel momento in cui l’essere umano canonico diventa Homo prospectus e la capacità di pensare ai nostri futuri diventa la facoltà che ci contraddistingue?»
Gli autori partono dal presupposto che la definizione Homo sapiens non si addica alla nostra condizione di esseri umani: «Noi crediamo che quello che caratterizza in modo specifico l’Homo sapiens è l’ineguagliabile capacità umana di orientare le proprie azioni immaginando varie possibilità che si articolano nel futuro – cioè la “prospezione”. La prospezione è la capacità che, nella sua espressione più elevata, realizza l’ambizione della sapienza. Perciò faremmo meglio a chiamarci Homo prospectus». Individuando e definendo i processi cognitivi attraverso i quali opera la prospezione, gli autori ne esplorano il ruolo in riferimento ad alcuni aspetti esistenziali come il libero arbitrio, l’etica, l’invecchiamento, ma anche rispetto ad elementi più propriamente psicologici, come il razionale di alcuni approcci terapeutici. Ne risulta un volume articolato, che guida il lettore in un processo di ragionamento trasversale sul funzionamento della mente che, attraverso un approccio interdisciplinare, tocca psicologia, filosofia, antropologia e neuroscienze, ma che non manca di riferimenti alla quotidianità e alle domande più comuni che l’essere umano si pone.
È il momento quindi di superare il vecchio schema passato-presente; il nuovo modello della prospezione consente inoltre di ripensare a importanti argomenti come l’apprendimento, la memoria, la percezione, l’emozione, l’intuito, la scelta, la coscienza, la moralità, il carattere, la creatività e la malattia mentale, e di offrire quindi nuove prospettive da cui osservarli e studiarli.
In seguito alla pubblicazione in inglese di questo saggio da parte della Oxford University Press, diverse borse di studio sono state stanziate dalla Templeton Foundation per la scienza della prospezione: gli autori hanno quindi creato un sito web – www.prospectivepsych.org – in modo che si possano seguire gli sviluppi di questi lavori.
SINOSSI DELL’OPERA. E se ciò che caratterizza in modo specifico Homo sapiens fosse la capacità di orientare le proprie azioni immaginando varie possibilità che si articolano nel futuro – cioè la “prospezione”? Da questa idea si sono mossi gli autori per ipotizzare la figura dell’Homo prospectus e concettualizzare l’idea che l’azione umana è attratta dal futuro, oltre che essere influenzata dal passato – senza tuttavia esserne determinata. La storia della psicologia è stata fino ad oggi dominata dall’idea che il comportamento sia guidato dalla memoria e dalle proprie esperienze passate, o centrato sul presente e orientato dalla percezione e dalla motivazione. Homo prospectus ribalta completamente questa prospettiva, ponendo un nuovo modello per il futuro.
BIOGRAFIE DEGLI AUTORI.
Martin E.P. Seligman è direttore del Penn Positive Psychology Center ed è Zellerbach Family Professor di Psicologia presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università della Pennsylvania, dove dirige il Master of Applied Positive Psychology (MAPP). Autore di quasi trecento pubblicazioni scientifiche e di venticinque libri fra cui, tradotti in italiano, “Il circuito della speranza. Il percorso dell’uomo che ha aperto la psicologia all’ottimismo” (Giunti Psychometrics, 2019), “Per una felicità autentica. Realizza il tuo potenziale con la psicologia positiva” (Anteprima Edizioni, 2018) e “Fai fiorire la tua vita. Una nuova, rivoluzionaria visione della felicità e del benessere” (Anteprima Edizioni, 2017), Seligman è un’autorità mondiale nei campi della psicologia positiva, della resilienza, della learned helplessness, dell’ottimismo e del pessimismo.
Peter Railton è Gregory S. Kavka Distinguished University Professor presso l’Università del Michigan, Ann Arbor. Si è occupato di filosofia della scienza, etica, metaetica, filosofia politica ed estetica. Ha insegnato a Berkley e Princeton ed è stato membro di vari centri di ricerca negli Stati Uniti e in Europa.
