I poeti liguri del ‘900: Sbarbaro, Barile e Montale

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che fece da cerniera tra la poesia classicheggiante della tradizione e il simbolismo francese, e Mario Novaro, autore di un solo libro di poesie (ricco di risonanze) e fondatore della rivista antologica più ricca del primo ‘900 “Riviera ligure”, furono indicati da Carlo Bo come poeti che avevano favorito il deciso rinnovamento della nuova poesia del ‘900.

Camillo Sbarbaro pubblicò nel 1914 la sua raccolta di poesie intitolata “Pianissimo”: anche per lui il riferimento culturale più evidente era il simbolismo francese, sul quale aveva innestato i temi che maggiormente gli stavano a cuore: l’assenza di certezze, lo scorrere del tempo, la città come solitudine, la natura come sola occasione di salvezza, il rifugio nei sentimenti familiari.

Per rappresentare tutti questi temi, la sua poesia era composta da una scrittura essenziale e disposta in strofe ampie e ben costruite e voleva verso un tono dimesso.

Esaminiamo il primo testo della raccolta pianissimo, “Taci”: qui il poeta impostava un dialogo intimo con la propria anima “stanca di godere / e di soffrire” e “rassegnata”, quindi sconfitta e piegata dalla misera realtà, senza “rimpianto per la miserabile / giovinezza”, senza speranza per il futuro e tuttavia in questa totale assenza di ragione per vivere, ancora “camminiamo io e te come sonnambuli” e quindi in assoluta estraneità a tutto ciò che è attorno e che non mi/ci appartiene, in una disperata mancanza di comunicabilità, senza che sia possibile stabilire un minimo e reale rapporto con cose e persone in quello che è dunque un ‘deserto’ di sentimenti e di passioni anche perché nessun ideale, nessun obiettivo da raggiungere si manifesta.

La stessa immagine dell’inutile vivere tornerà anche nella successiva poesia della raccolta.
L’affanno del vivere e la solitudine che condannava l’uomo moderno cittadino, erano i temi centrali della poesia di Sbarbaro: il solo conforto possibile era dato dagli affetti familiari.

Nei versi di Angelo Barile invece troviamo una visione profondamente religiosa, in cui i sentimenti di serena compartecipazione alla vita vincevano sulla solitudine e il dolore veniva inteso come preparazione alla felicità eterna.
Questa sua visione positiva è rappresentata nella poesia “Osteria della Bella Brezza”: viene utilizzato un tono molto cordiale e lo scenario è un borgo marinaro (minutamente descritto); tutto è all’insegna della concordia e della laboriosa armonia di un paese accomunato dalla fatica dell’andare per mare.

Barile trasmette al lettore lo stesso senso d’attesa dell’aldilà nella poesia “Lamento per la figlia del pescatore” : qui viene affrontato il tema doloroso della morte di una giovane; quella sventura sconvolgente viene mitigata della certezza che “ora canti sull’altra tua riva” e suo padre affida la sua sofferenza ad un semplice gesto di pescatore: “ha dipinto / le sue barche di un filo di lutto”, così che pensa sempre a sua figlia.
Con Barile ci troviamo davanti ad uno dei pochi poeti del ‘900 che ha una visione positiva della vita e della sua prosecuzione anche dopo la morte.

Da Sbarbaro a Montale, abbiamo una continuità segnata principalmente da due cose: dalla dedica di Montale del suo primo libro “Ossi di seppia”(opera rappresentativa di Montale, nella quale ritroviamo come paesaggio predominante quello ligure della riviera assolata e incolta, che rispecchia il sofferto mondo interiore dello stesso autore) a Sbarbaro, inoltre i due hanno in comune il motivo ispiratore della loro maggiore poesia: il male di vivere dell’uomo moderno che di giorno in giorno si scopre sempre più fragile e privo di certezze, mentre intorno avanza l’apparente progresso che lo soffoca.

Questo è in particolar modo il primo Montale che si dedicò al bel canto; aveva vissuto l’esperienza della guerra e si era dedicato sempre più alla poesia.

