Sul Nobel per la letteratura, vincitori e candidati italiani

Qualche tempo fa 18 donne denunciarono pubblicamente di essere state molestate da Jean-Claude Arnault, marito dell’accademica Katarina Frostenson. Questo scandalo travolse il premio Nobel per la letteratura.

Da allora il Nobel per la letteratura è meno considerato. Negli anni si è molto discusso delle scelte a dir poco opinabili dell’Accademia svedese. Qualcuno riteneva a torto o a ragione che alcuni accademici alzassero il gomito. Ma quale scrittore può vincere il Nobel? Quali sono i requisiti? Ebbene  chiunque abbia dato in termini generici “considerevoli benefici all’umanità” e chi “si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale”.

Ci sono sempre molte diatribe e polemiche riguardo al Nobel per la letteratura. Fortunatamente per ora nessuno si può autocandidare, ma nonostante ciò ci sono molte associazioni culturali, molte accademie di paesini sperduti che candidano al Nobel i loro preferiti. Certe candidature non sono minimamente credibili, ma certi personaggi in questo modo possono fregiarsi dell’etichetta “candidato al Nobel per la letteratura”.

Sicuramente per alcuni autori il Nobel è un’ossessione. Non sempre la candidatura viene fatta con cognizione di causa, a ragion veduta. Lo stesso Licio Gelli venne candidato al Nobel per la letteratura. L’associazione in teoria deve essere rispettabile e riconosciuta. Detto in termini più appropriati, deve essere selezionata dal comitato del premio Nobel per la letteratura.

In Italia l’istituzione più seria in questo senso è l‘Accademia nazionale dei Lincei, ma va bene anche il Pen Club. Dopo che è stato reso noto il nome del vincitore nei circoli letterari scaturiscono molte polemiche. Quando l’autore è sconosciuto ci si chiede chi sia questo carneade e molti pensano che sia dovuto a una ragione prettamente politica: alcuni sterili polemisti dicono per esempio che lo hanno scelto perché africano oppure perché oppresso ed esiliato, non per merito o bravura.

A onor del vero le minoranze sono sottorappresentate. Pochi africani hanno vinto. Per non parlare degli scrittori asiatici. In compenso l’Europa può vantare un grande numero di vittorie. Niente contro la letteratura francese, certamente di grande tradizione, ma che dire delle sue 15 vittorie? E che delle 12 vittorie degli Stati Uniti? E che dire delle 8 vittorie della Svezia?

Ci sono molte controversie. Innanzitutto come ha avuto modo di interrogarsi il poeta Luca Alvino: come mai per altre discipline il Nobel può avere vari vincitori mentre in letteratura no? Forse premiare più scrittori nello stesso anno significherebbe scrivere più motivazioni e ciò potrebbe apparire paradossale? Oppure bisognerebbe scegliere più scrittori e motivare le scelte con la stessa motivazione? Ma esiste una motivazione valida per più premiati? Andiamo oltre.

Due volte è stato rifiutato il premio: da Pasternàk e da Sartre. Ci furono polemiche anche per il Nobel attribuito a Bob Dylan. Qualcuno sostenne che avevano dato il premio a un cantante, come se il grande menestrello fosse un semplice cantante. Polemiche tutte nostrane ci furono per il Nobel a Dario Fo. Allora alcuni dissero che era stato premiato un buffone, mentre il poeta fiorentino Mario Luzi aveva subito una grave ingiustizia.

Luzi certamente era un professore universitario stimabilissimo e allora veniva considerato il più grande poeta del mondo. Il poeta fiorentino aveva scritto capolavori come Nel magma, evitando l’effimero e cercando l’eterno non scadeva mai nel patetico, come ebbe a scrivere Carlo Bo.