Roy F. Baumeister è Frances Eppes Eminent Scholar and Professor di Psicologia presso la Florida State University; le sue ricerche riguardano temi quali sé e identità, l’autoregolazione, rifiuto interpersonale e bisogno di appartenenza, sessualità e genere, l’autostima, il significato e la presentazione di sé. È autore di oltre cinquecento pubblicazioni e di trentuno libri fra cui, tradotto in italiano, “La forza di volontà” (con John Tierney, TEA, 2015).
Chandra Sripada è professore associato di Filosofia e psichiatria presso l’Università del Michigan, Ann Arbor. Studia i meccanismi cerebrali coinvolti nella presa di decisione, nella prospezione e nell’autocontrollo e cerca di capire come le acquisizioni della ricerca scientifica impattino sull’immagine che abbiamo di noi stessi in quanto agenti liberi e razionali.
“Lo sguardo di Gesù. Pagine di Misericordia” di Don Francesco Cristofaro è un saggio teologico scritto con un linguaggio semplice e immediato, accompagnato da una sentita prefazione di S.E. Card. Angelo Comastri. L’opera è divisa in tre parti: nella prima vengono presentati alcuni racconti tratti da brani dal Vangelo, nella seconda viene narrata la vita dell’autore, concentrandosi in particolar modo sulla sua esperienza con la fede, e nella terza vi sono delle preghiere da lui composte.
«Oggi, l’uomo è triste perché è senza Dio. Oggi il cuore dell’uomo è smarrito perché ha smarrito la verità del Vangelo, l’unica che lo possa salvare. Oggi l’uomo si vuole costruire senza Dio. Oggi l’uomo si vuole fare dio al posto dell’Onnipotente Signore. Grande, allora è la responsabilità del cristiano. Grande è la missione del sacerdote: costruire Dio nel cuore dell’uomo»
I brani scelti dal Vangelo sono incentrati su coloro che erano stati etichettati come peccatori, e che a un certo punto del loro cammino avevano incontrano gli occhi di Gesù, pieni di misericordia, e in questo modo si erano salvati – «Che cos’è la misericordia? È lo sguardo di Dio che ti penetra dentro fino a trasformarti totalmente perché tu ti lasci trasformare».
Per quanto riguarda la storia personale dell’autore, egli si confessa parlando della sua disabilità: Don Cristofaro è infatti nato con una paresi spastica alle gambe. Sin da bambino ha lottato per accettarsi e per farsi accettare dagli altri, subendo bullismo, pietismo ed emarginazione; poi ha compreso, grazie allo sguardo di Gesù che si è posato su di lui e che lo ha reso strumento di misericordia, che la disabilità non era un limite ma un dono, con il quale poteva manifestare le opere di Dio. È inoltre molto interessante, in questa parte dell’opera, il racconto dell’evolversi della sua vocazione, che ha conosciuto anche momenti di crisi: egli infatti si è allontanato da Gesù per paura di non essere all’altezza del suo compito, ma la chiamata ricevuta era una luce che continuava a brillare forte nel suo cuore. Ha così intrapreso la missione che da sempre lo aveva scelto, impegnandosi a mostrare al mondo il volto di Gesù – «Io mi sento un salvato, uno che è rinato, al quale viene chiesto di cantare la vita, di lodare le meraviglie del Signore. A volte, penso alle migliaia di persone che mi seguono. A me sembra di non fare nulla per loro. Poi ti scrivono e ti dicono grazie per il sorriso e, allora, capisco di essere servito a qualcosa».