“Spesso il male di vivere ho incontrato”  si basa sul contrasto tra il male connaturato alla vita, rappresentato da tre metafore: il ruscello ostacolato dai detriti, la foglia arsa dal caldo e il cavallo stroncato dalla fatica; si basa anche sul bene apparente, rappresentato anch’esso da tre metafore: una statua nella canicola, una nuvola lontana e un falco che vola in alto.

In “Meriggiare pallido e assorto”  il poeta usando dei verbi all’infinito avverte il fastidio fisico procurato dal calore delle ore centrali della giornata e subisce una natura ostile e per nulla consolatrice, simbolo della condizione di solitudine dolorosa e di isolamento dell’uomo moderno, ribadita l’immagine finale della ‘muraglia’ (simbolo di separazione) sopra la quale ci sono dei ‘cocci aguzzi di bottiglia’ così nessuno può scavalcarla.

Montale manifesta la sua idea di poesia e si interroga sul suo ruolo e su ciò che la poesia può valere nel suo tempo e Montale perciò, facendo riferimento al concetto espresso da Palazzeschi nella conclusione della poesia “Lasciatemi divertire”, dice di non avere messaggi, ma ha solo la certezza di non poter offrire certezza.

Nella poesia successiva ad “Ossi di seppia” troviamo un Montale ‘diverso’ poiché si preoccuperà del mondo esterno, anche rispetto alla situazione della guerra; infatti Montale sarà interprete del grande dramma della Seconda Guerra Mondiale vissuto dall’umanità.

Nella raccolta “Le occasioni” passerà un messaggio meno immediato. Per esempio guardiamo “Casa dei doganieri” in cui il destino incerto dell’anonima donna protagonista renderà tutto indecifrabile tanto che non sarà possibile capire chi morirà veramente, chi è partito e chi è invece rimasto nel mondo ingannatore di ciò che appare vivo ed è invece retto da un ingovernabile destino.

Nel dopoguerra Montale si trasferisce a Milano e lavorerà per il “Corriere della sera”. Dopo scritte un terzo libro in cui raccolse tutte le poesie riguardanti la guerra. Per esempio “Primavera hitleriana” è una poesia ultimata nel 1946, ma suggerita dalla visita compiuta a Firenze nel 1938 da Hitler, accolto dalla popolazione con favore e comunque senza che nessuno assumesse posizioni critiche nei suoi confronti, tanto da risultare così indirettamente tutti complici poiché ‘più nessuno è incolpevole’.

Con quest’affermazione Montale volle significare che non solo il consenso ma anche l’indifferenza nei confronti del male è una forma di scelta e dunque nessuno può ritenere di non aver avuto responsabilità nell’aver favorito il nazifascismo e tutti coloro che non vi si opposero nei fatti furono dei ‘miti carnefici’.

La salvezza sarà portata da una donna-angelo che si sacrificherà per l’umanità portando “un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio”, mentre l’immagine iniziale che aveva accompagnato la visita di Hitler era quella delle falene impazzite attorno ai fanali che cadevano stordite per terra formando un tappeto.

Se il Montale maturo sarà interprete del grande trauma Seconda Guerra Mondiale, il vecchio Montale sarà interprete anche dei sentimenti più intimi e privati anche se troviamo sempre il tema riguardante il senso dell’indefinibile, la consapevolezza dell’assenza di certezze.

 

Fonte Academia.edu

‘Il peccato’ di Giovanni Boine: la necessità di peccare per immergersi nella Vita e arrivare alla purezza

Il peccato (1913) è il romanzo d’esordio dello scrittore italiano Giovanni Boine, morto di tisi a soli 30 anni, che tratta un amore peccaminoso nella provincia ligure: lui artista, lei novizia in procinto di prendere i voti. L’amore è visto da Boine come spaesamento, conflitto interiore, peccato.

