‘L’inferno di Dalì’. Le Opere di Salvador Dalì a Roma a La Galleria delle Arti dal 22 marzo

Negli anni ’50, in occasione del 700° anniversario della nascita di Dante, il governo italiano commissiona a Salvador Dalì, il Maestro del Surrealismo, l’illustrazione de La Divina Commedia. 

L’artista realizza un capolavoro illustrato del Novecento: 102 acquerelli, esposti per la prima volta a Roma nel 1954.

L’esposizione in Italia genera polemiche che portano Dalì a ripresentare la collezione nel 1960 al Musée Gallièra di Parigi. La mostra riscuote un enorme successo, tanto da spingere Joseph Foret a dar vita al progetto di trasformazione degli acquerelli in xilografie. Sotto la diretta supervisione del genio dell’Artista, vengono convertiti in matrici di stampa i 3500 blocchi di legno intagliati a mano ed impressi in progressiva i 35 colori di ogni tavola; tale tecnica consente, oltre a preservare tutti gli elementi cromatici, l’aggiunta delle più intense sovrapposizioni dei colori.

“Ho voluto che le mie illustrazioni per Dante fossero come delle lievi impronte di umidità su un formaggio divino, di qui il loro aspetto variopinto ad ali di farfalla.” 

Salvador Dalì

Nei rinnovati spazi de La Galleria delle Arti, storico ritrovo culturale del quartiere di San Lorenzo a Roma, a partire da martedì 22 marzo alle ore 18.30 saranno esposte le 34 xilografie che raccontano l’affascinante viaggio iconografico nell’Inferno, primo dei tre regni dell’aldilà descritti da Dante.

L’allestimento della mostra segue quello originariamente voluto da Dalì, che non rispetta l’ordine sequenziale dei canti come da opera originale. In ogni xilografia viene illustrato un verso o una terzina del canto, riportati nelle didascalie che affiancano le tavole.

Un cammino visivo che interpreta magistralmente il linguaggio del poeta fiorentino e conduce chi osserva attraverso le atmosfere oniriche ed i colori suggestivi direttamente nell’Inferno dantesco.

La Galleria delle Arti: storia del locale

La costruzione del quartiere di San Lorenzo risale al periodo tra il 1884 e il 1888, durante il grande sviluppo urbanistico che ebbe la città di Roma a seguito dell’Unità d’Italia, e si sviluppò in un’area oltre le Mura Aureliane, precedentemente agricola. La sua edificazione avvenne per accogliere gli alloggi di ferrovieri, operai ed artigiani giunti a Roma alla fine del secolo XIX per lo sviluppo urbanistico della città a cavallo tra i due secoli. Nasce quindi con una connotazione popolare che si rispecchia nelle particolari tipologie abitative. 

Durante tale periodo, nel 1885, viene costruito l’edificio che ospita La Galleria delle Arti. Inizialmente destinati agli scantinati del palazzo ad uso privato, gli spazi occupati dal locale furono utilizzati dagli abitanti del quartiere come ricovero antiaereo durante la II guerra mondiale, anche durante i drammatici bombardamenti del 19 luglio 1943, come si evince dai numerosi palazzi che mantengono il ricordo delle lesioni subite, durante i quali morirono circa 3.000 persone. 

Dalla fine degli anni Quaranta, il locale fu trasformato in una fabbrica di sedie, la ditta Croppo, che mantenne la sua attività in quel luogo fino alla fine decennio successivo. Fu quindi una balera e alle fine degli anni Sessanta, con la nascita di una nuova tipologia di fruizione del cinema che vede la nascita di sale interamente dedicate alla attività di cinema d’essai, divenne il Cineclub Sabelli, uno dei più importanti esempi di questa nuova tendenza insieme al Filmstudio 70 e il Monte Sacro a Roma. 

Il Circolo Gianni Bosio, fondato a Roma nel 1972, aprì la sua prima sede a via dei Sabelli 2; in quel periodo, a condurre le attività del Circolo c’erano Paolo Pietrangeli, i componenti del Canzoniere del Lazio, un gruppo di teatro e di musica che si era chiamato Collettivo Gianni Bosio, e varie persone sparse gravitanti nel modo della scena artistica e politica degli anni Settanta.