SINOSSI DELL’OPERA. Leggendo le pagine del Vangelo, ci imbattiamo in tanti incontri e momenti di misericordia. La gente vede in Gesù uno che è diverso da tutti gli altri; uno che non ha timore di fermarsi, di ascoltare, di sedersi a tavola del peccatore, di toccare un lebbroso. Quando noi giudichiamo, etichettiamo, non facciamo altro che chiudere il nostro cuore alla misericordia. Guardiamo a Gesù e poi soffermiamoci per un istante a noi stessi. Che atteggiamento avremmo assunto noi dinanzi alla peccatrice colta in flagrante adulterio? Quanti sassi avremmo scagliato? E dinanzi a Zaccheo, a Matteo il pubblicano? Cosa avremmo fatto se si fosse presentato a noi il cieco mendicante, il lebbroso escluso dalla comunità o qualsiasi altro fratello bisognoso? In queste pagine scoprirete storie e volti, alcuni hanno un nome, altri sono senza volto e senza nome perché in quelle storie potreste esserci anche voi. Toccherete con mano la sofferenza, la voglia di riscatto e di cambiamento. C’è l’atteggiamento di Gesù, tutto il suo amore. Sarà un vero canto alla misericordia di Dio.
BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Don Francesco Cristofaro è nato a Catanzaro il 10 novembre del 1979, ed è oggi parroco nella Parrocchia “Santa Maria Assunta” in Simeri Crichi. Ha conseguito la licenza in Teologia Spirituale presso la Pontificia Facoltà Teresianum in Roma. Conduce su Radio Mater la rubrica “Alla luce della fede” e su Padre Pio TV la trasmissione “Fatti per il Cielo”. Collabora inoltre con Tv2000 nella trasmissione “l’Ora Solare”. È stato opinionista nella trasmissione “Storie Italiane” di Rai 1 e contribuisce con servizi a tema alla trasmissione “Forum” di canale 5. Invitato in diverse città italiane per portare la sua testimonianza di vita, ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Tiene incontri di preghiera in tutta Italia e viene invitato a predicare a ritiri spirituali di carattere nazionale. È inoltre testimonial di eventi di carattere sociale, in particolare sulla disabilità. Ha scritto per il settimanale “Miracoli” e ha pubblicato diverse opere per Tau Editrice.
Secondo una periodizzazione perlopiù accettata, nell’ambito della narrativa italiana si è avuto un punto di svolta databile al 1980: di là da questo ideale spartiacque si situa la tradizione novecentesca, di qua la fase che a tutt’oggi stiamo vivendo.
Se si assume senza troppa rigidità la categoria di nuova narrativa italiana è certamente opportuna a descrivere un insieme di cambiamenti avvertibili per la prima volta, in particolare, nelle opere di giovani scrittori. Tra di essi, ha interpretato un ruolo fondamentale Pier Vittorio Tondelli(1956-1991), il cui libro d’esordio Altri libertini (romanzo politico, manifesto di una nuova generazione) viene solitamente considerato, a ragione, come una delle opere che maggiormente ha influenzato gli sviluppi successivi della narrativa.
Acuto osservatore dei più vari aspetti della creatività giovanile, Tondelli ha tracciato con gli scritti poi raccolti in Un weekend postmoderno
una mappa dettagliata di tutte le manifestazioni estetiche dei suoi tempi (dalla letteratura alla musica, dal cinema alle arti figurative, fino ai fumetti e ai videogiochi).
Ma cosa si sa davvero di Tondelli e della collocazione delle sue opere nella storia della letteratura? Come analizzare correttamente la sua figura letteraria? La ricerca del docente e saggista Sciltian Gastaldi, docente, giornalista professionista (L’Inkiesta) e romanziere, che ha dato alla luce il saggio Tondelli: scrittore totale. Il racconto degli anni Ottanta fra impegno, camp e controcultura gay, edito da Pendragon, ha portato ad un’operazione culturale oltre che che critico-letteraria, la quale mette in atto in modo scientifico la contestazione della vulgata dei due ciclopi, la critica cattolica e la critica marxista, che hanno erroneamente visto in Tondelli il cantore del disimpegno, autore blasfemo per poi essere presentato come scrittore toccato dalla Grazia?
Sciltian Gastaldi parte giustamente dall’analisi delle opere di Tondelli, avvalendosi di una vasta ed eterogenea bibliografia per la ricostruzione del dato biografico, condotta anche mediante sopralluoghi negli ambienti tondelliani, la raccolta di testimonianze orali e dello studio della biblioteca privata di Tondelli.