Struttura e tematiche del Peccato

Micro-romanzo di formazione diviso in tre parti – «Il limbo», «La qualunque avventura», «Il tormento» -, Il peccato è il racconto del processo di umanizzazione del protagonista, B., intellettuale ventiseienne che, attraverso l’amore per una giovane novizia – il peccato appunto -, distrugge le catene dell’astrattezza, che lo tenevano legato, vincolato a una dimensione asettica, sterile, gelida, iperuranica dell’esistenza, e assume consistenza fisica, carnale, sanguigna, passionale, immergendosi finalmente nel tumulto della vita. Il peccato si configura così come una sorta di esortazione alla vita, ma la vita vera, disinquinata dalle categorie aristoteliche e dai tradizionali lacci morali, riportata alla sua dimensione originaria, primordiale e barbarica quasi, che affonda le radici, tra gli altri, nel Nietzsche più puro e autentico – non il Nietzsche ridicolo e semplicistico, dozzinale feticcio, di D’Annunzio -, in cui è possibile ravvisare numerose analogie con alcuni degli esiti filosofico-letterari più importanti dell’epoca, dalla Persuasione e la rettorica di Michelstaedter al Mio Carso di Slataper.

Oltre ai temi, ciò che colpisce leggendo Il peccato è il modo in cui essi sono espressi. La scrittura di Boine è un vero e proprio fenomeno letterario: franta, spaccata, lacerata, spericolatamente funambolica, riproduce con incisività le spaccature, le lacerazioni e le acrobazie interiori del soggetto, rinunciando a qualunque mediazione – la punteggiatura stessa viene spesso abolita – e imponendosi così come uno degli esiti migliori di quel fenomeno raro che è l’espressionismo letterario italiano.

Boine non ricerca il bello stile, non ricerca la pulizia, la compostezza, la placida fluidità, l’artificiosa scorrevolezza. Boine ricerca l’efficacia e lascia che la personalità del protagonista – la sua personalità, vista l’indiscutibile portata autobiografica del racconto – e la vita irrompano sulla pagina liberamente, inondandola e travolgendola.

L’alterità

All’inizio del Peccato Boine evidenzia subito lo stato di alterità – condizione tipica dell’artista nella modernità, da Baudelaire in poi, rappresentata con grande efficacia, restando sempre nell’ambito della letteratura italiana alternativa del primo Novecento, da Campana e Sbarbaro – in cui si trova il protagonista all’interno della piccola e gretta realtà paesana, nella quale è rientrato al termine degli studi universitari, senza un lavoro stabile, comodo «nell’agio noncurante e discreto di una famiglia di patrizi antichi». Del giovane B. la gente del paese ha «un certo diffidente rispetto come per uno che è d’altra razza che noi», i politicanti del consiglio comunale lo giudicano un «originale».

Né socialista né anti-socialista, oppure entrambe le cose, non prende parte alle conversazioni nei caffè, non gioca, non ha una donna: le «compagnie allegre», composte da quei «giovanotti che capiscon la vita e come si deve […] se la godono», lo hanno «in concetto tra di “prete” e babbeo». Per quanto riguarda le amicizie, B. si circonda di originali come lui, individui più o meno emarginati estranei alla beghina e angusta logica paesana: «ragazzi di diciassette diciotto anni senza un soldo, ragazzi di liceo smilzi a passeggio con sotto il braccio un libro; un giovane capitano di mare che chissà perché aveva piantato il mestiere d’un tratto, specie di matto solitario tutto il giorno a leggere libri […], tutto il giorno in un canto al sole a legger pallido, torvo i suoi libri in disparte…

B. se ne sta in disparte, «come non degnandosi», e per questo suo atteggiamento di distacco, d’indifferenza e per le sue amicizie originali è vittima della «grettezza maligna di una città di provincia e contrasti grotteschi».

In realtà il degnarsi non c’entra, il protagonista non è «di quelli che fanno i “puah!” schifiltosi ad ogni cosa fuori di regola»; partecipa alle questioni cittadine, ai dibattiti, si esprime attraverso i giornali, ma l’incomprensione dei concittadini – «ma con chi è? ma cos’è dunque lui per suo conto?» si domandano questi ultimi perplessi leggendolo, proclamando un giorno la sua fede socialista, il giorno dopo rinnegandola – lo porta alla conclusione «ch’era meglio star zitti in disparte.

Non c’era presa, non c’era glutine fra lui e questi altri d’intorno. E forse che in ultimo il torto era suo. Chi lo sa? Affondata così com’era nella sua torbidità elementare chissà che questa gente non avesse un suo più sicuro senso di vita, un suo fiuto a condurla diritta, che non lui maculato d’astratto e di poesie sebbene poi a parole sdegnasse la poesia e l’astratto».

