James Joyce e Italo Svevo. Dello scrivere di sé

Si ricordi di me se in qualsiasi momento il mio aiuto potrà servire a mantenere vivo il ricordo di un mio vecchio amico per il quale ho sempre nutrito affetto e stima. A lei, cara Signora Schmitz, e a Sua figlia tutta la nostra solidarietà. Sono le ultime righe della lettera di James Joyce del 24 settembre 1928 spedita a Livia Veneziani, rimasta vedova dopo che, undici giorni prima, Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, era deceduto a seguito delle complicazioni di un incidente stradale a Motta di Livenza, in provincia di Treviso.

All’epoca Joyce viveva da tempo a Parigi, era fra gli autori più famosi a livello internazionale a seguito della pubblicazione di Ulisse e da alcuni anni si stava dedicando alla scrittura di Finnegans Wake. Italo Svevo, rimasto per quasi tutta la vita in ombra come scrittore, ebbe solo pochi anni per godersi la tanto agognata fama infine riconosciutagli in Europa e soprattutto in Italia, a seguito dell’uscita nel del suo ultimo romanzo La Coscienza di Zeno, grazie agli interventi del suo amico James Joyce in primis e di Eugenio Montale poi.

Grazie del romanzo con la dedica. Ne ho due esemplari anzi, avendo già ordinato uno a Trieste. Sto leggendolo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.                                                        

(Lettera di James Joyce a Italo Svevo del 30/1/1924)

I due si conobbero presumibilmente fra il 1906 e il 1907 a Trieste, città nella quale Joyce, abbandonata l’Irlanda nel 1903, viveva assieme alla compagna Nora e al piccolo Giorgio. Galeotto fu l’inglese, la lingua che Svevo doveva perfezionare per i suoi viaggi di lavoro per conto della ditta di vernici del suocero, durante quel lungo periodo in cui si trovò a trascurare la sua passione letteraria, scottato dagli insuccessi dei suoi primi due romanzi, Una vita e Senilità, stampati a sue spese sul finire del secolo XIX. Anche Joyce era ancora distante dalla fama che otterrà negli anni ’20, avendo da poco pubblicato il suo primo libro, la silloge poetica Musica da Camera, con scarso riscontro di vendite e critica. A Trieste però era già un rinomato insegnante di inglese per la Berlitz School, cosicché Svevo, vent’anni più grande di lui, non se lo lasciò sfuggire e le lezioni cominciarono.

Ciò che dal loro incontro fece fiorire una vera amicizia non fu però tanto l’inglese, quanto la passione per la scrittura che li accomunava; fin dai primi incontri si confessarono le reciproche predilezioni letterarie e si scambiarono i propri scritti. Joyce lesse i due romanzi di Svevo e ne rimase colpito, Svevo ebbe la possibilità di trovarsi fra le mani i manoscritti dei primi capitoli del Ritratto dell’Artista da Giovane e di ascoltare dalla stessa voce di Joyce la lettura di alcuni dei racconti che sarebbero anni dopo confluiti nella raccolta I Dublinesi. L’amicizia era iniziata.

 

Caro Sig. Joyce, molte grazie per il Suo gentile regalo. Può immaginare con quanta attenzione leggerò il lavoro del mio maestro e amico. Sicuramente parlerò del nuovo libro con tutti coloro che credo possano essere interessati a un’opera in inglese di contenuto irlandese. […] Spero che presto mi offrirà l’opportunità di parlare con Lei delle tante Sue pagine che ho avuto modo di leggere.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 26/6/1914)

Già dalle lettere che si scambiarono è evidente come nel tempo il loro legame si fece duraturo e solidale. Svevo aiutò più volte economicamente Joyce, sempre a corto di denaro, e Joyce, quando divenne famoso con Ulisse, riuscì a rendere famoso anche il suo amico con La coscienza di Zeno, che uscirà nel 1923, un anno dopo Ulisse. Sono infatti proprio le pagine dei loro grandi romanzi a restituirci e confermarci ancora oggi le tracce delle loro intese.

Possiamo riconoscere molti aspetti tipici di Italo Svevo in Leopold Bloom, il protagonista di Ulisse, fra cui il fatto di essere entrambi ebrei ribattezzati di origini ungheresi, nati in una patria assoggettata (Dublino sotto l’impero britannico e Trieste sotto quello austro-ungarico). Così come fu lo stesso Joyce a informare l’amico di essersi ispirato a sua moglie, Livia Veneziani, per il personaggio di Anna Livia Plurabelle in Finnegans Wake: i suoi lunghi capelli biondo-rossastri gli ricordavano il fiume Liffey di Dublino, del quale la protagonista del libro diviene personificazione. Pochi mesi prima della sua improvvisa scomparsa, Svevo scrisse a Joyce di volergli fare dono di un ritratto della moglie dipinto da un noto amico e pittore triestino, Umberto Veruda:

 

Vorrebbe Lei averlo? Dica in una cartolina postale la sola parola sì ed io glielo invio. Senza il Suo consenso non oso inviarLe il ritratto di mia moglie. Di lavori di Veruda io ne ho molti, e in quanto al soggetto io mi tengo caro l’originale.

(Lettera di Italo Svevo a James Joyce, 27/3/1928)

 

Senza dubbio si trattava di un’amicizia sincera e fiduciosa, considerata la sfrenata gelosia che legava entrambi gli scrittori alle rispettive consorti. I loro libri sono pieni di riferimenti ai loro impeti possessivi. La gelosia di Joyce aveva un’azione persino “retroattiva”, coinvolgendo anche gli amanti che Nora aveva avuto prima di conoscere lui (fattore che ispirò il tragico racconto di Gretta Conroy ne I Morti).

 

Ho paura che mi venga mostrata anche solo un ritratto di te da ragazza perché penserò “allora né io conoscevo lei né lei me. Quando andava a messa la mattina, a volte lanciava lunghi sguardi a qualche ragazzo per la strada. Agli altri ma non a me”. Ti chiedo, mia cara, di essere paziente con me. Sono assurdamente geloso del passato.

(James Joyce > Nora Barnacle, 21/8/1909)

 

Mentre nella Coscienza, gli effetti della gelosia di Zeno gioca d’anticipo sul futuro, fin oltre la fine della propria vita:

 

Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. L’invecchiamento mi faceva paura solo perché m’avvicinava alla morte. Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.