La tesi proposta dall’autore è che le opere di Tondelli si distinguono in primo luogo per la caratteristica dell’impegno, giocato su diversi livelli: letterario e contenutistico, contro le omologazioni imperanti dei classici e della narrativa consumistica o edificante degli anni Ottanta; linguistico sperimentale, contro il canone delle belle lettere, facendo propria e aggiornando la lezione di Arbasino; culturale, contro il conservatorismo perbenista che avversa ogni controcultura giovanile; politico, in senso non ideologico e soprattutto sociale, contro l’omofobia e l’emarginazione, temi di gran moda al giorno d’oggi più che mai, ma che Tondelli non voleva cavalcare.
Tondelli stesso, nelle interviste, è scettico nei confronti di categorie quali la “letteratura gay” e teme che la propria opera non venga apprezzata con il solo criterio del valore letterario. Giulio Iacoli ha parlato in questo caso di «crisi di disidentificazione», ricordando che «le dichiarazioni autoriali non possono avere per noi un mero effetto impediente, di fissazione del dicibile entro territori verificati e prescrittivi». È infatti il testo stesso, con il suo ritornare in modo così insistito sul tema, a imporre alla critica di affrontare l’omosessualità, non solo come tema, ma come fattore costitutivo di una poetica.
L’omosessualità è nei contributi critici di studiosi che vivono all’estero, il tema principale attraverso il quale l’opera di Tondelli ha suscitato interesse. Il testo più frequentato dalla critica, è l’ultimo romanzo dell’autore, Camere separate, in cui la storia d’amore tra i personaggi di Leo e Thomas è il caposaldo attorno al quale è costruito l’intreccio. Come notato da Olga Campofreda, con l’eccezione di Camere separate, vi è però, generalmente, un vuoto critico intorno alle restanti opere di Tondelli.
Vuoto critico che Gastaldi ha contribuito a colmare in modo soddisfacente e puntuale, il quale ci consegna un Tondelli nella cui formazione i suoi referenti sono stati il cinema, la televisione, il fumetto, e tutta la mitologia legata ai personaggi del pop, del rock, non tanto i discorsi intellettuali. Ci consegna un Tondelli la cui scrittura basata sulla messa in scena dei linguaggi giovanili (spesso purtroppo liquidate dispregiativamente come giovanilistiche) è stata spesso fraintesa dalla critica, con l’accusa di spontaneismo, vale a dire di un’insufficiente elaborazione stilistica che sarebbe alla base di testi privi di dignità letteraria.
Gastaldi mette anche in guardia dal pericolo che porta a credere che basti avere qualcosa da raccontare, e che non serva un lavoro sulla forma. Viceversa, urge riscrivere, analizzare, rifare, per arrivare a qualche risultato, soprattutto se si vogliono raggiungere l’immediatezza e la freschezza, obiettivi faticosi da raggiungere e non spontanei, come si può pensare nel caso di Tondelli.
Il saggio di Gastaldi ci mostra un Tondelli che è più decadente che avanguardista e ha capito che i luoghi esistono fino a quando uno scrittore li scandaglia con ostinazione: lo scrittore di Correggio infatti riusciva a scrutare la costa americana dalla riviera romagnola, “detrashizzandola”, allontanandola dall’immaginario collettivo di pellicole come Rimini Rimini e Abbronzatissimi.
L’autobiografismo di Tondelli si muove dal privato all’impegno sociale, descrivendo situazioni e sensazioni che hanno quindi valore universale e dunque letterario, e a tal proposito Gastaldi distingue almeno due livelli nel corpus tondelliano, uno “positivo” e uno “negativo”. Il primo f riferimento in particolare ad Altri libertini, Pier a gennaio e Camere separate. In queste opere l’autore passa in rassegna emozioni, situazioni, sentimenti da lui vissuti, per dare loro una valenza universale.