Dal 1986 al 1989 divenne la galleria “Artista casa delle Arti” che nel 1990 fu trasformata nella prima galleria d’arte aperta di notte a Roma ospitando mostre d’arte ma anche spettacoli di poesia contemporanea e musica etnica. 

Durante i Novanta aprì in quelle sale il DDT, storico locale della Movida Romana; a seguire il Lost’n’found e il Mads, storico locale della capitale della scena underground e punk che ospitava una ricca programmazione teatrale, le cui attività si sono concluse a metà del decennio scorso.

Ristrutturata nel 2019, la Galleria delle Arti è oggi uno spazio di 320 metri quadri di grande versatilità che ha mantenuto le caratteristiche strutturali del basamento di un edificio di fine XIX secolo: una sequenza di archi costituiti da mattoncini in laterizio, pietra e tufo, intervallati da ambienti di diversa grandezza che, esaltati come elementi architettonici, ne creano il fascino. La struttura degli spazi si configura come una lunga e monacale galleria di archi e volte che viene contrastata dagli arredi in velluto e oro dai rimandi anni Venti/Trenta.

Salvador Dalí, vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista

Non c’è genio artistico senza il nome di Dalí. Confinato nella sua isola, egli osserva e re-interpreta il mondo. Irrompe pressoché in ogni avanguardia del Novecento, per portare i movimenti artistici su posizioni ancora più estreme, dilatando i confini. Dalí è vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista. La sua storia è quella di un genio eccezionale; la straordinarietà visionaria di una vita che ha visto uno, nessuno e centomila Salvador Dalí.

Impressionista, cubista, surrealista, cineasta, sceneggiatore, vertigine sessuale, “avida dollars”; un’esistenza che ne ospita altre infinite: uno, nessuno e centomila Salvador Dalí. Siede sul trono dorato della storia dell’arte, dal suo personalissimo XX secolo contempla e analizza i classici, tirandoli sino all’interno delle sue tele. Stravolge con sprezzo e maestria lo spazio e il tempo occupati dal ‘900, temporalità del quale si impossessa, erigendola a luogo prediletto di importanti fermenti creativi. Non c’è genio artistico senza il nome di Salvador Dalí, tutto nel suo nomen omen: Salvador.
“I miei genitori mi avevano dato lo stesso nome di mio fratello: Salvador, e, come il nome indica chiaramente, ero destinato a salvare il mondo dalla vacuità dell’arte moderna, e a farlo precisamente nell’abominevole epoca di catastrofi mediocri e meccaniche, a cui abbiamo il desolante onore di appartenere”.

Dichiarazione tratta da La mia vita segreta, autobiografia minuziosa scritta all’età di trentasette anni, documento prezioso, dentro il quale si manifesta la grandiosità di un gaudente catalano, autocelebrativo – a ragione – in opposizione all’infecondo verso della modestia. Nasce nel 1904 a Figueres, città della Catalogna, che nei suoi ottantacinque anni di vita, figurerà sempre il luogo del ritorno: il rientro in casa, in se stesso e nella sua terra. Le prime manifestazioni artistiche, non slegate da una notevole dose di eccentricità, risalgono all’infanzia, momento in cui inizia la costruzione di uno sterminato edificio chiamato Isolamento. Un’isola dove il fanciullo Salvador osserva il continente da lontano: i compagni di scuola, gli insegnanti, quella compagine di umanità che dovrebbe quantomeno incuriosirlo. Trova quell’oltre se stesso, solo materia inutile, incapace di fecondarlo in alcun modo. L’edificio Isolamento si estende nella fase adolescenziale; all’interno l’artista confina anche l’amore. La precoce e approfondita conoscenza della fragilità delle sue emozioni lo incalza nella direzione di un verso costrittivo: comprimere dunque ogni possibile slancio verso l’immagine femminile. In direzione di tale segno, per cinque anni si allena al gioco, non poco doloroso per la vittima prescelta, dell’amore non consumato. Un’attività che prevede la scelta di una fidanzata, la promessa di non innamorarsene, il veto a un rapporto carnale completo, tutto nel fine di operare sottomissione e dipendenza. È lo sfoggio di un potere praticabile su qualsiasi essere umano.