In Senilità, il romanzo si Svevo a cui Joyce era più affezionato, si narra quella che oggi definiremmo una “relazione tossica”, fra la giovane Angiolina e l’assicuratore Emilio tormentato dai sospetti di tradimenti della ragazza, in cui è coinvolto anche l’amico artista Stefano Balli, che in spavalderia e virilità tanto somiglia a Buck Mulligan e Blazes Boylan, gli antagonisti di Stephen Dedalus e Leopold Bloom in Ulisse.

Anche Bloom sa che la moglie Molly lo tradisce con Boylan e questo pensiero lo rincorre e lo rattrista durante tutta la giornata del 16 giugno 1904 in cui si svolge il romanzo e durante il quale Bloom si ritrova a girovagare per tutta la città di Dublino, fra osterie, ospedali, farmacisti e persino un funerale, pur di ritardare il ritorno a casa, dove la moglie l’avrà tradito nel loro stesso letto. Ulisse in fondo è la storia di un funerale e di un tradimento, di amore e di morte – quest’ultimo altro argomento cruciale che lega le vite e le opere dei due scrittori.

 

Sede degli affetti. Cuore spezzato. Dopotutto una pompa, che pompa migliaia di litri di sangue ogni giorno. Un bel giorno si blocca ed eccoti lì. Ce ne sono molti qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite: al diavolo tutto il resto. La risurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto.                            

(Ulisse, episodio VI, Ade)

 

L’argomento era già esplicitato nel titolo citato I Morti, celebre racconto conclusivo della raccolta I Dublinesi, ma anche nell’ambientazione del primo che fra questi Joyce era riuscito a far pubblicare su rivista, Le Sorelle, che si apre con l’agonia e poi la morte di padre Flynn. Guido, il cognato-antagonista di Zeno, si suicida, così come Alfonso, il protagonista di Una vita, il primo romanzo di Svevo. Di suicidio morì in Ulisse anche il padre di Bloom, mentre di morte prematura suo figlio Rudy. Stephen Dedalus, già fin dalle prime pagine del medesimo romanzo, è ossessionato dalla tragica morte della madre, per cui indossa ancora l’abito a lutto, e il ricordo delle allucinazioni di lei ci riportano a quelle di Amalia, la “pallida sorella” malata di Emilio in Senilità. Laddove nella Coscienza è il mirabile racconto del padre che con uno schiaffo in punto di morte si imprime sulla mente, oltre che sulla guancia, del protagonista, Zeno, l’inetto e il malato ipocondriaco assillato dalla morte:

M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto.

Se però provassimo a seguire il filo delle ossessioni dei due autori, ne incontreremmo tante altre ancora e probabilmente le più celebri sarebbero anche quelle più meschine o meno elevate: l’alcol per Joyce e il fumo per Svevo. Del suo vizio l’autore irlandese non si esprimeva tanto nelle sue scritture private, quanto nelle sue opere; in particolare si ricorderanno gli episodi notturni di Ulisse, dalla conclusione del quattordicesimo al quindicesimo che devono il loro stile visionario e allucinato alle alterazioni etiliche dei personaggi, e quello successivo, il sedicesimo, scritto nella “prosa rilassata”, tipico dei postumi da sbornia.

Eccerto, sì. Che dire? Alla taverna. Sbronzi. Ti ho viscto, scignore. Bantam, due giorni sciobrio. Trincando nient’altro che chiaretto. Ma dai! Tiello d’occhio, eh. Mioddio, io sia dannato. E al barbiere se n’è andato. Troppo colmo per le parole. Con un tale delle ferrovie. Come mai stai così? L’opera gli andrebbe? Rosa di Castiglia. Cosa di Famiglia. Polizia Stradale! Un po’ di H2O per un uomo svenuto.

(Ulisse, episodio XIV, Armenti del Sole)

 

Mentre Svevo del suo vizio del fumo, oltre a intitolarne il primo famoso capitolo della Coscienza, ne tratta maniacalmente anche nei suoi scritti personali, specie quando si tratta di sconfessare ogni intento a smettere:

 

Fumo al solito come un turco e non vedo vicino il momento in cui saprò disfarmi di questa odiosa abitudine più gravosa ancora quando ho qualche sopracapo perché allora fumo il doppio.

(maggio 1898)

 

È chiaro che negli anni in cui stavano esordendo le prime teorie psicanalitiche e Svevo stesso, che padroneggiava la lingua tedesca, poté avvicinarsi direttamente ai primi scritti di Freud, la domanda non poteva che essere: può la psicanalisi guarire dalla nevrosi, dalla malattia, dall’ossessione, dal vizio? Svevo considerava Freud un grande uomo “più per i romanzieri che per gli ammalati”; c’era da capirlo, dato che l’affezionato cognato Bruno Veneziani, affetto di disagi psichici e dipendenze, fu giudicato inguaribile da Freud in persona, il quale tuttavia non si fece scrupoli a presentare la parcella a trattamento fallito. Così come nella Coscienza di Zeno, da sempre presentata scolasticamente come un romanzo psicanalitico, apprendiamo fin dall’inizio il disappunto dello psicologo per essere stato piantato in asso dal paziente e protagonista del libro.

E Joyce? Non la pensava tanto differentemente, se consideriamo che il suo più grande dolore fu quello di non essere riuscito a prendersi cura di una figlia schizofrenica, l’amatissima Lucia, la quale a seguito dell’infruttuosa terapia di Jung finì i suoi giorni lontano dalla famiglia in un ospedale psichiatrico; la psicoanalisi, secondo Joyce, è una forma di ricatto: “se ne abbiamo bisogno, teniamoci alla confessione”.

Fu con le loro opere che i due grandi scrittori riuscirono ad arrischiarsi nell’oceano delle ossessioni, delle gelosie, dei vizi, delle malattie. Si sarebbe dovuto attendere che la psicanalisi si evolvesse almeno fino agli sviluppi di Lacan, il quale decise di lasciare la mano di Freud come guida per prendere quella di Joyce: colui che attraverso le sua arte riuscì a permettere che dentro di sé il proprio processo di sintomi, ovvero il modo in cui l’inconscio funziona procurandosi godimento, lavorasse non più al costo della sofferenza del soggetto, bensì, incredibilmente senza alcuna seduta analitica, agganciandolo alla sua soddisfazione.

