‘Contro l’impegno’ di Siti. La letteratura è diventata un calmante e gli scrittori sono schiavi del proprio ego cretino

Ha fatto molto parlare di se, e giustamente, la raccolta di saggi Contro l’impegno di Walter Siti, il quale si sofferma su cosa significhi la “mancanza dei finali” che sta affliggendo molta narrativa letteraria e televisiva.

La mancanza dei finali nella letteratura odierna

La prassi del finale aperto, come sappiamo, e come sa meglio di tutti Walter Siti, deriva dal feuilleton e dalla narrativa di genere, in cui la serialità impone allo scrittore di abdicare alle pretese autoriali per assicurare al lettore la riproduzione delle gratifiche emotive, che diventano rinnovabili e dilazionano il possibile orizzonte di chiusura.

I finali diventano così dei sotto-finali, come delle soste allusive: una specie di rassicurante fermo-rivelazione di ciò che verrà riaperto negli episodi successivi:

L’opinione di Siti

Prosegue Siti:

«Contraddizioni e travisamenti vengono allegramente tollerati e promossi nell’euforia della “aerodinamicità”; ecco uno scrittore ammirato e influente come Roberto Saviano sostenere in un articolo su “la Repubblica” che spesso di una poesia basta un verso solo (“il nucleo”) per affascinare i lettori e rendere quella poesia memorabile (“come mi batte forte il tuo cuore” della Szymborska).

Quando sulla versione online del quotidiano inglese “Independent” troviamo “i venti versi più emozionanti che siano mai stati scritti”, ovviamente tratti da venti poesie diverse, più che a un’antologia ci troviamo di fronte a una pubblicità turistica per l’estetica della fretta.

L’intero, la struttura, la durata, la coerenza interna (cioè i valori che quelli della mia generazione attribuivano ai classici) sembrano ormai vecchiumi da mettere in soffitta: all’enfasi del frammento corrisponde, nella narrativa, il fenomeno della sparizione dei finali – le serie televisive spesso finiscono quando finiscono i soldi del produttore o (se ci sono) i finali sembrano deludenti agli stessi fan.

Chi insegna nelle scuole di scrittura creativa testimonia che i giovani hanno sempre più difficoltà a trovare i finali. La narrativa oscilla tra due estremi: o testi che cercano i vertici, i punti forti, le scene madri trascurando il resto, o testi arresi a quel che Calvino chiamava “il mare dell’oggettività”».

Il testo letterario spezzettato

Lo stesso accade per i testi letterari, a furia di spezzettarli, riusarli e riciclarli; è come se i testi, rinunciando alla coerenza tra i livelli e all’indivisibilità strutturale, rinunciassero a essere responsabili di se stessi – mostrandosi eternamente “aperti”, continuamente nomadi in una connessione orizzontale sempre più veloce, puntando più alla fascinazione momentanea che alle conseguenze culturali  delle proprie scelte formali.

Ma le forme si vendicano e mentre si sottraggono alla continuità col passato ci dicono comunque qualcosa sul presente. L’attuale vittoria del frammento, quindi, sembra disabilitare la nostra capacità di ribellione, sostituendola con un esercizio riflessivo-consolatorio che si muove senza il filo conduttore di quella trazione – e tensione – che rimanda le opere una all’altra come specifica Siti:

C’è un fenomeno, a esser pignoli, per cui anche nel mondo digitale si può parlare di un sopra e di un sotto, e quindi è prevista una specie di profondità: lo verifichiamo ogni giorno quando maneggiando uno smart-phone, o qualunque altro apparato tecnologico, ci accorgiamo che a una estrema semplicità d’uso (basta un bottone da premere o un tasto da sfiorare) corrisponde una pazzesca complessità sottostante; la superficie è facile ma il motore è implicato in un groviglio di calcoli e macchine non visibile, incomprensibile alla maggior parte di noi.