Il secondo tipo di autobiografismo presente in Tondelli è quello che Gastaldi chiama “fisico-pedissequo” ed è utilizzato ne Il diario del soldato Acci, in Dinner Party, in Rimini e, anche se il discorso a riguardo è molto più complesso, anche in Pao Pao. In questi lavori l’autore tende a plasmare la maschera dei suoi personaggi per farla aderire alla propria, rimanendo così prigioniero delle proprie esperienze. In questo modo i personaggi risultano tutti un po’ simili tra loro.
Gastaldi presenta inoltre un Tondelli che bramava un confronto aperto tra scrittura e critica, avendo con essa un rapporto difficile. Critica che si è sempre più arroccata su se stessa incapace di un dialogo con la scrittura che l’hanno resa pressoché insignificante, faziosa e inattendibile.
Per quanto concerne la controcultura gay, è importante sottolineare come Tondelli non legga l’omosessualità in termini ideologici e neppure identitari, come oggi si tende a fare in concomitanza con la questione diritti civili, dimenticando quelli sociali. Tondelli è contrario a una riduzione della complessità della persona alla dimensione della sessualità che non può diventare l’unico elemento per cui una persona si identifica per ciò che è, rischiando l’auto-ghettizzazione.
La produzione letteraria di Tondelli è strettamente legata agli anni Ottanta: lo slang giovanile subisce trasformazioni in tempi molto rapidi, per cui il linguaggio giovanile dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta che si trova in Altri libertini o in Pao Pao non è più attuale. Tuttavia il ritmo di Tondelli è talmente incisivo, che ancora oggi Altri libertini e Pao Pao risultano comprensibili e freschi, al di là delle mutazioni linguistiche.
Gastaldi infine ci fa capire quanto la logica commerciale fosse del tutto estranea all’operazione di Tondelli, acuto osservatore sociologico mentre oggi essa sembra quella che domina gran parte dell’editoria.
Tondelli: scrittore totale rifugge dai paludati accademismi tipici di tanti saggi, e appare come un’opera al passo con i tempi rimettendo al centro del dibattito Pier Vittorio Tondelli, sia quello sbarazzino che spirituale, cercando di allargare il discorso tenendo in considerazione gli studi in precedenza svolti su Tondelli, il cui “giovanilismo” è condizione esistenziale (tenendo anche conto che lo scrittore scomparve a soli 36 anni), prediligendo quelli che si sono soffermati sulla dimensione impegnata di Tondelli, dinamica, vagabonda, energica. A questi elementi Gastaldi ne aggiunge uno molto importante per la piena comprensione dello scrittore emiliano, ovvero l’apporto dell‘estetica camp nelle sue opere, che hanno reso Tondelli l’iniziatore della controcultura queer, di quei giovani alla ricerca di qualcosa di diverso e dirompente per sfuggire all’omologazione borghese.
Viene da chiedersi se ci siano riusciti, cosa stia producendo la narrativa “giovanilistica” e la controcultura queer in termini di linguaggio, se non si tratti invece ad un neo-conformismo e neo-imborghesimento grottesco che non ha nulla di trasgressivo e cosa ne avrebbe pensato Tondelli.
Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura. Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea.
Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Il suo ultimo lavoro dal titolo Anatomia del potere. Orgia, Porcile, Calderón. Pasolini drammaturgo vs. Pasolini filosofo (Metauro, 2021) ha vinto la XXXVII del Premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un’opera contrassegnata da un “notevole spessore culturale”, in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.
L’analisi condotta studia i seguenti temi: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia), 2) la zooerastia (Porcile), 3) il corpo recluso tra scissione e visionarietà (Calderón).
Ma allo stesso tempo c’è anche un’ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la società intesa come un mondo concentrazionario, come il Lager (Calderón). L’autore riesce a scorgere un “fil rouge” nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón.
Il saggio è un’eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano. Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l’idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto.
Il potere nel saggio di Katsantonis è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l’autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini l’immaginario collettivo è già omologato totalmente.