Come tutti i giovani B. è «assoluto», agogna la perfezione, «ma le cose del mondo son di loro natura imperfette e perciò non andate d’accordo». L’«idealità» giovanile non è frutto dell’esperienza, ma «presa fatta e come artificialmente aggiunta sulla iniziale coscienza morale loro. Non ci son giunti vivendo, togliendo, aggiungendo, vivendo. Non l’han fatta in loro, l’han di colpo affermata». Per questo motivo, perché priva della prova fondamentale della vita, l’«idealità» dei giovani è astratta e inconcludente, nient’altro che un cliché. Essi «ipostatizzano l’istinto morale, ne traggon l’essenza assoluta e la fan metro del mondo». Vogliono l’eroismo e detestano qualunque forma di compromesso.

Peccare per giungere alla Vita

B. dice di odiare l’astrattezza, la poesia, esorta se stesso e gli altri a mescolarsi «alla vita degli uomini così come viene», «ma in verità gli piaceva il guardarla come da una specola alta dal mezzo di questo suo cenacolo […] di strambi scontenti e di giudicarla inattivo e da lontano invece che farla, viverla tormentosamente ogni giorno».

In questi passi, in questa aspra critica – e autocritica – della giovinezza è racchiuso il senso del racconto di Boine, il senso della vicenda del suo protagonista ovvero il passaggio, attraverso il peccato – definito tale perché definito e giudicato tale dalla morale pubblica, incatenata a vecchi e stantii pregiudizi che l’autore esorta a scardinare -, dalla «purità della morte» alla «purità della vita», l’emancipazione dall’astrattezza, dall’«idealità», l’uscita dal limbo in favore della vita, del fare la vita, vivendola «tormentosamente ogni giorno».

Dimostrazione di quanto l’astrattezza sia radicata in B., rappresentando la sua condizione esistenziale, è la scelta di tornare, terminati gli studi universitari, nella casa natale, che ama nel profondo, con tutto se stesso, e che rappresenta il rifugio ideale nel quale invecchiare tranquillamente, placidamente – invecchiare è il pensiero del protagonista ad appena ventisei anni, non gioire, non soffrire, non odiare, non temere, vivere insomma, ma invecchiare -, immerso nel silenzio, nel vuoto, nella sottile malinconia antica, decadente. Ma ecco che giunge l’«avventura», subdola, insinuante a stravolgere completamente i suoi piani:

«[…] amava la sua casa tranquilla, lo zittire dormiente della sua grande casa dove fin da bimbo era cresciuto su solitario (penombra per tutto, eco di vuoto, sottile odore di antico ed anche fuori, chiassuoli deserti nella calda quiete del sole); amava i suoi libri ordinati ed anche questo qualcosa di triste come un dolore sotterrato, affondato negli anni, nel pur placido e semplice viso della madre affettuosa. Amava starsene in pace qui e chissà? anche lui distillare pian piano qualche discreta dissertazione, qualche commentario alla maniera dei mistici tutto polposo, tutto buono di vita modestamente profonda e disperderlo anche lui come il nonno, qui, fra i testamenti e gli atti a far meditare e sognare qualche lontano nipote…

La conoscenza di Suor Maria

B. riesce finalmente a conoscere Suor Maria, alta, «gli occhi nel viso ovale grandi, maravigliati neri, ridenti». I due parlano, mentre addobbano l’altare con fiori freschi, odorosi, il parroco accaldato assopito in un angolo, ed è come se si conoscessero da un pezzo. La donna racconta di sé: è in convento da tre anni, ne ha ventuno ed è novizia da un anno; vi è entrata dopo la morte del padre – non le resta che una zia, badessa nell’Ordine, che l’ha convinta a farsi suora.

Durante il racconto della donna è «come se quel che di stilizzato disumano e lontano ch’è in una figura ammantata dall’abito sacro, si disciogliesse pian piano, si rimpolpasse di buona vita vicina, si rifacesse comprensibile e vivo». Della sua conoscenza con Suor Maria B. non parla con nessuno: «Fu, ch’egli, senza volere, s’era dentro creata come una nicchia di segreto romantico dove ci stava in un religioso ondeggiamento d’armonium una figura di giovane monaca da nessuno conosciuta e solo da lui».

