Non è raro trovare nella raccolta la parola inchiostro, legata quasi da una sorta di magia alla sorte delle volte dei pianeti, delle maree, degli effetti luce delle stelle con l’atmosfera e l’aria terrestre. L’incanto di Venere dello scrittore napoletano Salvatore Belzaino, (Il mio libro, 2019), come si legge nella sinossi del libro, è una raccolta lirica che esalta e celebra Amore nella melodia che scalza l’oblio; è poetico flusso d’albe e tramonti nel letto stracolmo di attese del cuore. Tra i versi vividi di seducenti e primigenie emozioni, Salvatore Belzaino denuda, in danza di parole limpide, alchemiche e fatali, il significato e l’essenza del perdersi e ritrovarsi. Perdersi e ritrovarsi di vita, di onirico abbandono e persino di morte, nella Bellezza di Colei che strugge in baci, che seduce tra strali di passione e tormento, che si fa speme all’arcobaleno delle stagioni destinate a passare ed essere rimembranza ed anche amnesia.
L’autore vive quasi in una sorta di trance inconsapevole. È spinto. È guidato. È mosso alla scrittura da un vivace movimento astronomico incontenibile. Dall’inchiostro del porta nascono parole come sotto dettatura. Come in un accadimento biblico, le parole sono sentite innanzitutto, poi trascritte quasi, e infine trasformate in invocazione.
Ed è proprio l’invocazione la prima figura retorica che si fa strada nella raccolta. La dedizione è una conseguenza, e i pianeti l’oggetto del desiderio, della pietevole inclinazione all’osservazione di orizzonti distanti.
Parliamo in questo caso dell’invocazione a Venere. Atto che fu già di rottura, se vogliamo, quando la fece Lucrezio; che snobbò le muse per votarsi a Venere, a una dea, per ingraziarsela, per farle illuminare il tracciato del racconto per intero. E in questa nostra raccolta contemporanea il percorso non è diverso. Il pianeta, la stella, la dea, trova qui la sua antica funzione di guida dei mari, delle acque terrestri, delle giostre luminose di luce atmosferica, e dell’inchiostro di cui si compone questa “compulsiva” raccolta dove l’autore campano cerca la propria orbita ontologica e poetica.
E facendo correre velocissimi gli anni coi secoli, possiamo legare tutto il trattato poetico al naturalismo cosmico e incantato, panteistico, che fu di Leopardi, e in qualche misura tipico ottocentesco caratterizzato da un lessico di maniera, ragionato, cercato; soprattutto perché poi compare la luna con le maree, con l’aurora e i rapporti con sole, e tutte queste creature del cielo sono fortemente inclini a dettare sentimenti e a suggerire emozioni. E l’autore nel riconoscersi con Pavese e con la radiazione pessimistica di fondo, non fa altro che continuare e proseguire un pessimismo su di sé e sulla natura dell’uomo che fu celebre in Leopardi. E fondamentalmente l’autore da vita al teorema dell’impossibilità, del mare, dell’oceano in un bicchiere, della surrealtà, delle immagini che furono di Magritte.
Il poeta è alla ricerca di una nuova dimensione. La indaga, la isegue, la ricerca. La inquisisce, la invoca.
Il lessico poi può sembrare molto di maniera, studiato, un po’ troppo ragionato, voluto, cercato. Impreziosito da bagliori extraterrestri.
È il fanciullino di Pascoli che diventa adulto e cerca solo un atavico, eterno, cantuccino in qualcosa di molto distante e coscientemente irraggiungibile, impossibile.
Passando poi da una lettura storiografica ad una superficialmente psicoanalitica, questa fissazione per Venere nasconde la voglia, decisamente manifesta, di un rifugio privato perduto, quasi immaginario. Una voglia insaziabile, bulimica, quasi compulsiva. Ci sono pagine e pagine in cui si parla di cose reali ma della loro trasfigurazione astrofisica tramite algoritmi verbali molte volte dai tempi antichi.