Un’altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in “Come non ci si difende dai ricordi”: “
Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.
L’opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma che trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini alla filosofia del boudoir di Sade.
Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. In tale contesto viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane.
Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l’accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile, per Pasolini le donne sono “vittime e marionette” nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente l’intellettuale trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell’intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso.
Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche l’ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini “il sadomaso è soppressione di ogni limite”, andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli.
Anatomia del potere ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c’è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell’ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse è una via per il martirio.
Non a caso il titolo della tesi di dottorato di Georgios Katsantonis è “Drammaturgia del corpo patetico” pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini è l’unica valvola di sfogo, l’unico modo di avere piacere in questa società.
Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significa uscire da sé per poi ritrovarsi. L’autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica.
Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus“le perversioni sono metafore dell’amore” nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.
Le pagine di questo libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l’indicibile, di aver rappresentato l’impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore.
In una delle sue lettere alla moglie, Sade scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino».
In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell’amare e dell’essere amati, del soddisfare o dell’essere soddisfatti. Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun “I can’t” dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa.
Tuttavia bisogna ricordare anche che il sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all’epoca. Come scriveva Pasolini in “Le belle bandiere“: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio”.
Nel secondo capitolo viene studiato Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti.
L’autore descrive il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte.
Katsantonis sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Quest’ultimo è un concetto filosofico apparso per la prima volta in Logica del senso di Deleuze, opera del 1969, che ha la sua prima espressione in una performance radiofonica di Antonin Artaud, intitolata “Per farla finita con il giudizio di Dio”.
Il corpo senza organi è il rimosso del corpo, una sorta di ambiente dinamico e informale, un campo di forze in cui si contrappongono tensioni diverse che determinano il desiderio. Il corpo senza organi è, in altre parole, un corpo senza organizzazione e di conseguenza assolutamente libero e fluttuante, eversivo, anti-istituzionale.
Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Si analizzano la prima Rosaria e l’incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, la medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: “obbedisce senza essere obbediente” in un ribellismo confuso ed è al contempo un “vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese”.
Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. L’autore rimarca ancora una volta che tra il corpo e il potere c’è di mezzo un immaginario omologato. Non solo ma viene descritto “il concentrazionamento del mondo” e Katsantonis dimostra tutta la sua cultura citando l’istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell’interazione e per la perdita di faccia.
Bisogna ricordare che nel 1960 anche Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica ad un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa.
Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l’ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media.
Lo scrittore friulano aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell’omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell’immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come “i figli di papà”: non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista.
Tutto questo era frutto della “mutazione antropologica”, termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della “mutazione antropologica” la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità.
Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri, il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l’Italia.
Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo e non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi. Infine è creativo davvero l’accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa.
Dopo la lettura di questo eccellente e acuto saggio ci si domanda se Pasolini, il quale considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità, se avesse ragione Marcuse con la sua teoria della desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione.
Anatomia del potere è una lettura doverosa per pasoliniani e profani, per comprendere meglio anche il nostro tempo.
L’Iliade o il poema della forza è un saggio scritto da Simone Weil fra il 1936 e il 1939: l’attualità e la freschezza delle riflessioni della filosofa francese – che rileggendo l’Iliade mette a nudo l’inesorabile peso con cui la forza schiaccia sia vinti che vincitori – costituiscono un sano esercizio intellettuale per interpretare quella che sembrerebbe essere una categoria meta-storica che permea il divenire dall’antica Grecia alla contemporaneità. La forza, e la necessaria violenza attuale o potenziale che la accompagna, lasciano a chi ne è momentaneamente in possesso infinita libertà di agire e di muoversi in uno spazio senza costrizioni. Essa elimina necessariamente quell’intervallo di riflessione che interviene fra il pensiero di un’azione e la sua realizzazione: che motivo avrebbe Agamennone di ponderare le conseguenze del sottrarre Briseide ad Achille, sapendo che questi non potrà nulla a riguardo?