Il sotto non ci appartiene, non lo conosciamo; a differenza dell’inconscio umano, però, questo “sottostante” appartiene a qualcuno che lo conosce benissimo perché lo ha inventato e lo mantiene in efficienza – è una complessità che dipende da algoritmi altrui, una complessità alienata.

Il ruolo dei social

Quando l’autorialità si fa social, assumendone le regole e le necessità, si mette seriamente a repentaglio, perché nella sostanza fluida in cui stiamo nuotando rischia di perdere il contatto con le proprie sorgenti. Dunque, chi è, oggi, l’intellettuale impegnato?

Il compito che il nuovo impegno si pone è invece più semplice e concreto: aiutarci a vivere, favorire il nostro adattamento alle mutazioni e/o farci sentire nel giusto, dalla parte degli emarginati e dei sofferenti: è, come scrive a un certo punto Gefen con sintesi fulminante, “una macchina per fabbricare rassicurazione”.

È uno stimolo e un conforto per gli esseri fragili che siamo diventati di fronte alle crisi, ma insieme è uno slancio di solidarietà verso i più fragili di noi. Abbracciamoci, stringiamoci in questo periodo di resistenza emergenziale, facciamo della letteratura un’arma e un appoggio.

Se Kafka pensava che la letteratura fosse “il salario del Diavolo”, sostiene ancora Siti, ora il Male (da qualunque parte provenga: discriminazioni, epidemie, criminalità, terremoti, fascismi, polluzione industriale, autolesionismi privati) è il nemico contro cui la letteratura deve combattere.

L’interezza come anima dell’opera d’arte

La riproduzione della letteratura non è un problema, anche perché il formato digitale ne garantisce la neo-conservazione, che secondo alcuni è fragile, mentre secondo altri è indistruttibile, in quanto capillarmente pervasiva.

Ma se l’opera d’arte – come un quadro – messa in Rete resta integrale, salvo i feticismi del particolare ingrandito, l’opera d’arte letteraria che viene smembrata (o, peggio, nebulizzata) in serie di citazioni decontestualizzate e iper-riproducibili, fatte per alimentare la suggestione istantanea in vitro, perdendo la sua totalità perde l’identità.

«È l’interezza l’anima segreta di un testo, e dunque le parole non sono più le stesse se vengono assunte in pillole», scrive Siti. Per concludere: nel nuovo ecosistema, la frammentazione della letteratura – imposta dalle regole e necessità di cui si parlava – per poter “arrivare” a tutti va ad abolire l’integrità dell’intero, soppiantandola con l’aggregabilità delle parti.

Ma questo sarà sufficiente per costruire complessità?

 

Paolo Ferrucci

I deliri e l’ignoranza di Don Roberto Saviano

Roberto Saviano torna nuovamente a far parlare di sé. In occasione del 79° Festival del Cinema di Venezia, ha pronunciato parole che stanno facendo molto discutere:” La cocaina andrebbe legalizzata, solo così si bloccherebbero i pozzi di petrolio delle organizzazioni criminali. La cocaina regna perché la vita è una merda, che ti fa sentire troppo brutto, troppo povero, troppo grasso. Se io le dessi ora un sacchetto di cocaina (ha detto Saviano rivolgendosi al giornalista), lei la venderebbe prima ancora di lasciare il Palazzo del Cinema”.

Mentre in Italia si dibatte da anni se legalizzare la cannabis, Saviano si spinge oltre, proponendo la liberalizzazione della cocaina per contrastare il mercato nero e il business delle organizzazioni criminali. Addirittura, secondo alcuni malpensanti, Saviano avrebbe adoperato queste pericolose esternazioni, che meritano di essere decostruite da cima a fondo, per pubblicizzare ZeroZeroZero, serie Tv tratta da un suo romanzo.

Chiariamoci, la cocaina non va assolutamente legalizzata. A Roberto Saviano che crede che così facendo si sottrarrebbe il mercato alle mafie, rispondiamo ripercorrendo il pensiero di Paolo Borsellino.

