A Strasburgo non sanno cosa sia la mafia

La misura dell’ergastolo ostativo resta uno strumento giuridico di fondamentale importanza nella lotta alla mafia, ma a Strasburgo nessuno pare essersene reso conto.

La Corte europea dei diritti dell’uomo rendendo definitiva la sentenza emessa lo scorso 13 giugno che ha ritenuto incompatibile con i diritti fondamentali dell’uomo l’istituto italiano dell’ergastolo ostativo, ha sancito un principio sacrosanto. L’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario italiano è in contrasto con l’articolo 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo che vieta il trattamento inumano e degradante dei carcerati.

E allora il problema qual è? Il problema è che mai come in Italia la giurisprudenza che si è occupata di mafia è diventata romanzo. E il romanzo ha una sua specificità che non lo accomuna a nessun altro tipo di letteratura. Sia chiaro: non si sta evocando neanche lontanamente una suggestione romantica della vita malavitosa, qui parliamo di una delle piaghe umane più orribili e putrescenti che abbiano mai colpito una popolazione.

Il caso su cui la CEDU si è pronunciata è quello di Marcello Viola, in carcere dall’inizio degli anni ’90 per associazione mafiosa, omicidio, rapimento e detenzione d’armi. L’uomo si è finora dichiarato innocente e si è di conseguenza rifiutato di collaborare con la giustizia. Considerato che i condannati per uno dei delitti elencati all’interno dell’art. 4-bis o.p. (tra i quali è menzionato quello di associazione di tipo mafioso) possono accedere ai benefici penitenziari solo laddove collaborino con la giustizia, i giudici gli hanno rifiutato i due permessi premio richiesti e la libertà condizionale.

Nella sentenza la Corte di Strasburgo contesta allo Stato italiano di non poter imporre il carcere a vita ai condannati solo sulla base della loro decisione di non collaborare con la giustizia, perché questa scelta potrebbe essere anche ingenerata da motivi diversi dal perdurante legame mafioso, come la paura per l’incolumità personale o dei propri familiari.

I giudici di Strasburgo sono pienamente consapevoli delle peculiarità del fenomeno mafioso? Come ebbe a dire il giudice Giovanni Falcone prima di cadere sotto la scure delle organizzazioni criminali: «Diventare membro della mafia è equivalente a convertirsi a una religione. Non si smette mai di essere un prete, né di essere mafioso».

La letteratura giuridica italiana annovera numerosissimi trattati sulla genesi del fenomeno e sulle sue irripetibili regole interne. Ad esempio, Letizia Paoli criminologa e docente presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Leuven,nel saggio intitolato “Il contratto di status nelle associazioni mafiose” definisce con estrema chiarezza il valore dell’affiliazione: «Con l’ingresso in una famiglia mafiosa, il nuovo membro sottoscrive un patto per la vita, quello che [Max] Weber definisce un contratto di status».

Ed è qui che si evince l’importanza del collaboratore di giustizia, uno status giuridico che è servito a identificare il fenomeno mafioso e in parte a scardinarlo dall’interno. Una figura che ha consentito una lettura approfondita delle mafie e ha permesso di tradurre le altre fonti di prova, acquisite proprio in forza della collaborazione di tali soggetti. L’unica carta che lo Stato italiano ha fino ad ora potuto giocare contro le organizzazioni criminali. Come potremmo privarcene?

La singolarità che caratterizza il tessuto sociale italiano e di cui non andiamo certo fieri ha permesso la nascita di un modello criminale il cui successo dura ininterrottamente da duecento anni e che coinvolge indiscriminatamente il Nord e il Sud del Paese – e chi nel 2019 si ostina a dire il contrario contribuisce a innalzare un ostacolo alla comprensione delle mafie.

Quando si parla di mafia, in Italia, il limite tra il diritto del singolo e la sicurezza pubblica è evanescente. Ora aspettiamo l’intervento della nostra Corte Costituzionale sulle norme censurate dalla Cedu che avverrà il 22 ottobre prossimo. Intanto, per comprendere le contraddizioni italiane, consigliamo ai giudici di Strasburgo di leggere un po’ meno i codici e un po’ di più Leonardo Sciascia.