Giuseppe De Robertis scriveva che le poesie di Luzi erano “un continuo parlare a sé, all’anima, o a persona vicina e compagna di vita”. Luzi spiccava per la sua espressività,  per il suo simbolismo, per la sua vita interiore così ricca, infine per il suo spessore culturale. Le sue opere si contraddistinguevano per gli endecasillabi canonici, per le analogie mai scontate. L’animo umano compenetrava il paesaggio e viceversa,  non a caso “l’albero di dolore” scuoteva “i rami”.

Era tutto teso a cogliere i propri moti dell’animo e al contempo “l’immobilità del mutamento”. In “Nel magma” si poteva rintracciare la sua più alta espressione per i fitti dialoghi, per gli interrogativi esistenziali, per la commistione felice di percezione e filosofia, per essere un libro sapienziale, proprio come alcune opere dell’Antico Testamento.

L’Italia, per quanto non sia una nazione importante politicamente e la cui lingua sia parlata relativamente da poche persone, ha vinto il premio ben 6 volte con Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo. Certamente ci furono delle polemiche per i Nobel alla Deledda e a Quasimodo perché alcuni letterati non li consideravano meritevoli, non li ritenevano all’altezza.

Invece un gigante come Ungaretti non lo vinse mai. Lo stesso vale per Pascoli.  Alda Merini fu candidata ma non lo vinse. Aveva descritto l’inferno dei manicomi, la povertà, il disagio psicologico come pochi.

Albino Pierro fu in lizza e la sua candidatura accese i riflettori sulla sua Tursi. Tonino Guerra era ben visto a Stoccolma perché eccellente poeta e inoltre sceneggiatore di Fellini.

In un suo celebre componimento scriveva che c’erano persone che da generazioni facevano case e non possedevano una casa. In pochi ma memorabili versi c’era tutta l’ingiustizia capitalista, l’iniqua distribuzione della ricchezza. Anche Alberto Bevilacqua fu candidato, ma da alcuni era ritenuto troppo commerciale, troppo presenzialista in TV. La vera ragione era che non gli perdonavano libri come “La califfa”, in cui un’operaia si innamora del padrone, e “La polvere sull’erba”, in cui trattava degli omicidi nel triangolo della morte nell’immediato dopoguerra.

Pasolini se non fosse stato massacrato sarebbe stato in lizza per il Nobel. Ma probabilmente pagò per i suoi Scritti corsari. Anche Zanzotto probabilmente fu uno dei papabili per la vittoria. Tra i suoi meriti quello di aver diffuso il dialetto veneto, di aver creato quasi dal nulla un nuovo modo di fare poesia, di aver denunciato l’inquinamento e la perdita di identità della sua gente nel cosiddetto mitico Nord-Est.

Zanzotto era un poeta estremamente lucido e brillante. Un suo detto memorabile che amava ripetere nelle sue interviste e spiegava tutto sulla sua lirica “Al mondo” era che nella vita bisogna fare come il barone di Munchausen, ovvero bisogna tirarsi fuori dalle sabbie mobili afferrandosi per i capelli.

Aveva come difetto il fatto che la sua poesia metteva a dura prova anche i più preparati, ma era allo stesso tempo il segno inequivocabile che con lui si dovesse fare letterariamente i conti. Anche Dacia Maraini fu candidata e non vale la pena soffermarsi perché è una scrittrice davvero celebre. Più recentemente molti avanzarono la candidatura di Claudio Magris per la sua produzione saggistica di elevata qualità e per la sua promozione della letteratura mitteleuropea.

Si parlò anche di Roberto Benigni per la divulgazione della Divina Commedia. Qualcuno ad onor del vero considerò (giustamente) biasimevole questa scelta. I più esigenti ritenevano che l’esegesi di Benigni fosse inadeguata, approssimativa e in un certo modo improvvisata, se si confrontava alla smisurata preparazione di Vittorio Sermonti.

Naturalmente non poteva mancare tra i papabili Umberto Eco, uno dei pochi intellettuali noti in tutto il mondo grazie a “Il nome della rosa”. Era uno dei fondatori del gruppo 63 e pochi sanno che fu anche uno degli ideatori del Dams. Disquisì su tutto nelle sue Bustine di Minerva per decenni. Scrisse  anche un saggio breve di poche pagine su Mike Bongiorno, citato a sproposito da molti che ritenevano avesse scritto un intero libro sul celebre conduttore. Eco era essenzialmente un’enciclopedia vivente.