Anche se, per usare le parole di Nicola Gratteri: “Non esiste attività lecita o illecita più redditizia del traffico di cocaina”, non si può fare un’equazione tra mafia e traffico di sostanze stupefacenti, perché la mafia esisteva anche prima di questo traffico e, anche se lo Stato riuscisse teoricamente a sottrarre alla criminalità tutto il mercato della cocaina legalizzandola, le mafie non ne uscirebbero sconfitte poiché riconvertirebbero i loro già innumerevoli guadagni in altri settori.

Ma ancora, più realisticamente bisogna ammettere che legalizzando la cocaina non si eliminerebbe affatto il mercato clandestino, perché le categorie più deboli e meno protette, come i minori che non potrebbero accedervi, sarebbero le prime a rifornirsi sul mercato nero, assieme probabilmente alla maggioranza della domanda per ragioni di prezzo.

È terribile da pensare, ma non è sicuro che uno Stato democratico, in cui all’efficienza si preferisce il pluralismo, riesca a sottrarre l’intero mercato ad un’organizzazione non democratica, gerarchizzata, razionale ed estremamente efficiente come la ‘Ndrangheta che già opera a pieno regime, importando dalla Colombia gran parte della cocaina che si vende sul mercato nero. Non è sul terreno dell’illegalità che lo Stato deve rincorrere le mafie per sconfiggerle.

Inoltre, potrebbe essere conveniente ma non giusto moralmente che lo Stato si arricchisca tassando e lucrando su qualcosa che nuoce alla salute e crea dipendenza nei cittadini, in una illogica-logica che vedrebbe innalzarsi vertiginosamente le spese sanitarie per finanziare percorsi di recupero, creando una piega sociale come già accaduto con il gioco d’azzardo.

Legalizzare la cocaina vorrebbe dire diminuire la disapprovazione sociale che il suo consumo comporta riducendo la percezione del rischio, ciò ne farebbe aumentare la domanda. Una società in cui attraverso la legge si incentiverebbe l’utilizzo della cocaina per rincorrere i frenetici ritmi della vita post-moderna e per gestire le relazioni sociali, sarebbe una società intrinsecamente malata, depressa e psicotica, in cui la devianza diventerebbe la normalità.

Caro Roberto Saviano, la vita non è solo una merda che ti fa sentire troppo brutto, troppo povero o troppo grasso, fino a quando si ha la lucida capacità di autodeterminarsi; lo spaccio della droga è una piaga da non incentivare che lo Stato deve sconfiggere, non un terreno sul quale rincorrere e competere con le organizzazioni criminali.

Cari lettori, sceglietevi degli intellettuali che vi mostrino e vi educhino alla bellezza, non alla degenerazione.

 

Matteo Cosco

L’appellite e la difesa della storia che più fa comodo degli intellettualoidi di Repubblica

Fossimo semi-colti come loro citeremmo il Friedrich Nietzsche autore di Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Invece ci limiteremo a parafrasare il drammaturgo tedesco Hanns Johst: «ogni volta che sento la parola appello metto mano alla pistola». L’appellite, la vocazione alla firma di proclami, tanto diffusa che negli anni sessanta e settanta del secolo scorso produsse spesso infiammazioni ai tendini della mano, dopo qualche anno di sonno è tornata in gran voga, non casualmente a partire dal 4 marzo dello scorso anno. Non c’è azione, soprattutto se dell’attuale governo, che ormai non sia accompagnata dall’appello, sempre inevitabilmente «morale» del «mondo della cultura» (pure a loro ormai fa ridere il termine intellettuale).