 

Roberta Errico

Aldo Moro e la rappresentazione della storia, dai film che rimandano ad una iconografia stereotipata al romanzo di Vasta che racconta la storia come materia

Aldo Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto-

La rappresentazione della storia da parte del cinema è spesso fondata su un immaginario autoreferenziale, i film si citano a vicenda, o rimandano a fonti audiovisive di tipo documentario, a fotografie, a dipinti, elementi visibili. Questo succede per ogni periodo storico ma nessun decennio come gli anni Settanta risente di un’iconografia standardizzata che spesso diventa stereotipo, luogo comune, banalità.
C’è un evento però, negli anni Settanta, il cui percorso iconografico è stato completamente diverso: questo evento è il caso Moro. E il racconto cinematografico dei 55 giorni, più che alle fonti visive, deve il suo canone narrativo alla letteratura, una letteratura che fino alla pubblicazione del romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, non ha mai osato discostarsi dal solco tracciato da due giganti tanti anni fa. Dal 1978, per essere precisi.

Le cose stanno così: 16 marzo 1978. Aldo Moro, presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, viene “prelevato” – uccisi i cinque uomini che lo scortavano – da una banda che si presume delle Brigate rosse. Un’ora dopo, le confederazioni sindacali proclamano lo sciopero generale. Prima di sera, il governo presieduto dall’onorevole Andreotti, su cui fino al giorno prima si manifestavano perplessità e riserve da parte delle sinistre e di alcuni gruppi della Democrazia Cristiana, viene approvato, da una maggioranza che comprende anche i comunisti, alla Camera dei deputati e al Senato. In via Licinio Calvo, a un centinaio di metri da via Fani dove il “prelevamento” è avvenuto, la polizia trova un delle automobili di cui si sono serviti i terroristi.
Le parole all’origine di tutto: «Uno dei racconti più straordinari che Borges abbia scritto è quello che, nelle Ficciones, s’intitola Pierre Menard, autore del Chisciotte. Come tutte le cose che sembrano assolutamente fantastiche, di pura astrazione e misteriose, questo racconto parte da un dato reale, da un fatto, da un preciso avvenimento che quello che si usa denominare il mondo occidentale ha, se non conosciuto, respirato. Quest’avvenimento è la pubblicazione, nel 1905, della Vida de Don Quijote y Sancho di Miguel de Unamuno… Da quel momento non è stato più possibile leggere il Don Chisciotte come Cervantes l’aveva scritto: l’interpretazione unamuniana che sembrava trasparente come un cristallo rispetto all’opera di Cervantes, era in effetti uno specchio: di Unamuno, del tempo di Unamuno, del sentimento di Unamuno».

Così inizia L’affaire Moro, di Leonardo Sciascia. Sono passati pochi mesi dal 17 marzo del 1978 e il ragionamento dello scrittore di Racalmuto è trasparente come un cristallo se messo in relazione all’oscuro dispiegarsi degli eventi che ha portato Aldo Moro alla morte. Sciascia disegna, da quel momento, un canone, e ogni lettura dell’evento e il Moro che per anni abbiamo visto raccontare è il Moro di Sciascia, del tempo di Sciascia, del sentimento di Sciascia.
Ma neppure quella di Sciascia è un’interpretazione originale. La sua lettura di Moro si rifà, in modo esplicito, a quella di Pier Paolo Pasolini che, il 1 febbario 1975, aveva scritto su Il Corriere della Sera: «Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. (…) Nella fase di transizione – ossia durante la scomparsa delle lucciole – gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal ‘69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere».