Si parlò persino della candidatura di Roberto Vecchioni, stimato professore, noto cantautore e poi scrittore di alcune opere, pubblicate da Einaudi. Le canzoni di Vecchioni avevano una cifra poetica innegabile, erano pregnanti e piene di riferimenti colti, di rimandi al mondo greco.

Vecchioni cantava di Aiace come di Euridice. Fu memorabile un confronto molto acceso alla trasmissione di Lilli Gruber tra Vecchioni e Valerio Magrelli sulla vexata quaestio del Nobel a Dylan.

Magrelli rivendicava la superiorità della poesia e sosteneva che la canzone non fosse minimamente paragonabile. Vecchioni ricordava che anticamente le poesie venissero cantate. La questione era già dibattuta e comunque sempre molto controversa.

Ricordiamo che è stato candidato a Stoccolma anche il poeta marchigiano Umberto Piersanti, autore Einaudi, operatore culturale, saggista, vincitore di prestigiosi premi letterari. Più recentemente è stato candidato al Nobel il professore e poeta Francesco Benozzo, che ha pubblicato tutti i suoi libri con Kolibris edizioni e che suona magistralmente l’arpa mentre canta i suoi versi. Nel 2021 è stato candidato a Stoccolma anche il poeta Guido Oldani, padre del Realismo Terminale.

Ma veniamo ai soldi: il premio Nobel ha un grande ritorno economico per la casa editrice con cui pubblica lo scrittore o il poeta premiato.  Già il premio Strega è una grande fortuna per un editore. Tutti vogliono comprare i libri dell’autore premiato. Immaginiamoci il premio Nobel oltre al fatto non indifferente che la vincita consiste in circa un milione di euro!

A ogni modo gli accademici svedesi hanno fatto molte ingiustizie a livello planetario, non solo per gli italiani. Joyce, Tolstoj, Virginia Woolf,  Fitzgerald,  Borges, Proust, Nabokov, Roth non vinsero mai il celebre premio.

Scorrendo i nomi dei vincitori ci accorgiamo che  non necessariamente tutti hanno fatto la storia della letteratura, che talvolta alcuni sono rimasti seminoti. Viene da chiedersi se questo premio possa davvero contribuire alla letteratura, se il prestigio di cui gode è veramente meritato. Probabilmente il Nobel è molto utile a promuovere un autore, una nazione, una  “buona” causa.

l’Idiot de la famille, di Jean Paul Sartre

Jean-Paul Sartre, prima di ogni altra cosa, è stato un intellettuale borghese, un uomo che si è occupato di letteratura, che ha fatto letteratura.

Sartre e la scommessa con Garaudy

Nel 1972 escono i tre volumi di un’opera, L’idiot de la famille, L’idiota della famiglia, dedicata a Gustave Flaubert; l’idea nasce da una sorta di scommessa da parte di Sartre con il suo compagno di partito Roger Garaudy che gli propone di dedicare un saggio a un personaggio della letteratura al quale egli avrebbe risposto a sua volta con un altro lavoro. Sartre avrebbe dovuto adottare il metodo esistenzialistico, Garaudy quello marxista. Questa la proposta, questi i patti. Così Sartre si mette all’opera. Lo scrittore francese ha letto da sempre Flaubert, è entusiasta di questo compito, al punto che ci suona strano sentire che detesti proprio quello scrittore del quale troviamo riscontro in tante delle sue opere. Una scelta motivata da cos’altro la sua? Sartre vuole misurarsi con Flaubert, comprendere quali sono le ragioni che lo hanno spinto a scegliere l’arte e la letteratura come rimedio a tutti i mali, perché si sia appellato all’arma della parola. La trama dell’opera ha come protagonista il piccolo Gustave durante i primi anni della sua vita, ”accusato” di essere un idiota perché affetto da una forma di autismo che gli impedisce di vivere come vorrebbe. Forse è proprio in questa condizione di emarginazione che possiamo cogliere l’interesse di Sartre per l’esistenza complessa di questo bambino di otto anni e in quella che è la lotta quotidiana contro i suoi simili, in quel rapporto con l’Altro ed il suo sguardo , quell’Altro che non ci ha mai lasciato nell’analisi del pensiero di Sartre e del suo esistenzialismo.