 

La salute non analizza se stessa e neppure si guarda nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi.

(La Coscienza di Zeno, La moglie e l’amante)

 

I due scrittori avevano compreso fin dalle prime giovanili esperienze con la penna fra le dita, che attraverso la loro arte non dovevano aspettarsi di guarire, ma di poter parlare di loro stessi, nella loro reale quotidianità, fra desideri e delusioni, propositi disattesi e riconoscimenti inaspettati: la creazione artistica non poteva prescindere dalla loro stessa autobiografia, dal consapevolezza di esistere, dal ritrovarsi al mondo fra cose visibili e invisibili, dal conoscerle e dal conoscersi, dall’incontrarsi e dall’essere amici.

 

 

[Per approfondimenti si consiglia l’intervista “Joyce + Svevo. Con Enrico Terrinoni, Andrea Pagani, Riccardo Cepach”, online su YouTube: https://youtu.be/cCoRJdXBwCM ]

Ricordando James Joyce a 131 anni dalla nascita attraverso il suo capolavoro ‘Ulisse’

Il 2/2 del ’22, il 2222, fu una specie di esplosione verbale di cui s’ode ancora l’impeto, imperiale: nessuno, da lì in poi, può prescindere dal “super-romanzo” di James Joyce, per sottomissione o ribellione. Una storia dell’influenza di Ulisse nella letteratura occidentale del Novecento finisce grosso modo per coincidere con la letteratura occidentale del Novecento: T.S. Eliot – pur usandolo per tirare il carro alla propria estetica – aveva capito tutto, “Usando il mito e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui”; seguiva, per capirci, il paragone con “le scoperte di un Einstein”. Insomma, il ‘metodo’ di Joyce era equivalente alla teoria della relatività generale di Einstein (che nel 1921 aveva ricevuto il Nobel per la fisica).

Da allora, nulla sarebbe stato più come prima. Virginia Woolf legge Ulisse irritandosi – “Ho terminato l’Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario” –, Ezra Pound lo esalta esalando urla: “Tutti gli uomini dovrebbero «unirsi per elogiare Ulisse»; chi non lo farà potrà accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori; non voglio dire che tutti debbano elogiarlo a partire dallo stesso punto di vista, ma tutti i seri uomini di lettere, che ne scrivano o meno una critica, dovranno di certo concepirne una per loro uso e consumo”. William Faulkner, dopo una gita tra bordelli italiani vari, atterra a Parigi, nel ’25, e sogna di vedere Joyce dalla vetrata di un cafè, in Place de l’Odéon: la lezione di Ulisse gli è necessaria per giungere a L’urlo e il furore.

Nel 1932, per onorare i cinquant’anni di JJ, Hermann Broch, a Vienna, dà lettura del suo saggio, James Joyce und die Gegenwart (poi pubblicato nel 1936; in Italia è uscito come James Joyce nel 1983, da Editori Riuniti): lo stesso editore tedesco dell’Ulisse pubblicherà il capolavoro di Broch, La morte di Virgilio, che usa, a modo suo, il ‘metodo’ di Joyce. L’Ulisse è testo assoluto e seminale: inimitabile, ha mutato le geografie fino ad allora sperimentate dal genere romanzo; una specie di rivoluzione quantistica. Ne Il gioco degli occhi, Elias Canetti racconta quando ha incontrato Joyce, a Zurigo, nel 1935: fu una fuga nel frainteso. Canetti aveva letto, in pubblico, la sua Commedia della vanità, di cui Joyce aveva recepito solo alcuni frammenti. “Nell’intervallo fui presentato a Joyce”, scrive Canetti, “il quale si espresse in termini molto bruschi e molto personali: ‘Io mi faccio la barba col rasoio, senza specchio!’”. Nella Commedia si accennava agli specchi, al loro inesorabile enigma, ma quella di Joyce pare una frase che nasconda un cabbalista, dai sensi irritati e sovrapposti. Spesso i biografi ricordano che dopo aver pubblicato Ulisse, Joyce subì “nuovi disturbi agli occhi”, quasi che vi fosse una coincidenza tra scrittura e cecità.

“Leggere l’Ulisse,” opera realistica e burlesca al tempo stesso, come scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva, “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”. Solo immergendosi senza riserve nella scrittura il lettore potrà uscirne davvero, alla fine, inondato di tutta la luce che questo romanzo concentra in sé.

Ciò che rende Ulisse imponente non è, infatti, il tema ma la scala su cui viene sviluppato. Sono serviti sette anni a Joyce per scriverlo e l’ha fatto in settecentotrenta pagine, che sono probabilmente le pagine più assolutamente “scritte” da Flaubert in poi. Non solo l’aneddoto è espanso fino alla sua forma più piena possibile – c’è un resoconto elaborato di quasi tutto vien fatto o pensato da Mr. Bloom dal mattino alla notte nel giorno in questione – ma si ha sia il metodo “psicologico” che quello flaubertiano di rendere lo stile in linea con la cosa descritta, metodo portato diversi passi avanti più di quanto non sia stato fatto sinora, così che mentre in Flaubert si hanno banalmente le parole e le cadenze adattate con cura a suggerire uno specifico stato d’animo o un personaggio senza alcun tentativo di identificare la storia con il flusso di coscienza della persona descritta, e in Henry James la semplice esplorazione del flusso di coscienza con vocabolario e cadenza unici per tutto l’insieme di stati d’animo e personaggi, in Joyce non si hanno soltanto la vita descritta dall’esterno con virtuosità flaubertiana ma pure la consapevolezza che ogni personaggio e ogni suo stato d’animo sono messi a parlare in un idioma loro proprio, il linguaggio usato in riferimento al linguaggio. Se Flaubert insegnava a Maupassant come trovare l’aggettivo che avrebbe distinto una certa carrozza da tutte le altre carrozze al mondo, James Joyce ha stabilito che si deve trovare il dialetto che potrebbe distinguere i pensieri di un certo Dublinese da quelli di ogni altro Dublinese.