È Pasolini che crea l’icona, inventa il personaggio che poi le Brigate Rosse rendono protagonista della loro mise en scene e che Sciascia racconta. Il Moro che rapiscono le BR, infatti, non è uno dei tanti politici della Democrazia Cristiana, ma proprio quello descritto su Il Corriere della Sera: il «meno implicato di tutti nelle cose orribili» che, da Piazza Fontana portano a Piazza della Loggia, hanno segnato i primi anni Settanta; il «più responsabile di tutti» perché, malgrado l’orrore, è rimasto lì dove è a conservare il potere inteso non come pratica ma come sistema. Moro, fin dall’articolo di Pasolini è un’idea, e avendo orecchiato Hegel i brigatisti sanno che l’unico modo per superare l’idea è renderla concreta, mangiarla, come aveva cantato Giorgio Gaber nel 1973. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione. Moro idea, Moro icona, Moro astratta ma concretissima incarnazione del SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali.

Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto.
Sciascia è il primo a svelare il corto circuito ermeneutico che ha trasformato un uomo in un simbolo, in una vittima sacrificale, e così facendo ci invita a mettere in discussione la lettura di Pasolini senza mai dirlo esplicitamente. Dirà Sciascia altrove «Sono sempre d’accordo con Pasolini anche quando sbaglia». Ecco L’affaire Moro, pur partendo dalla riflessione di Pasolini, portandone all’estremo il ragionamento, quello sulla simbologia del potere incarnata da Moro e la sua lingua, ne svela il meccanismo retorico e invita a guardare all’uomo, in carne e ossa, così fragile, vulnerabile, minuto, da finire acciambellato in un portabagagli, come ha scritto Mario Luzi:

Acciambellato in quella sconcia stiva,
crivellato da quei colpi,
è lui, il capo di cinque governi,
punto fisso o stratega di almeno dieci altri,
la mente fina, il maestro
sottile
di metodica pazienza, esempio
vero di essa
anche spiritualmente: lui

Dopo L’Affaire Moro, quindi a partire dal 1978, ogni racconto per immagini della figura del politico democristiano ha oscillato fra Pasolini e Sciascia. Lo ha fatto Il caso Moro del 1986 nel quale il problema della lingua è stato messo a nudo in frammenti come quello dell’interrogatorio. Lo ha fatto Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, il più didascalico, fra tutti i film, che con l’interpretazione di Gifuni ha reso omaggio, senza alcuna originalità, al Moro icona, prima che uomo. Lo ha fatto, anche Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, l’unico che ha cercato di andare l’oltre l’evento, proiettando sull’affaire lo sguardo di una generazione, la sua, che dall’uccisione di Moro si è sentita, per prima, e in prima persona plurale, tradita.

Se il cinema è stato debitore in modo così esplicito della lettura di Sciascia tanto più lo è stata la letteratura, il cui immaginario, come ha scritto Raffaele Donnarumma ha «patito in modo particolare la storia», questa storia. Rari, però, i casi nei quali, riuscendo ad alzare lo sguardo, il narratore ha riletto secondo il suo tempo il caso Moro: Bellocchio, appunto, e poi Giorgio Vasta che con Il tempo materiale ha dato un nuovo senso pubblico alla storia di Aldo Moro. Quello che uno storico dovrebbe aspettarsi dall’uso pubblico della “sua” disciplina non è tanto la riproposizione dei fatti, dei punti di vista, della tradizione, storiografica o letteraria che sia, ma una chiave di lettura che traduca un evento del passato in qualcosa che risuoni nelle coscienze dei contemporanei.

A prescindere dall’esattezza, dalla filologia, dalla logica interna dei fatti, che non competete alla finzione. Come ha fatto in modo esemplare Jonathan Safran Foer con Ogni cosa è illuminata rispetto al racconto della Shoah che ha completamente reinventato.
Vasta, a distanza di 30 anni, ha messo in luce il sintomo, la lingua, per parlare della patologia, la storia. Scrive Vasta: «In questo momento l’Italia è percorsa dal contagio. Vuole essere percorsa dal contagio. Prova piacere ma non può ammetterlo. Perché non si può provare piacere davanti alla violenza e alla crisi. Non è decente. (…) L’Italia finge di desiderare il calore mentre non può rinunciare al tiepido. È dal 16 marzo che pretende di vivere con quaranta di febbre, solo che con quaranta di febbre non si vive. L’incandescenza è un gioco. L’eccitazione civile, lo scuotimento etico, sono funzioni. L’indignazione si è subito istituzionalizzata; si è istituzionalizzata la paura».