Dall’altro lato, chi subisce la forza cessa di essere una persona e, ridotto a cosa, istintivamente “imita il nulla”. Non per insensibilità dunque, Achille scosta re Priamo implorante alle sue ginocchia: il supplicante, al pari del vinto, termina di essere e diviene un oggetto fastidioso da trattare con noncuranza. Non diversa è la situazione dello schiavo, il cui unico spazio di azione emotiva è piangere della propria sventura nei momenti di lutto del padrone. Tuttavia, nella società postmoderna, si compie un ulteriore passo: lo schiavo gioisce, si dispera e cum-patisce delle stesse emozioni del padrone, in una mimesi isterica che si inserisce in un più ampio quadro clinico che ricorda la sindrome di Stoccolma. La legittimazione morale della ricchezza incommensurabile battezza sull’altare dei valori l’incolmabile diseguaglianza, figlia primogenita della violenza economica. La violenza lacera l’anima e abbandona l’uomo ai propri istinti primari: persino Niobe, dopo aver perso dodici figli, fu infine costretta a mangiare. In una realtà che tende alla mercificazione universale, che ha elevato a bisogni vitali ogni tipo di eccesso e di superfluo e dove il desiderio materiale, la competizione, la produzione e il consumo prendono le forme della fame e della sete. L’uomo ha cancellato ogni forma di vita interiore, è vittima di una tanto amara “miseria che lo rende addirittura incapace di sentire la propria miseria”.
“La forza trasforma chiunque da essa venga toccato”. Questa è per Simone Weil l’essenza del contenuto dell’Iliade. Nel poema omerico non si narra tanto l’eroismo nella battaglia o le fantastiche ingerenze degli dei nei casi umani. L‘Iliade è piuttosto il poema della Forza e del potere che essa ha da una parte di portare alla rovina chi la esercita e dall’altra di pietrificare e ridurre a cosa chi la subisce. Allo stesso tempo, nel dispiegarsi tragico della forza e nella dismisura della volontà che l’accompagna, la violenza e la sopraffazione trovano il loro pareggio nella pietà e nell’amore, ma non nel perdono: il greco non conosce infatti questa ambigua categoria propria della cristianità. Ed è grazie a questa cruda verità, in cui l’uomo viene riportato alla sua finitezza, che la grande narrazione fondativa dell’occidente, si mantiene nella luce del mito. L’occhio di Omero guarda e narra con imparzialità quasi divina le violenze e le alterne sventure tanto degli Achei quanto dei Troiani. Lo stesso occhio, attraverso lo sguardo di Simone Weil, osserva, in un processo di attualizzazione del mito, tanto lucido quanto partecipe, l’avvicinarsi della tempesta europea.
Il genio greco dell’Iliade e della tragedia attica, ereditato dal cristianesimo e indagato dalla Weil, è l’espressione di una filosofia dei vinti, che capovolge e mette in dubbio le tradizionali categorie di oppressi ed oppressori. La forza, come scrisse Eraclito, “è padre di tutte le cose, di tutte re” e soggioga inevitabilmente l’anima umana ancorandola alla materia. La vittoria porterà ben vana consolazione ai re achei: Achille morirà in battaglia, Agamennone assassinato dalla moglie, Aiace Telamonio suicida, e Odisseo e Menelao impiegheranno altri dieci anni per tornare in patria. Nessuno è immune ad essa, e l’immenso potere che in un momento conferisce, nell’altro può repentinamente togliere. L’uomo moderno ha tentato, con la tecnologia e il mito del progresso, di emanciparsi dal peso e dall’incombenza di questa sciagura che rende comune e così fragile la propria condizione.
In realtà
chi pensa che Dio stesso, divenuto uomo, non ha potuto sostenere lo sguardo dinanzi al rigore del destino senza tremare d’angoscia, avrebbe dovuto intendere che possono elevarsi in apparenza al di sopra della miseria umana solo gli uomini che mascherano ai propri occhi tale rigore.