“Ho imparato a riconoscere nell’amore non consumato, una mia potentissima arma. Lei si trovò a essere, come Isotta, l’eroina tipo in una tragedia di amore sterile, qualcosa che, nel campo dei sentimenti, equivale al cannibalismo ferocissimo della mantide religiosa, che divora il maschio nel giorno delle nozze, e durante lo stesso atto d’amore. Ma la chiave di volta, nella cupola di torture da me eretta per proteggere lo sterile amore della mia innamorata, era senza dubbio la nostra comune consapevolezza del mio assoluto distacco”.

L’attività che l’artista presta al certosino lavoro nella costruzione dell’isolamento è lastricata di fragilità. Debolezze che, con il passare del tempo, si fanno compulsioni, agriotimìe e ossessioni. A un’emotività eccessivamente permeabile, fa da contrappunto un visibile alcinesco quasi calamitante, fatto di abiti costosi, capelli lunghi, eleganti bastoni da passeggio e finanche un trucco agli occhi bistrati di nero.

La perdita della madre incrina fatalmente nel giovane Dalí le sue emozioni, conosce il trauma ed è costretto all’ammissione che l’Ego non può competere in alcun modo con la morte. Trascorsi gli anni delle scuole, il padre, da sempre contrario alla carriera artistica del figlio, davanti all’evidenza di un estro non comune, finalmente acconsente alla sua volontà di entrare nell’Accademia di Belle Arti di Madrid. Luogo che rappresenta per Dalí un’ulteriore moltiplicarsi di vite: c’è lo studente ascetico, il cubista maniacale, l’insolente fomentatore, il dandy bevitore e infine il prigioniero per sbaglio. L’allievo più illustre, animato da impeti monarchico-anarchici, si ritrova accidentalmente in un momento insurrezionale catalano. Per un mese viene recluso nel carcere di Gerona. Nel 1926 viene espulso dall’Accademia, cacciata, non proprio velatamente, da tempo bramata dall’artista, che avverte già da molto il richiamo di Parigi. Nel 1929 è ne la Ville Lumière ad abbacinare, dal suo trono, i tetti che sorvegliano pennelli e tele. Subito all’interno del movimento Surrealista, prima della sua espulsione, introduce il metodo critico paranoico, un procedimento sviluppato dopo l’incontro con il filosofo e psichiatra francese Jacques Lacan. L’elaborato, muovendosi necessariamente dalla teoria surrealista che vede l’inconscio come uno strumento per creare immagini, mediante la costruzione delle stesse, afferra tonalità di patologia, opponendo all’iperrealismo lucido della figura, una forma onirica maniacale e catastrofica. Tale metodo viene altresì spiegato in un’eccezionale puntata televisiva del 1959, nel programma Incontri condotto dal giornalista Carlo Mazzarella. Il sistema, spiega l’artista, è un’operazione nel quale è possibile ottenere la massima capacità della conoscenza umana, relativa alla struttura blanda, ossia molle. La prima associazione avviene naturalmente con l’opera La persistenza della memoria.

I celebri orologi molli, giacenti in questa tela del 1931, sottolineano la deformazione operata dallo sguardo dell’artista su di essi. L’orologio si discioglie al sole su una veduta di Port Lligat, fluisce nel paesaggio dove viene ospitato. L’occhio con lunghe ciglia evoca lo sguardo di un sogno e dunque dell’inconscio. I misuratori temporali, di fatto, disegnano la foggia psicologica del tempo: il decorrere, dentro l’intuizione umana, prende una rapidità e un significato differente, intimo, che accoglie solo la dialettica della rievocazione e della disposizione d’animo. L’unico orologio non alterato è assalito dalle formiche, a indicare comunque l’azzeramento dell’elemento razionale e del tempo oggettivo e cronologico. Tutto è dominio del sogno, dove la temporalità si confonde nel prima e nel dopo, annullandosi nell’onirico.