L’ha fatto attraverso le vite di tre ragazzini, l’ha fatto in una Palermo onirica ma allo stesso tempo realissima, dove i nomi delle vie, viale delle Magnolie, via Sciuti, villa Sperlinga, la connotazione borghese degli ambienti sono elementi vividi come se illuminati da una lampada al neon, o dal riflettore di una ripresa cinematografica.
L’ha fatto ribadendo, a suo modo, la questione del linguaggio, la stessa indicata da Pasolini, ripresa da Sciascia, che Vasta rielabora e non declina ai tempi di oggi.

«Mi torna in mente la maestra che quasi un anno fa, durante gli esami, ironica e realistica mi avevo detto che sono mitopoietico, quanto ero stato contento di scoprire che cosa voleva dire, quale piacere può dare muoversi dentro le parole, passare il tempo nel linguaggio. Andarsene via costruendo frasi, isolarsi. Perché la conseguenza del nostro modo di esprimerci- il tono sommesso, il volume basso, ogni parola piatta, ritagliata, calma eppure sediziosa – è che i nostri compagni di classe non ci riconoscono».

Marco Belpoliti ha scritto, in relazione all’uso della Polaroid nel rapimento Moro «I terroristi italiani vogliono riprodurre, con un metodo del tutto simile a quello agito su di loro da poliziotti e magistrati, la realtà stessa. Si tratta di una forma di “realismo traumatico”, in cui la messa in scena del sequestro, il rito della foto segnaletica, più ancora del comunicato o della propaganda scritta, diventa un elemento iperrealistico. Vogliono sottomettere il reale».
Vasta non scatta una polaroid sul 1978. Non vuole sottomettere il reale, ma rivelarne l’assoluta attualità, rendendo utile il racconto, militante, quanto lo è ogni racconto della storia nel quale il punto di vista è dichiarato, e non nascosto. Scrive Walter Siti: «C’è evidentemente un’esigenza metastorica in chi si dedica al folle compito di dare senso al mondo con le parole: l’esigenza è quella di giocare col fuoco, o se si vuole a nascondino con la realtà – stuzzicandola per trarne scintille che la realtà non sa nemmeno di avere, copiandola per negarla, cercando di sfuggire alla sua insensatezza ma nella convinzione che non ci sia senso senza mondo, come la colomba si illude se pensa di volare più veloce senza la resistenza dell’aria».
Vasta ha giocato col fuoco indicando una chiave di racconto possibile, riportando al cuore della narrativa la storia, non come sequenza di fatti e di date, ma materia (possibile) di cui son fatti i racconti. Riportandoci un luogo della memoria della storia del 900. Raccontando l’Aldo Moro di Vasta, del tempo di Vasta, del sentimento di Vasta.

Nicola Gratteri, “La malapianta”

Nicola Gratteri

La forza della mafia è direttamente proporzionale alla fragilità e all’incapacità delle istituzioni; questo  lapidario concetto emerge dalla lettura del libro- conversazione con Antonio Nicaso (tra i massimi esperti di ‘Ndrangheta al mondo e storico delle organizzazioni criminali), “La malapianta” del magistrato calabrese antimafia Nicola Gratteri (Gerace, 22 luglio 1958).

Tra i magistrati più conosciuti della DDA, Gratteri è   in prima linea nella dura lotta alla ‘Ndrangheta, la criminalità organizzata calabrese, e per questo vive sotto scorta dal 1989; nel 2009 è stato nominato procuratore aggiunto della Repubblica. Solo un mese fa, per il nuovo Governo Renzi, si  era fatto con  una certa  insistenza il suo nome per la carica di Ministro della Giustizia che però alla fine è stata affidata ad Andrea Orlando.