La letteratura come arma di riscatto sociale

Nel momento in cui Gustave conquista la parola, ha diritto a esprimersi nella società e smette di essere considerato un idiota. Flaubert combatte l’altro proprio con la scrittura, fa sì che ciò che resta di quello che era non venga ora annientato. Si tratta di un passaggio semplice per Sartre, forse troppo. La parola è un mezzo mistificatore e Sartre rimprovera allo scrittore francese la sua presa di posizione in quanto intellettuale, che si può riassumere in un aristocratico distacco dalla società, in una scelta di comodo, se vogliamo. La critica di Sartre mira a dissacrare tutti i principi su cui si erano fondate le teorie psico-sociali su cui si poggiava il pensiero di Flaubert e stende un romanzo che ha il sapore di una monografia poco obiettiva e poco concreta sulla vita dell’autore e le sue scelte. Lo stesso Sartre dichiara di volersi dedicare allo scrittore leggendolo e presentandolo sotto un’ottica nuova, riesaminandone le opere. Ciò che prova a fare è studiare il passato di Flaubert legandolo imprescindibilmente non solo alla sua posizione di borghese attuale ma anche alla sua identità di scrittore, anzi tenta di giustificarne le scelte proprio in virtù di quella che è stata la sua condizione prima di bambino e ora di uomo. L’autore francese porta avanti un’analisi psico-esistenziale della persona Flaubert e giunge alla conclusione che “l’idiot de la famille” abbia scelto la letteratura come rifugio, come momento positivo e di riscatto e rivalsa nei confronti di un passato negativo, fatto di umiliazioni profonde; quindi uno scrittore ”provato” e combattuto, incompreso nelle sue sfumature di uomo intellettuale e alla ricerca costante della sua identità, come in una nevrosi che conduce a morte certa.

Sartre sostiene che i personaggi scelti per ogni suo romanzo siano degli alter ego del piccolo idiota (la stessa Madame Bovary). Un autore, Flaubert, che si è consumato in una rabbia umana e letteraria inesauribile per le vicende che lo hanno interessato; un filosofo, Sartre, che ha dedicato il suo tempo all’analisi psicologica e allo studio a trecentosessanta gradi di un mostro sacro della letteratura come lo è stato Flaubert.

La natura politica della letteratura

Il novecento è stato un secolo dominato dalle ideologie. Per citare un’opera su tutte, esemplificativa di questo concetto, appare utile ricordarci de Il Novecento. Il secolo delle ideologie di Bracher Karl D., ove si percorrono minuziosamente la genesi e gli sviluppi dei fenomeni totalitari. Durante il secolo breve, la letteratura, come tutti i fatti umani, è complessivamente impregnata, utilizzando la definizione di Hobswan, di tutte le insenature pensieristiche dei fiumi totalitari. Negare la natura politica della letteratura equivale a negare un aspetto sottinteso, un nesso indissolubile e inequivocabilmente sempre presente. L’epica greca, partendo dal trapassato, è diretta, significativamente, alle πόλεις.