“Peccato per il pubblico se si attende di trovare una morale nel mio libro – o peggio, potrebbero prenderlo ancora più sul serio e, onore di gentiluomo, non vi è una sola riga seria lì dentro” J. Joyce

Mr Bloom, coi suoi generosi impulsi e i suoi tentativi di comprendere e padroneggiare la vita, è il simbolo epico dell’uomo raziocinante, umiliato e ridicolo, pure in grado di districarsi con l’astuzia dagli spiriti che tentano di distruggerlo; e Mrs. Bloom, con la sua forza terrificante frammista di affetti amorosi e materni, con le sue radici nello sporco della terra e il suo gioioso fiorire in bellezza, è l’immagine gigantesca della terra stessa da cui sia Dedalus che Bloom sono sorti e che sembra essere il fondamento profondo dell’intero dramma come il tono base all’inizio dell’Oro del Reno.

Il tema principale del capolavoro di Joyce va cercato nel suo parallelo con l’Odissea: Bloom è una specie di moderno Ulisse – con Dedalo come Telemaco – e lo schema e le proporzioni del romanzo vanno fatti corrispondere a quelli dell’epica. Sono questi e non le necessità interne dell’argomento ad aver dettato le dimensioni e la forma di Ulisse.

 

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Calvino e Pavese, due scrittori a confronto

Calvino e Pavese lavorarono per alcuni anni alla Einaudi. Fu lo stesso Pavese a scoprire il talento di Calvino. Questo ultimo però stroncò il romanzo “Tre donne sole” di Pavese, che poi rispose il  29 luglio 1949: “Ma tu – scoiattolo della penna –  calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”.

Pavese si suicidò nel 1950. La sua scomparsa fu dovuta alle delusioni sentimentali e alla sua depressione. Era uno scrittore riconosciuto. Aveva vinto anche il premio Strega, era una figura di riferimento per molti scrittori. L’Einaudi pubblicherà postume nel 1966 le sue Lettere 1945-1950, proprio a cura di Italo Calvino.

Divergenze critiche

I critici non si trovano minimamente d’accordo. C’è chi sostiene che Calvino considerò  Pavese un suo maestro per tutta la vita; chi scrive che la Ginzburg e Calvino erano molto invidiosi di Pavese; chi ricorda l’affinità ideologica tra i due grandi scrittori, ma sostiene che avessero modi di intendere la letteratura diversi; c’è chi sostiene che Calvino era grato a Pavese e chi sostiene che in fondo non gli dimostrò molta riconoscenza in vita, ma solo a posteriori.

Nel 1953 Calvino ebbe modo di scrivere:

“E posso dire che per me, […], l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l’insegnamento di Pavese. La mia vita torinese porta tutta il suo segno; ogni pagina che scrivevo era lui il primo a leggerla; un mestiere fu lui a darmelo immettendomi in quell’attività editoriale per cui Torino è oggi ancora un centro culturale d’importanza più che nazionale; fu lui, infine, che m’insegnò a vedere la sua città, a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline”.

C’era rivalità allora tra i due? C’era antagonismo? Oppure solo qualche incomprensione come succede anche tra sodali, tra migliori amici? Stilisticamente Calvino non sembra aver subito l’influsso di Pavese. La scrittura del primo era determinata dall’ossessione descrittiva e dalla completezza della resa della molteplicità fenomenica; quella del secondo dall’adesione alla vita, al flusso ininterrotto degli eventi e degli incontri: Calvino voleva descrivere il mondo, Pavese la vita dei suoi personaggi.

Calvino e Pavese: le differenze

Lo scrittore ligure era molto puntiglioso nel descrivere ambienti e personaggi. Pavese invece utilizzava un linguaggio meno esatto o comunque meno forbito, ma era sempre rigoroso ad ogni modo nella scelta dei vocaboli. Si potrebbe pensare che Calvino aveva un rapporto conflittuale con il linguaggio e che la sua scrittura fosse piena di revisioni e stesure.

Pavese aveva un rapporto più conflittuale con l’esistenza stessa, non riuscendo a venirne  a capo. Pavese non riuscì a entrare nel pieno della vita, per tutto il suo tempo però fu un osservatore partecipe, come nei suoi romanzi. In Calvino tutto il suo intelletto era proteso verso il linguaggio, che doveva rappresentare in modo esatto le cose e le persone.

In Pavese il linguaggio meno esatto ma pur sempre molto accurato doveva trovare l’essenza stessa della vita: entrambi si ponevano quindi degli obiettivi molto impegnativi, forse irrealizzabili. Se si analizza un singolo periodo potrebbe sembrare di primo acchito che chiunque possa scrivere come Pavese, ma lui fu il primo a scrivere in quel modo e al contempo va detto che ci voleva il retroterra culturale di un grande intellettuale per imbastire i suoi romanzi.

Come ebbe modo di scrivere lo stesso Calvino c’era sempre qualcosa di sottinteso nei romanzi di Pavese; c’era sempre qualcosa di sottaciuto e  fu definito per questo “reticente”. Pavese quindi solo apparentemente poteva considerarsi uno scrittore semplice, anche se la lettura dei libri di Calvino per la loro ricchezza lessicale mette alla prova un lettore non letterato, richiede talvolta l’utilizzo del vocabolario. Il primo romanzo di Calvino,  “Il sentiero dei nidi di ragno” in un certo qual modo da un punto di vista tematico, contenutistico, stilistico poteva avere dei punti in comune con le opere di Pavese, ma successivamente Calvino si dimostrò realista-favolistico, mentre Pavese un neorealista con il mito delle Langhe.

Calvino creatore di miti e archetipi

Calvino fu creatore di miti e di archetipi, mentre Pavese li prese direttamente dalla sua realtà quotidiana per poi metterli sulla carta, dimostrando tutta la sua creatività, pescando a piene mani dalla fantasia; Pavese attinse dalla quotidianità. In lui ci sono le Langhe e  la Torino di quegli anni; talvolta sembra che invece dello sfondo siano dei veri protagonisti dei romanzi: comunque sono determinanti, hanno un ruolo non marginale nella sua narrativa.

Forse è proprio per questo che il mondo di Pavese oggi può apparire più distante e meno attuale, mentre Calvino che ha scritto opere più scientifiche come “Palomar” e “Le cosmicomiche” sembra più attuale e per niente datato. Va ricordato a tal proposito che Calvino morì nel 1986, mentre Pavese solo nel 1950: lo scrittore ligure perciò ebbe modo di intuire e intravedere alcuni aspetti della nostra realtà odierna, mentre Pavese è ormai relegato in un’altra epoca più lontana.