Già con “Fratelli di sangue”  e “La mafia fa schifo”, Gratteri aveva dato prova di particolare cura e meticolosità per quanto riguarda l’aspetto storico-geografico della criminalità organizzata calabrese, una vera e propria mappa antropologica che scava dentro l’animo e la mentalità dei mafiosi; ne “La malapianta”il magistrato prosegue  la sua indagine su questo fenomeno fondato su  liturgie, alleanze di potere, rapporti massonici, religiosità, onore, codici “morali” ma concentrandosi soprattutto sulla portata internazionale della ‘Ndrangheta e sul  rapporto perverso che intercorre tra  quest’ultima e la politica corrotta.

Gratteri approfondisce la sua inchiesta partendo da un’amara constatazione: la mafia è l’organizzazione più potente al mondo grazie al suo  poderoso controllo su quasi tutta la cocaina d’Europa, e prosegue razionalmente e analiticamente fornendoci dati impressionanti come si legge nella sinossi del libro: la ‘Ndrangheta fattura annualmente  44 miliardi di euro, il 2,9% del prodotto interno lordo. Il “core business” è rappresentato dal traffico di droga : un ricavo di 27.240 milioni di euro all’anno, il 55% in più rispetto al ricavo annuo della Finmeccanica, il gigante dell’industria italiana. A questa spettacolare espansione fa da triste  contraltare il degrado sociale e ambientale della Calabria, prigioniera di una criminalità che la opprime, ne sfrutta famelicamente ogni risorsa e poi l’abbandona impietosamente al suo destino. La crescita e la fortuna di questa malapianta viene raccontata attraverso temi ed eventi cruciali: dalle lontane origini alla stagione dei sequestri di persona, all’espansione sul territorio italiano e all’estero; dalle collusioni con la politica alla conquista della leadership nel traffico di droga, alle vicende dei rifiuti tossici.

La famiglia e soprattutto le donne che fomentano la collera dei loro uomini  rappresentano la scorza durissima dell’organizzazione criminale calabrese, di questa malapianta resa fertile negli anni dalle purtroppo famose e lontane stagioni di sequestri di persona, dalla capillare espansione in Italia e all’estero (non a caso i mafiosi si definiscono degli “imprenditori”), di infiltrazioni negli appalti, e ovviamente di collusioni con la politica, considerata purtroppo una mafia istituzionale, l’altra faccia della “piovra”.

fratelli di sangue

Momento cruciale  è stato senza dubbio la strage di Duisburg, la ‘Ndrangheta ha attirato su di sè i riflettori di tutto il mondo, alla domanda di Gratteri su chi avesse deciso che bisognava smetterla con quella faida che si era protratta sino in Germania, Nicaso risponde: <<Dopo la strage i boss più importanti della ‘Ndrangheta si sono riuniti a Polsi, in occasione della festa della Madonna della Montagna. Da un’indagine a Seminara, siamo venuti a sapere della presenza a Polsi, in qualità di pacieri, delle famgle Alvaro e Gioffrè. Da sms inviati da persone oggetto di indagini a San Luca abbiamo avuto conferma della pace che era stata siglata dai clan coinvolti nella faida.Gente che prima aveva paura di mettere il naso fuori dall’uscio ha cominciato a farsi vedere in giro, senza timore di essere ammazzato>>.

L’ aspetto che  più di tutti  colpisce e scuote le nostre coscienze, a parte, naturalmente, quello umano e  personale  del grande magistrato quando si racconta alla giornalista Paola Ciccioli, è la citazione letteraria con cui Gratteri spiega  cos’è la mafia, e che non deve essere combattuta, come sosteneva anche Sciascia, sulla scia dell’emotività, quando siamo davanti ad una tragedia e, a quel punto, non si può fare a meno di intervenire (la politica ha fatto questo).  Ne riportiamo un passo:

La ‘Ndrangheta raccoglie in sè la religione della famiglia, espressa chiaramente ne “I Malavoglia” di Verga, che è sempre stata al centro del modo di essere del calabrese, come del siciliano. Ciò che conta è il legame di sangue, il senso del clan familiare. Come ha scritto Silvia di Lorenzo, “lo Stato è un padre nemico e castrato, di fronte alla Madre.mafia fallica e onnipotente, i cui figli non riconoscono il diritto, ma il legame di sangue, non la legge paterna, impersonale e uguale per tutti, ma la fedeltà di stampo materno […].”