La compagnia di giro, come nelle migliori tradizioni circensi, è sempre la stessa, e più o meno coincide con il vasto e ben retribuito parco editorialisti di «Repubblica», che poi questi appelli diffonde: da Roberto Saviano a Massimo Recalcati, da Michela Marzano a Michele Serra, da Alberto Asor a Benedetta Tobagi, più qualche senatore a vita, che non guasta mai: il più gettonato è sempre l’archistar Renzo Piano. Le argomentazioni e i «concetti» sono sempre i medesimi, che si parli di immigrazione o di Unione europea, di legalità o di scuola: basta solo combinarli in maniera diversa. Si tratta in genere di dichiarazioni tanto infiammate quanto vaghe, che poco hanno da proporre di concreto, anche perché spesso rivelano una conoscenza superficiale di ciò di cui si parla. Quel che conta è la «denuncia», sempre a senso unico, e l’effetto polverone.

E proprio sulla scuola e sulla storia punta l’ultima lacrimevole chiamata alle armi, lanciata dalla senatrice a vita, Liliana Segre, e subito raccolta dai Nostri. Salvate la storia! La storia è importante, per non dimenticare! Cosa sarà successo? il governo vuole forse requisire e bruciare in piazza i libri e i manuali di storia, scritti nel 95% dei casi da autori di sinistra? Vuole forse cambiare i nomi delle vie, e chiamare «viale Palmiro Togliatti» a Roma «corso Gianfranco Miglio»? Niente di tutto ciò. Il ministro dell’Istruzione, Bussetti, ha semplicemente recepito l’indicazione di una commissione nominata dal suo predecessore, Valeria Fedeli (Pd e Cgil, a meno di un caso di omonimia), che suggeriva di eliminare il tema di storia alla maturità, per varie ragioni, a cominciare dal numero esiguo di studenti che la sceglieva. Oggi Bussetti in una lettera a «Repubblica» ha rassicurato che la storia alla maturità sarà presente, diluita in più prove: ma non è servito a placare il giornale, che ha subito anteposto un fuoco di fila.

Che dire? Prima di tutto che forse andrebbe messo in soffitta tutto l’esame di maturità, una vecchia tradizione, nobile e austera, ma ormai in scarsa sintonia con le esigenze pedagogiche contemporanea. Poi che tanti decenni della prova di maturità di storia non hanno impedito agli studenti di sortire dalle superiori nella quasi completa ignoranza della disciplina: da docente universitario di storia contemporanea ho pieno titolo per confermarlo. E che, infine, contrariamente a quanto vogliono far credere gli appellanti repubblichini, l’eliminazione della prova di storia non coincide con la sua cancellazione nel piani di studio, cosa che sarebbe demenziale: anzi il ministro ha promesso di aumentarne il peso.

Ma tanto quel che annuncia il ministro, per il «mondo della cultura» vale poco perché Bussetti, in più leghista, è per definizione un appestato. Qualcuno che vuole «eliminare la storia» per favorire l’oscuro disegno reazionario, autoritario e fascista, di «cancellazione della memoria», e per servire all’avvento del nuovo Dux…Matteo Salvini. Per questo l’ultimo, ennesimo, appello, non è nient’altro che un’azione politica mascherata del solito mondo della sinistra, della Cgil, o perlomeno dei suoi vertici, dell’ANPI, e via danzando. Tutto legittimo, per carità, ma si lascino in pace la cultura, la storia e la memoria. Prima di tutto perché memoria e storia sono due universi profondamente diversi: ed è anzi proprio dei movimenti e dei regimi autoritari finire per confonderli.

E poi qual è la memoria che gli appellanti repubblichini vogliono tutelare? Quella dei soldati italiani caduti nella prima e nella seconda guerra mondiale? Quella delle foibe? Quella dei morti ammazzati dai partigiani comunisti? Quella dei milioni sterminati dai gulag? Non si direbbe, così a naso. Facile che la storia che vogliano difendere sia quella raccontata per decenni sulla base dell’egemonia (catto) comunista e resistenzialista. Che finiva sempre per invadere le tracce della maturità, alcuni delle quali gridavano vendetta per ignoranza, partigianeria e mala fede. La stessa che aleggia oggi nelle parole firmate da noti esperti di storia e di scuola, come Saviano, Piano, Recalcati e Serra.

Marco Gervasoni

Vogliono difendere solo la loro storia: quella “rossa”

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