Insomma, è come se la conoscenza della novizia, e la novizia stessa, fossero un frutto della sua immaginazione, una piacevolissima fantasia, o meglio, un piacevolissimo sogno nel quale rifugiarsi a occhi aperti, tra una riflessione e l’altra. Il narratore stesso sottolinea l’aspetto sognante, onirico dell’avventura: «la cosa, un po’ strana, gli pigliò dentro l’aspetto vago di un sogno a cui egli cedesse nel torpore della estiva calura». Tra i due giovani intanto si sviluppa una «curiosa amicizia», «amicizia tutta riguardose delicatezze quasi fanciullesche, fatta di cento cosette tollerate-proibite, ma infine ingenua ed onesta».

B. scivola così, giorno dopo giorno, in un perenne stato di ebbrezza in cui tutto vibra di vita, tutto vive, ogni singolo oggetto inanimato, morto, acquisendo un significato misterioso, come un geroglifico: «era come in una sconfinante ricchezza, come in un gorgogliante abbondare di sentimento su ad invadergli la netta intelligenza, a parlargli di vita gli oggetti e le più consuete cose». L’armonium di Suor Maria, ascoltato – precipitasse il mondo – quotidianamente, agisce sul protagonista come una droga, come hashish, come oppio, eccitandolo, fumigandogli la fantasia, mentre il mondo s’arricchisce, tripudia «abbondante e più vasto al di là della geometricità definita».

Il Peccato: due prese di coscienza

La prima parte del Peccato si conclude con la presa di coscienza, da parte di B. e della novizia, del sentimento profondo – troppo profondo -, passionale – troppo passionale, per entrambi, aspiranti asceti – sbocciatogli dentro, inesorabilmente, dopo un lento processo interiore lungo un intero anno, e l’ultima esecuzione di Suor Maria all’armonium risuona angosciante e disperata, lacerante come «un grido, un grido umano d’aiuto», seguito dal tonfo sordo dello sgabello rovesciato e dal rumore dei passi della donna «precipitosi in fuga». Qualcosa in entrambi si è strappato per sempre.

Boine cattura sulla pagina quel «vario tumultuare dell’universale vita», da lui percepito violentemente in tutta la sua caotica fluidità, che si allinea all’ampiezza disomogenea e totalizzante dello spirito. Quanto più la distinzione tra interno ed esterno si potenzia, tanto più i confini tra le due parti si assottigliano fino a scomparire nel risultato artistico: c’è nel suo mondo, che mostra sincronicamente «cento miliardi di variissime vite armonicamente viventi», anche il foglio stesso impiegato da Boine e la sua idea concepita nell’atto della scrittura. Il suo mondo è una ‘vallata chiusa’, come quella in cui si svolge la vicenda del signor B. e di Suor Maria, una cavità in cui gli echi interiori e quelli della realtà si intrecciano sonoramente: «la mia vita è amalgama, è pienezza aggrovigliata e commossa di pensiero e d’immagine».

Allo scrittore non interessa raccontare una storia, ma denunciare il dramma della sua anima, colma di contrasti insanabili. La necessità di compiere il peccato, per immergersi nella vita, è denunciata alla quarta pagina del romanzo, quando ancora la storia non è iniziata e lo scrittore è impegnato a presentare la scenografia: i giovani, dice, «non sanno il peccato: hanno la purità della morte, non la purità della vita».Boine è consapevole che arriva alla «purità sostanziosa» soltanto chi ha molto peccato: fare, vivere, salire, provarsi e risolversi – «dobbiamo fare»– rappresentano le tappe di un percorso evolutivo che è negato a chi non si concede di affondare le mani nel fango della vita e decide di permanere nel ‘limbo’ della realtà, vergine e reso forte dalle illusorie sicurezze che consentono una severità giudicante.

Giovanni Boine, «Il peccato»: dalla «purità della morte» alla «purità della vita». Introduzione e prima parte

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