E in Italia i diritti sono stati trasformati in favori , sistema che ci contraddistingue dalla società mitteleuropea..tutto torna, purtroppo.

Nicola Gratteri combatte ogni giorno questa guerra, tra miti da sfatare,uno su tutti il famigerato codice d’onore che vuole che bambini e donne siano intoccabili, (ma la mafia non guarda in faccia a nessuno, in realtà) e clientelismo, non ha mai voluto lasciare la sua terra, e in questo libro è riuscito a trovare parole di speranza e di amore per la parte onesta e bella della sua terra. L’uomo che al telefono invece di rispondere “Pronto?” risponde “Chi è?”, e questo la dice lunga sulla sua storia personale, che ha sempre odiato i prepotenti, che non si è mai pentito della sua scelta, afferma con fermezza la necessità di lottare contro questo fenomeno con forti mezzi: il carcere duro, la confisca dei beni, l’impegno delle istituzioni, la riapertura dei penitenziari sulle isole di Pianosa, Favignana, l’Asinara, Gorgona, chiusi dopo le stragi di Palermo, migliorare l’attuale legislazione antimafia.

 

 

 

 

 

 

 

Il portale-rivista ‘900 letterario

Perché dedicare un sito di letteratura proprio al secolo del Novecento? Si potrebbe pensare alla vicinanza temporale, quindi,  ad un maggiore riconoscimento e conoscenza di questo periodo in quanto pone l’accento  sulla crisi esistenziale dell’uomo, ma sarebbe riduttivo. Specialmente il romanzo del Novecento rappresenta un genere totalmente nuovo, dove la parola d’ordine è sperimentazione atta a rappresentare al meglio la scissione, i tormenti, la sensibilità e le inquietudini dell’uomo moderno attraverso i vari personaggi-uomo dei romanzi che si definiscono in base alla loro mutevolezza, ai loro pensieri e sensazioni. E qui entra in gioco anche un altro importantissimo elemento, il tempo: i fatti non sono più raccontati secondo il loro ordine cronologico ma secondo il cosiddetto “flusso di coscienza” come direbbe James Joyce, ovvero quando si alternano continuamente presente e passato, ricordi, pensieri (secondo il francese Butor“il romanzo è una risposta ad una certa situazione della coscienza”). Nasce “Il tempo interiore”, “il monologo interiore”  tanto ambiguo e misterioso che coinvolge non solo i personaggi del romanzo ma la Storia stessa che si interseca con quella personale; è il tempo teorizzato dal filosofo Henry Bergson, dove gli istanti si dilatano o restringono a seconda della volontà del soggetto. Lo spazio non è più autonomo, la ragione del suo esistere è in funzione del personaggio che lo guarda, quindi anche dell’io-narrante che adotta la restrizione di campo: il lettore conosce i fatti solo attraverso le percezioni dei protagonisti.

Non si può prescindere naturalmente da un’analisi storico-culturale che da sempre ha influito sulla produzione letteraria, nel Novecento si raggiunge una maggiore consapevolezza dei limiti della scienza, e si fa molto affidamento alla psicologia, all’esplorazione della propria identità e la loro crisi, non a caso la maggior parte dei romanzi sono scritti in forma autobiografica, si pensi a Svevo, Pirandello, Mann, Kafka, Proust.

In questo senso, avendo parlato di sperimentazione, il Novecento è un secolo affascinante perché rischia di più, mette in discussione la tradizione e la parola per poi recuperarla, perché è sempre da li che si parte per innovare; per conferire alla letteratura una efficace valenza conoscitiva utilizzando il montaggio di un insieme di unità a scapito dell’azione che invece era fondamentale del romanzo dell’Ottocento.