Probabilmente Pavese ha meno da dirci oggi rispetto a Calvino e noi stessi possiamo capirlo di meno rispetto a Calvino. Il successo attuale della narrativa di Calvino probabilmente è dovuto al fatto che insieme a Rodari venga considerato uno scrittore per bambini, a differenza di Pavese, che forse viene ritenuto più cupo e più drammatico, insomma meno adatto per gli studenti.

Questo non rende pienamente giustizia a nessuno dei due: Calvino con la trilogia de I nostri antenati, che  raccoglie i romanzi  “Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante e “Il cavaliere inesistente”, compie delle riuscite metafore dell’intellettuale della sua epoca (e questi libri sono perciò a doppio fondo, hanno una doppia chiave di lettura), mentre lo stesso Pavese, seppur tragico e suicida, può essere un esempio per tutti  come uomo, intellettuale e scrittore antifascista.

Si potrebbe asserire che Calvino fu più gnoseologico e Pavese più esistenziale, pur essendo entrambi accomunati dalle stesse idee politiche. Il modo di approcciare la realtà fu quindi completamente differente. La scrittura di Calvino sembra inimitabile, inarrivabile, sembra sempre così difficile, irraggiungibile, quasi perfetta.

L’esistenzialismo di Pavese

La scrittura di Pavese sembra più sciatta, mai impreziosita con vocaboli non comuni, apparentemente a uso e consumo di tutti, mentre in realtà a un’analisi più attenta non è così perché anche lo stile pavesiano richiede molto talento, molto studio, molto impegno.

Attualmente leggere i libri di Calvino è un must, è un dovere a cui non si deve sottrarre una persona dalle buone letture. Ma Calvino e Pavese si capirono? Calvino dichiarò che non aveva mai presagito niente delle volontà suicidarie dell’amico. Forse entrambi erano tutti presi a livello intellettuale da mettere da parte le vere ragioni di vita.

Forse Calvino scoprì veramente quel che covava segretamente nell’animo Pavese solo dopo aver pubblicato le sue opere postume. In “Sono nato in America…Interviste 1951 – 1985” (a cura di Luca Baranelli) lo scrittore ligure dichiarò:

“Conobbi Pavese dal ’46 al ’50, anno della sua morte. Era lui il primo a leggere tutto quello che scrivevo. Finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale. Prima che morisse, non sapevo quel che i suoi amici più vecchi avevano sempre saputo: che era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide. Lo credevo un duro, uno che si fosse costruita una corazza sopra tutte le sue disperazioni e i suoi problemi, e tutta una serie di manie che erano tanti sistemi di difesa, e fosse perciò in una posizione di forza più di chiunque altro. Difatti era proprio così, per quegli anni in cui lo conobbi io, che forse furono gli anni migliori della sua vita, gli anni del suo lavoro creativo più fruttuoso e maturo, e d’elaborazione critica, e di diligentissimo lavoro editoriale”.

Il lascito intellettuale dei due fu molto differente non solo a livello narrativo ma anche per così dire saggistico; il testamento di Pavese fu “Il mestiere di vivere” fatto soprattutto da riflessioni esistenziali, mentre quello di Calvino fu “Lezioni americane”, costituito da intuizioni letterarie e culturali.

Il critico letterario Guido Davico Bonino ha ricordato una conversazione avuta con Calvino:

“Mi disse: io ho addosso ancora il rimorso pieno di non aver fatto quello che avrei dovuto per impedirgli di fare la scelta finale. C’era un affetto fortissimo di Pavese per Calvino. E schiettissimo”.

Calvino non aveva capito nel profondo Pavese, non afferrò pienamente il tormento, il disagio esistenziale del suo maestro o presunto tale. Su Calvino come critico letterario ci sono luci e ombre. Da una parte fu il talent scout di Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo. Dall’altra dimostrò una idiosincrasia per il grande Guido Morselli, morto suicida e inedito (la cui scoperta fu dovuta a Calasso, che lo pubblicò postumo con Adelphi).

 

 

 

 

 

Fantastico, grottesco e angoscia nei racconti e articoli di cronaca nera di Dino Buzzati

Dino Buzzati è conosciuto soprattutto per il “Deserto dei Tartari”, in cui il militare Giovanni Drogo è costretto a vivere in una fortezza “esiliato tra ignota gente”. La minaccia dell’assedio da parte dei Tartari, l’attesa snervante del protagonista simboleggiano l’ansia metafisica ed il pensiero ossessivo della morte.

Il finale del romanzo è a sorpresa. È del tutto inatteso. Infatti quando arrivano i Tartari il protagonista sta morendo di un male incurabile. Alcuni critici sostennero che Buzzati si “kafkasse addosso” e che fosse quindi un manierista di Kafka. Lo scrittore ironizzò su queste accuse dichiarando che “alcuni critici denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo un modulo Vanoni”.

Ma per capire meglio Dino Buzzati bisogna leggere anche i suoi racconti, in cui dettagli apparentemente insignificanti divengono tristi presagi: delle ombre, dei passi, degli scricchiolii sono spesso l’inizio di un capovolgimento di fronte. Ecco quindi che all’improvviso entra in scena l’assurdo.

Breve premessa: per Freud esistono tre tipi di sogni. Il primo tipo di sogni sono frutto di appagamento di desideri non mascherati. Ad esempio un bambino a cui piacciono le patate può sognare di fare una scorpacciata di patate. Il secondo tipo di sogni sono frutto di soddisfacimento mascherato di fantasie inconsce. Il terzo tipo invece sono sogni di angoscia.

I racconti di Buzzati spesso sembrano scaturire da sogni di angoscia o quantomeno sembrano essere dei sogni di angoscia. Ma in questi brani troviamo non solo angoscia e onirismo, ma anche mistero e solitudine.

Nei suoi “Sessanta racconti” si mischiano fantastico, realismo, grottesco, gusto del paradosso e metafisica (Buzzati fu anche pittore  influenzato da De Chirico).

Leggendolo abbiamo la dimostrazione che la vera arte non è copia del reale ma trasfigurazione. Lo scrittore bellunese in questo senso voleva evadere dal mondo e sostituirgli un universo fittizio. Buzzati  fu anche redattore per molti anni del Corriere della Sera e giornalista di cronaca nera.

La cronaca nera vista da Dino Buzzati

È proprio analizzando i suoi articoli di nera che si scopre la sua sensibilità. Carlo Bo scriveva a riguardo di Dino Buzzati: “cronista di assoluta fedeltà, ma alla fine andava oltre e scioglieva tutto con il miracolo della poesia”.