Il verso è quello di una fenditura che si trasferisce in una vera e propria estasi visiva in perenne mutamento. Nell’arte di Dalí, tra dissoluzione e ripresa, il gesto si dispone anche nel bel mezzo di fosche e celate pulsioni sessuali.
Dopo aver scompaginato anche il movimento Surrealista, André Breton lo liquida con un marchio, un anagramma del nome: avida dollars. A ogni espulsione, il suo personalissimo edificio di isolamento, in accordo con la sua genialità, crescono all’unisono. Dalí è vertigine pura, apoteosi dell’uomo e dell’artista; nella pennellata come nella pellicola: insieme al regista Luis Buñuel è il creatore di Un Chien Andalou, pellicola impeccabilmente descritta dal politico e scrittore spagnolo Eugenio Montes:

“Buñuel e Dalí si sono risolutamente posti al di là della barriera definita buon gusto, al di là di quanto è gradevole, epidermico, frivolo, francese. Un passaggio del film è sincronizzato con la sinfonia del Tristano: sarebbe stato meglio preferire la Jota di Pilórica, di colei che non volle essere francese, ma aragonese, spagnola di Aragona, dell’Ebro, questo iberico Nilo. Barbara, elementare bellezza, la luna e il deserto dove il sangue è più dolce del miele riappaiono al cospetto del mondo. No! No, non guardate le rose di Francia! La Spagna non è un giardino, lo spagnolo non è un giardiniere! La Spagna è un pianeta e le rose del deserto sono asini imputriditi. Un Chien Andalou stabilisce una data nella storia del cinema, una data scritta col sangue secondo il gusto di Nietzsche, secondo il costume spagnolo”.

Ma il genio, l’invenzione di un metodo paranoico-critico per interpretare la realtà, l’amore per il lusso, le esaltanti visioni animalesche (da non dimenticare l’interesse per la rappresentazione del mondo animale), la glorificazione di un’esistenza gaudente, la personalità fortemente istrionica e finanche l’incontro con tutti gli artisti del periodo, non sono nulla senza la deflagrazione più squarciante: l’incontro atomico con Elena Dmitrievna D’jakonova, ossia Gala Éluard, poi Dalí. Moglie del poeta surrealista Paul Éluard, rappresenta sin dal primo istante per il pittore catalano, la rottura dell’isolamento emozionale e il crollo della sua isola, ma in un paradosso, al contempo il rafforzamento della solitudine nel congiungimento di due creature che si fanno un’unica entità artistica, carnale e umana. Gala è colei che comprende, scende nei luoghi più ameni della personalità di Dalí e ne risale illesa poiché lei è in lui e lui in lei. Gala è ancora la donna che lenisce le ferite psichiche di una mente particolarmente esposta ai richiami. Nella descrizione del Dalí finalmente abbandonato a un altro essere, il quadro più lucente:

“Un unico essere ha raggiunto un piano di vita paragonabile alle serene perfezioni del Rinascimento, e quest’essere è precisamente Gala, la moglie che per un autentico miracolo ho potuto scegliere. Gala è composta dalle divine attitudini, dalle espressioni tipo-nona-sinfonia che, traducendo i contorni architettonici di un animo perfetto, si cristallizzano nelle linee della carne, nella superficie della pelle, nelle spume marine di gerarchie privatissime e rigorose, schiarite da un delicatissimo alitare di sentimenti, e si induriscono, si organizzano, si fanno architetture umane”.

Gala è la vita e la morte di Salvador Dalí, il ponte tra il genio e lo scorrere del tempo reale. Al termine della sua vita, avvenuta sette anni prima del pittore, il talento dell’amante inizia pian piano ad affogare in una lenta preparazione, che lo porti al seguito della sua Gradiva. La straordinarietà visionaria di un genio eccezionale resta impressa nelle opere di una vita che ha visto uno, nessuno e centomila Salvador Dalí.

 

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/homines/salvador-dali/

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