Il filosofo Massimo Cacciari, durante il “Premio Cesare Pavese 2014″, ha rimarcato con forza questo aspetto, asserendo che la letteratura occidentale,per mezzo del suo valore mitopoietico, ha fondato le qualità delle città e quindi le fondamenta stesse dell’esistenza convissuta. L’origine della letteratura, persino in chiave storica, appare quindi strettamente politica. Saltando più avanti nel tempo, potrebbero elencarsi infinità di esempi relegabili all’interno dell’insieme della “letteratura politica”, per evidenziare la declinazione delle intrecciate complicità di questi due mondi, che poi è la relazione tra il potere e il mondo intellettuale, basti pensare a Dante Alighieri.  Nel novecento la situazione appare farsi più complessa: indagando sulle riviste letterarie di quel secolo ci si rende conto dell’aspetto perfettamente organico di queste alle ideologie e alla propaganda di esse. Se prima della nascita dei totalitarismi, la letteratura si è principalmente distinta quale espressione indipendente dell’animo umano seppure, come si è visto, legata a doppio filo alle dinamiche del potere, alla auctoritas e alle sue manifestazioni, con l’avvento del novecento si innesta un processo di identificazione della letteratura con il pensiero dominante o con l’ opposizione e la resistenza ad esso.

Dalle pubblicazioni dell’estetismo decadente (<<Hermes>>, <<Leonardo>>, <<il Marzocco>>) alle esperienze di Gobetti e Gramsci (<<L’Ordine Nuovo>>, <<La Rivoluzione liberale>>, <<Energie Nuove>>), passando per le riviste fasciste (<<Gerarchia>>, <<La difesa della razza>>, <<Critica fascista>>) o attraverso le esperienze cattoliche (<<Il Rinnovamento>>, <<L’Eroica>>, <<Rassegna Nazionale>>), ci si può pienamente rendere conto di quanto viene pervaso il pensiero letterario da quello delle concezioni fideistiche delle visioni del mondo all’epoca presenti. Si contraddice, per così dire, la tensione esistenzialista di Sartre che, con la teorizzazione dell’intellettuale impegnato, l‘intellectual engaged, postula la necessità di non sposare una specifica dicotomica (destra/sinistra per semplificare) e di orientarsi diversamente, di volta in volta, verso scelte ideali orientate unicamente all’uomo e alla sua libertà. La funzione del letterato cambia radicalmente, banalizzando, con l’avvento dei regimi e se l’Imperatore Augusto necessitava di Virgilio per legittimare il proprio potere, questione anch’essa rimarcata da Cacciari durante il Premio sopracitato, gli aspetti contemporanei della politica non necessitano di legittimazione letteraria, anzi la respingono, prodotti come sono da cesure storiche-filosofiche invertibili. Quello che resta di questo processo, le scorie, appaiono essere le necessità degli uomini di potere di appropriarsi anche di “un’immagine letteraria”, utilizzando un esercizio di appropriazione a volte palesemente indebita delle opere letterarie e dei risvolti teorici a loro legate, etichettando autori e forzando l’attualizzazione di tematiche letterarie al fine di erudire un ipotetico pantheon di riferimento a cui un partito qualunque dovrebbe rivolgersi. Potere e letteratura viaggiano, durante i nostri giorni, su binari distinti, distanti e ben differenziati, apparendo quasi mossi da una reciproca repulsione, la letteratura appare disimpegnata e priva della sua originaria funzione creatrice.

Il romanzo di carattere politico-sociale è un genere ormai in disuso, estinto, non riproponibile. D’altro canto, la politica ha smesso di pensare e di esigere delle basi culturali per sostentare idealisticamente la propria esistenza , limitandosi così alla etichettizzazione di autori del passato per esigenze non sostanziali. Entrambi gli ambiti si mostrano, in definitiva, vicendevolmente impoveriti. Viene totalmente smarrito quell’appello di Orwell presente all’interno di un saggio del 1948 dal titolo significativamente Hobbesiano, Gli scrittori e il leviatano, nel quale l’autore di 1984, scriveva:

“E quindi? Dovremmo concluderne che ogni scrittore ha il dovere di non immischiarsi di politica? Certo che no! In ogni caso, come ho già detto, in un’epoca come la nostra nessuno che abbia un cervello riesce a tenersi, o si tiene in pratica, fuori dalla politica”.

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