Nei suoi articoli troviamo alcuni delitti, che colpirono l’immaginario collettivo degli italiani: Rina Fort che massacra l’intera famiglia dell’amante che l’ha lasciata, il caso Montesi e lo scandalo conseguente nella Democrazia Cristiana di allora, la contessa Pia Bellentani che a una festa dell’alta società uccide l’amante.

E se talvolta gli assassini non sembrano belve feroci ma persone normali lo scrittore avverte che “l’ombra del male scivola intorno a ciascuno di noi e ci potrebbe toccare”. Ma leggere questi articoli significa ritornare indietro nel tempo e constatare che una grande parte di quella cronaca è diventata storia del Novecento.

Si pensi all’aereo della squadra del Torino che si schianta a Superga, il dramma di Marcinelle in cui morirono 139 minatori italiani in Belgio, il disastro del Vajoont del 1963, la rivolta di San Vittore, la strage di Piazza Fontana. Non ci si può dimenticare di Marcinelle, che è emblematica per quel che riguarda la nostra emigrazione.

Per la scarsità di materie prime della nostra nazione il governo italiano decise di stipulare un accordo con il Belgio, secondo cui avrebbe inviato 50000 minatori ed avrebbe ricevuto 2 tonnellate di carbone all’anno per ogni lavoratore. I minatori italiani furono costretti a lavorare a 1000 metri di profondità.

Il contratto di lavoro non comprendeva la possibilità di dimettersi, era senza diritto di recessione. I minatori che volevano smettere di lavorare venivano condannati a 5 anni di prigione. Molti lavoratori morirono di cancro al polmone. I più fortunati divennero asmatici. Dino Buzzati descrisse con maestria anche il dramma di Superga.

Scrisse che i campioni del Torino fino a pochi giorni prima dominavano i campi di calcio e che la morte in pochi istanti li aveva trasformati. Scrisse: “Esegue balzi così immensi la morte che neppure la nostra immaginazione riesce a starle dietro. Come far capire alle mamme, alle fidanzate, alle sorelle che è meglio non entrare?”.

Memorabili ed amarissime anche le sue parole sul Vajont: “Un sasso è caduto in un bicchiere di acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

Buzzati quindi sapeva essere poetico anche da giornalista senza mai scrivere elzeviri. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il lavoro di giornalista fu fondamentale per la formazione del suo immaginario e della sua poetica, in cui dominò incontrastata l’imperscrutabilità del Fato.

Perché leggere Buzzati

Buzzati va letto e riletto perché non appartiene a nessuna scuola, non abbraccia nessuna ideologia e si rivela sempre originale e versatile. Riesce a intrecciare realtà e finzione con uno stile efficace e apparentemente semplice, a farsi comprendere da tutti ed è sempre distante dalla ricercatezza ad esempio della prosa d’arte.

È unico nel suo genere. Infatti ha una fervida immaginazione che gli permette di descrivere le angosce, gli incubi, l’ignoto come nessun altro narratore italiano nel corso del Novecento.

Buzzati all’epoca fu ostracizzato dai critici letterari. Eppure nessuno come lui in quegli anni in Italia riesce a descrivere i fantasmi della mente, le brutture del quotidiano, l’imponderabile che stravolge l’ordine costituito, il senso di minaccia e l’irrazionalità presenti nell’esistenza umana.

Dino Buzzati come nessun altro riesce a raccontare storie che si nutrono di caos e assurdo: storie che spesso sono contrassegnate da una cifra trascendente. Questo è il suo lascito.

 

Davide Morelli

Franco Fortini e gli anticorpi per trasformare lo schifo e la menzogna della cultura di massa in altro

“Se si crede in una frase di Brecht che dice: ”La tentazione del bene è irresistibile”, allora, si crede, anche, che si possano formare degli anticorpi capaci di trasformare lo schifo, la menzogna, le feci coltivate dalla cultura di massa in altro. E’ possibile, perciò, è doveroso mutare”.  Sono le parole di Franco Fortini, poeta, saggista, critico letterario, traduttore,  in un filmato d’epoca del 1990, in un’aula occupata della Facoltà di Lettere e Filosofia di Urbino, gremita di studenti. E’ un invito al cambiamento, a una metamorfosi della coscienza collettiva contro la mercificazione di una società capitalistica.

Franco Fortini, nato a Firenze nel 1917, è stato una delle più grandi voci del Novecento. Intellettuale spigoloso, marxista fedele, con la testa rivolta ai temi del Capitalismo, Rivoluzione, Comunismo, Alienazione, Falsa libertà. Tra le sue opere più importanti troviamo Foglio di via, Composita solvantur, Asia Maggiore e Verifica dei poteri. Ha lavorato alla Olivetti, agli inizi degli anni ’50, ed è stato collaboratore di riviste come “Comunità”, “Il menabò”, “Quaderni rossi” e “Quaderni piacentini”, oltre ad aver scritto sui più importanti quotidiani nazionali. Dopo aver insegnato in alcuni istituti tecnici di Milano, nel 1971, è diventato titolare della cattedra di Storia della critica alla Facoltà di Lettere di Siena.

Fortini diede voce a diversi scrittori e poeti, traducendo Brecht, Flaubert, Proust, Goethe, Einstein. Ad aiutarlo, la moglie, Ruth Leiser. “Volevo a tutti i costi che Ruth ci fosse, nel racconto. Non in quanto figura “accessoria” all’ingombrante marito, né come “aiutante” nei lavori di traduzione dal tedesco, né tantomeno come moglie devota e riservata. Ma come “compagna” di vita, nel senso più elevato che si possa dare a questo termine e che nel loro caso comprende egualmente amore, passione politica, cultura, scrittura, sguardo sul mondo, sofferenza e indignazione, resistenza, tenerezza e rispetto delle reciproche identità e divergenze”.