I temi, già accennati, di questo secolo ci sono ben noti: l’inspiegabilità del male, il senso dell’assurdo e quello di colpa,lo smarrimento, acuiti dall’esperienza della guerra e che gli scrittori di questo periodo tentano di rendere universali come Italo Calvino. Le guerre e questi sentimenti ci sono sempre stati, spesso erroneamente, si crede che la letteratura muta perché mutano gli eventi  e le sensazioni ma in realtà cambia il modo di prendere coscienza di tali eventi e sentimenti, cambia il modo di rappresentarli, nel Novecento vi si imprime un afflato collettivo e un piglio sociale, impegnato, basta citare alcuni  intellettuali della prima metà del Novecento come Albert Camus, George Orwell, Ignazio Silone, Elio Vittorini. Negli anni Cinquanta si fa largo l’esigenza di evadere, di scappare dai vicoli del realismo verso una deformazione visionaria, ci riescono benissimo Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini. Negli anni Settanta prende forma la letteratura come strumento di indagine e di analisi critica, volta alla ricerca di un nuovo metodo; diventa poi una forma di spettacolo alla fine degli anni Settanta con George Perec ed Umberto Eco per una ridefinizione del racconto abbracciando la filosofia e la ricostruzione storica.

Si giunge al postmodernismo, di cui il maggior esponente è l’argentino Borges con le sue parodie e giochi tecnici per fare delle letteratura, ancora una volta, uno strumento conoscitivo; al modernismo di Pessoa e a scrittori internazionali che sono l’emblema del passaggio da una cultura all’altra come il praghese Kundera, francesizzato e il russo Nabokov, divenuto americano.

Di grande glamour risultano anche i romanzi gialli, molto popolari nelle loro diverse accezioni, dal thriller al noir, dal poliziesco al serial killer. Leonardo Sciascia che si è cimentato nel giallo, sull’esempio di Borges , disse che questo genere  non è altro che “l’avventura della ragione alla ricerca della verità”.

‘900 letterario non è solo una rivista, ma anche un portale che invita i propri visitatori alla scoperta e alla riscoperta dei romanzi più significativi ed importanti del Novecento, i cui protagonisti sono cosi intriganti perché sfuggono dalle mani dei loro autori, esteticamente sono anche poco piacenti (Federigo Tozzi infligge ai suoi personaggi la bruttezza fisica) come ha giustamente notato il grande critico Giacomo Debenedetti che non esita a definire il romanzo novecentesco con la suggestiva espressione rubata a Proust “una grande intermittenza di un succedersi di intermittenze” ovvero momenti privilegiati che rimandano a cose passate. Ma non solo; il portale oltre ad occuparsi delle recensioni dei romanzi più belli e significativi del Novecento, dedica delle sezioni a giovani scrittori emergenti e non, dando spazio anche agli autori più contemporanei di maggior successo nelle categorie “Autori emergenti”, ai “Best seller”,  agli “Eventi letterari” come il Salone del libro e ai vari Premi istituiti con i relativi vincitori oltre alla “Poesia”e alla “Classifica” dei libri più letti.” Vi è poi uno spazio riservato alla riflessione sulle sorti della critica letteraria e quindi anche della letteratura stessa: “Critica” e uno spazio dedicato agli approfondimenti, a tematiche e ad aspetti più specifici: “Focus”. Vi sono inoltre due rubriche dedicate al cinema, alla politica, all’attualità e alla musica.

Il romanzo del Novecento e solo questo genere di narrativa in prosa, ha disoccultato la realtà, ha portato alla luce il conflitto tra IO-ES e SUPER IO per dirla alla Freud, relazionandosi con le  grandi discipline del nostro tempo: sociologia, antropologia, psicoanalisi, arte che a loro volta offrono una valida chiave di lettura per la letteratura.

BUONA NAVIGAZIONE.

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