Fortini aveva un’ironia che poco ha a che fare con lo sberleffo e con il carnevale della vita e si accosta, invece, alla lotta e alla Storia. È l’ironia come capacità di avvertimento del paradosso, e del paradosso come opportunità dialettica. Questa sensibilità paradossale è chiaramente, prima di tutto, eredità del marxismo, ma non solo; in essa convivono, e si intrecciano, anche una propensione per il romantico, tracce profonde della formazione ebraica e soprattutto un amore, tutto cristiano, per lo
scandalo, la pietra d’inciampo che erode le certezze più salde e apre il cammino al vero sapere: «il cristianesimo umilia i filosofi» scrisse Fortini ne Gli ultimi tempi.
Il paradosso è in Fortini uno strumento di conoscenza e insieme un modo di vivere della Storia e degli uomini, uno straniamento del presente attraverso un pensiero e una vita che sono ancora alieni ai nostri, ma che sono figura di qualcos’altro contenuto in noi e nel nostro passato eppure ancora non pienamente intellegibile. L’ironia è come una maschera dialettica che contesta ogni certezza, mostrandone in controluce il contrario possibile e fecondo, in un costante implacabile conflitto che spinge a non risparmiare nulla, neanche sé stessi:«derisa impresa, ironiache resiste / contesa che dura».

Volli eguagliare entro di me le pietre, essere asciutto scintillìo di sale, pensiero e forma limpida di fiore senza peso né ombra sulla terra senza perire più come fa l’erba.

Addio a Carlos Ruiz Zafón: le 10 più belle frasi del capolavoro ‘L’Ombra del vento’

Carlos Ruiz Zafón è stato un scrittore catalano. Nato a Barcellona nel 1964 si è spento ieri a Los Angeles all’età di 55anni.

Già sceneggiatore, autore di libri per ragazzi, copywriter e direttore creativo lo scrittore si rimette nuovamente in gioco nel 2001. Questa volta nel mondo della narrativa degli adulti, esordendo con il romanzo L’ombra del vento, intriso di gotico, mistero ed intrigo. Il libro scala i vertici delle classifiche letterarie, diventando ben presto un best seller.

Il successo  consacra Carlos Ruiz Zafón nel mondo dell’editoria e nel cuore di molti lettori. Autore spagnolo più letto dopo Cervantes, Zafón, attraverso artifici narrativi catapulta il lettore nel magico e ammaliante mondo dei libri e della letteratura. Ed è proprio questa la sua più grande eredità.

L’ombra del vento ha venduto oltre 15mila copie in tutto il mondo, più di un milione solo in Italia. Da qui nasce è nata una quadrilogia intitolata Il Cimitero dei libri dimenticati, che dopo L’ombra del vento è proseguita con Il gioco dell’angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012), concludendosi con Il labirinto degli spiriti (2016), tutti editi da Mondadori e tradotti da Bruno Arpaia.

Una mattina il proprietario di un modesto negozio di libri usati conduce il figlio undicenne, Daniel, nel cuore della città vecchia di Barcellona al Cimitero dei Libri Dimenticati, un luogo in cui migliaia di libri di cui il tempo ha cancellato il ricordo, vengono sottratti all’oblio. Daniel viene attratto dalla copertina di un libro intitolato L’ombra del vento di Julian Carax, un autore sconosciuto. Da quel momento comincia ad appassionarsi sempre di più alla storia. Il ragazzo viene catturato dalla storia e vuole assolutamente avere maggiori notizie sull’autore. Comincia ad indagare dapprima in biblioteca e poi in maniera più profonda attraverso viaggi. Le frenetiche ricerche condurranno il protagonista in atmosfere misteriose ed intrigati labirinti. La vita di Daniel e quella del protagonista del suo libro si intrecciano irrimediabilmente portando a galla numerosi parallelismi. La narrazione si snoda in una Barcellona, ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e al contempo quella cupa del dopoguerra.

Attraverso l’espediente narrativo, la trama mescola fantasy, realismo ed elementi del giallo. Un romanzo storico, una tragedia d’amore che ricorda il feuilleton ottocentesco sapientemente modernizzare da Zafón.

Un caso editoriale che ha proclamato Carlos Ruiz Zafón una delle voci più significative della narrativa internazionale, destinato a stregare chiunque intercetti le sue pagine. Un romanzo in cui i bagliori di un passato angosciante si riflettono sul presente del giovane protagonista, in una Barcellona dalla duplice identità: quella ricca ed elegante degli ultimi splendori del Modernismo e quella cupa del dopoguerra.

 

1 “Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina si celasse un universo da esplorare e che, fuori di lì, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio, paga della propria mediocrità” 

2 “Quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno”

3 “Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza”

4 “Ignoravo il piacere che può dare la parola scritta, il piacere di penetrare nei segreti dell’anima, di abbandonarsi all’immaginazione, alla bellezza e al mistero dell’invenzione letteraria” .

 5 “Quel libro mi ha insegnato che la lettura può farmi vivere con maggiore intensità, che può restituirmi la vista. Ecco perché un romanzo considerato insignificante dai più ha cambiato la mia vita” .

6 “La malvagità presuppone un certo spessore morale, forza di volontà e intelligenza. L’idiota invece non si sofferma a ragionare, obbedisce all’istinto, come un animale nella stalla, convinto di agire in nome del bene e di avere sempre ragione. Si sente orgoglioso in quanto può rompere le palle, con licenza parlando, a tutti coloro che considera diversi, per il colore della pelle, perché hanno altre opinioni, perché parlano un’altra lingua, perché non sono nati nel suo paese o, come nel caso di don Federico, perché non approva il loro modo di divertirsi. Nel mondo c’è bisogno di più gente cattiva e di meno rimbambiti”. 

7 “In genere il destino si apposta dietro l’angolo, come un borsaiolo, una prostituta o un venditore di biglietti della lotteria, le sue incarnazioni più frequenti. Ma non fa mai visita a domicilio. Bisogna andare a cercarlo” .

8 “Nulla succede per caso, non credi? Tutto, in fondo, è governato da un’intelligenza oscura. Il tutto fa parte di qualcosa che non riusciamo a intendere, ma che ci possiede” .

9 “Non volevo abbandonare la magia di quella storia né, per il momento, dire addio ai suoi protagonisti. Un giorno sentii dire a un cliente della libreria che poche cose impressionano un lettore quanto il primo libro capace di toccargli il cuore. L’eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale – non importa quanti altri libri leggeremo, quante cose apprenderemo o dimenticheremo – prima o poi faremo ritorno”.

9 “La vita è breve, soprattutto la parte migliore” . 

 

 

‘Adele’: l’alter-ego nevrotico di Tozzi nel suo romanzo a frammenti

Adele è un romanzo in frammenti di Federigo Tozzi, pubblicato postumo nel 1979 da Vallecchi, a cura di Glauco Tozzi, il figlio dell’autore. L’opera è il primo tentativo dello scrittore senese di avvicinarsi alla misura romanzesca, abbandonato, secondo la critica, per dedicare maggiore attenzione al più avvincente intreccio di Con gli occhi chiusi, il romanzo pubblicato nel 1919.

Analisi del romanzo Adele

Protagonista di Adele è una giovane donna afflitta da una dichiarata isteria, che non si riconosce nella realtà circostante ed è incapace di intrattenere rapporti armonici con gli altri. La sua vita procede inesorabile, mentre Adele tenta invano di raccapezzarsi nel «sogno insopportabile» dal quale non si può svegliare, fino a quando la solitudine e l’incolmabile vuoto non la condurranno al suicidio: nessuno se ne accorgerà fino alla mattina seguente.

L’influenza di William James

Risulta utile analizzare questo romanzo nell’ottica del fondamentale binomio Tozzi-James, ovvero alla luce dell’influenza che il lavoro di William James, filosofo e psicologo americano, ha esercitato sull’opera di Federigo Tozzi. L’autore lesse le opere di James sin dal 1904, e rimasto affascinato dalle nuove scoperte psicologiche sul flusso di coscienza, la volontà inibita e il misticismo dei casi eccentrici di psicopatologia religiosa, decise di riportarne le sfumature tra le vite disperate dei suoi personaggi.

Le opere di James, tra cui i Principi di psicologia, Le varie forme della coscienza religiosa e La volontà di credere, si rivelano dunque essenziali alla comprensione dell’enigmatica opera tozziana, in particolare della protagonista di Adele: vittima della sua corrente interiore continuamente in bilico tra presa di coscienza e ricaduta patologica, uno dei personaggi più jamesianamente connotati.

Tra nevrosi e misticismo

Adele presenta molti degli elementi distintivi studiati da James nell’analisi di casi patologici: è un personaggio iper-inibito, «incapace di fare ciò che non potrà mai fare»; è inoltre un caso di psicopatologia religiosa, continuamente colto da «esaltazioni mistiche». È dunque evidente l’intento tozziano di attribuire ad Adele le anomalie psichiche studiate dallo psicologo americano narrando la storia di un personaggio femminile: l’autore ha di fatto scelto una donna non solo per raccontare ma anche per raccontarsi, proponendo nel testo un forte conflitto tra la protagonista e suo padre, che ricalca quello vissuto dall’autore stesso.

«Un romanzo è una cosa che si racconta, e l’atto di raccontare non è altro che mettere in evidenza le strutture portanti, o almeno quelle che si rivelano come tali al lettore», sostiene Luigi Baldacci e Adele è il racconto di una giovane donna isterica, la quale vive rapporti conflittuali con se stessa, con i propri genitori e con l’ambiente circostante. Si tratta di un romanzo frammentato, pieno di parentesi quadre, pagine eliminate, scarti narrativi e conseguenti riprese.

La storia, ambientata a Siena, inizia con l’introduzione del personaggio di Adele, figlia del dottor Freschi. Durante la descrizione del ritorno a casa della giovane, sull’impallidire del giorno, comincia la sua analisi psicologica: «Tutta la sua vita le sembrava limitata dall’indomani; tutta la sua impazienza era impigliata come da un divieto fatale. Le pareva che la morte fosse prossima, sopra le colline di Siena, così alta».

La parola nevrosi, assieme a nevrosismo, viene divulgata in Italia probabilmente da Paolo Mantegazza, che la reputa «parola nuova, perché serve ad esprimere una cosa che non esisteva, od era così rara da non fermar l’attenzione degli osservatori».

In verità la malattia nervosa era nota sin dalla fine del Seicento: si reputava fosse una sofferenza della mente che coinvolgeva tutto il corpo, provocando agitazione e moto continuo, anche del volto. Secondo l’opinione comune, questa patologia affliggeva in particolare le donne, che proprio per la loro costituzione delicata sono più portate degli uomini all’agitazione nervosa e alla malattia mentale. Tra i sintomi era annoverato un «aumento della sensibilità, della immaginazione, della affettibilità, della locomotilità, che caratterizza certi individui, ai quali per causa appunto di siffatta suscettibilità si attribuisce il temperamento nervoso».

Differenze con James

A differenza di James, Tozzi non è ottimista: come rimedio al doloroso stato di una «volontà ostruita, lo psicologo americano propone l’antidoto della «volontà di credere, ovvero la credenza che in ogni momento della nostra vita vi siano delle cose che realmente si decidono in essa e che «non si tratti semplicemente del monotono tintinnio di una catena i cui anelli furono fabbricati nelle età primordiali».

Tanto è vero che Adele non sentirà «l’intera sensazione della realtà», per riempirsi di essa e farne parte integralmente, come soggetto attivo, ma lascerà che il suicidio ponga fine alle sue sofferenze, allontanandosi da un mondo che mai le aveva dato importanza. «La vita reale, che non aveva bisogno di lei, era divenuta come un sogno insopportabile». La realtà di Adele prende la sembianza di un incubo a tre dimensioni: lei, la sua isteria, i suoi genitori.

Secondo Luigi Baldacci, e dello stesso avviso sono tutti i critici di Tozzi, Adele non è che l’alter ego dello scrittore: una figura femminile la cui psiche profondamente turbata rappresenta il rifugio dell’anima tozziana. La pazzia della protagonista nasce però da un sentimento critico dell’autore: è l’annuncio del fallito tentativo di uscire da se medesimo che egli aveva immaginato possibile in Novale, scrivendo in una lettera del 1907: «ho desiderato spesso divenire uno stocco di granoturco».

In Adele, per uscire fuori di sé, Tozzi diventa una donna e lo fa nel modo più insolente, continuando ad attribuire alla protagonista una sensibilità e un’impronta culturale sociologicamente impossibili, come ad esempio il riferimento alla lettura del Paradiso dantesco: «Soltanto le ultime cantiche di Dante potevano esprimere tale paradiso e tale verità eterna. Ne aveva una adorazione così sincera che cominciò ad esserne fanatica».

 

Fonte: https://www.academia.edu/13836924/_Adele_di_Federigo_Tozzi_Storia_di_una_nevrosi

 

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