‘L’Europa semilibera’ di Piovène: un continente ambiguo

Può essere interessante rileggere un saggio di taglio giornalistico tutto focalizzato su un’Europa che non c’è più ma che riserva ancora aspetti conoscitivi tali da essere sviluppati in testi apparentemente lontani. L’Europa semilibera di Guido Piovene proponeva nel 1973 una carrellata rapida ma incisiva sopra nazioni che già allora emanavano problemi istituzionali non secondari. Oggi tutto sembra essere mutato ma il dilemma di fondo era già nelle pagine francesi d’apertura: l’unificazione europea. Quale ragione ha di farsi – si chiedeva Piovene – sottolineando quel problema d’identità che affiancava un’unità tutta ancora da inventarsi a oggi secondo criteri non economicistici. Un’unità omogenea veniva rilevata per certi versi nell’area scandinava ma nel contempo trovava campo la consapevolezza di un’Europa disposta a considerare anche l’altro da sé: cercare di capire chi è diverso; pensiero che può tornare utile in una temperie di trapasso come la nostra dove assistiamo ad una fase di forte compressione dell’informazione verso forme liquidatorie di problemi complessi, sotto l’accelerazione di un sapere così frantumato da apparire irriconoscibile.

Ottusità, ritardi, violenze sfidano l’intelligenza, la razionalità, caratteristiche che già allora sembravano emergere dallo strano capitalismo cinese in grado di coniugare stato e mercato, mettendo in risalto le debolezze di una legislazione commerciale già troppo permissiva, a danno di quella cultura media che proprio la Francia ergeva nella cerchia della propria borghesia forse il lascito più speranzoso per un riflesso continentale minimamente adeguato. Una cerchia piuttosto mobile, che oggi vediamo ridotta e di molto, ma che Piovene certificava come una società evoluta, molto diversa a confronto di quella inglese, accreditata di una capacità di adattamento al mondo artistico, con il genio del bizzarro, in grado di screditare a vari livelli gli estremi sociali e ritrovarsi in una medietà anomala rispetto a quella francese e tedesca. Una medietà che offriva comunque un sistema universitario selettivo ma nel contempo non precludeva una certa quantità di anarchia che ha condotto verso una Londra cosmopolita ma depotenziata in prospettiva e ad ampie periferie in sofferenza, nell’incertezza della Brexit, periferie che comprendono anche la mossa Scozia, alla ricerca della propria indipendenza, della quale Piovene ci dà una splendida pagina di carattere naturalistico. La libertà personale diventa una problematica costante dei viaggi europei dell’autore, è la questione che più sta a cuore come un’ossessione pervasiva ai cittadini europei, quanto la libertà di coscienza in Olanda, che in modo esplicito considera le prostitute rispettabili lavoratrici in quanto puntuali con il fisco, e ove la pillola cautelativa – solo per fare un esempio – regge e domina il confronto con la querelle della verginità materiale della madre di Cristo, tema nettamente minoritario a confronto. Non erano quisquilie nel 1973 quando gli scricchiolii nel mondo cattolico se da una parte affermavano valori dall’altra cozzavano con la volontà di vivere liberamente per altre vie, pur rimanendo la spada di Damocle di cercare sentimenti e cuore per un’Europa sfuggente. Un’Europa orizzontale, federale, diffusa, decentrata, di densità omogenea si concretizzava permanentemente anche attraverso vuoti istituzionali, istituzioni alla deriva alla ricerca di nuove forme di rappresentanza. Sono discorsi che in Belgio, Piovene e non solo si sentono preconizzare insistentemente con la curiosa coincidenza che ci troviamo nelle zone di maggiore centralizzazione del potere europeo attuale.

La parentesi scandinava è molto interessante tra lo scorrere veloce di una Svezia pienamente consapevole della propria forza di marketing – una grande compagnia di assicurazione grazie a un welfare ora non più sostenibile con quel vigore – e si badi bene oltre la cornice del MEC e di una Unione Europea che andrebbe a minare equilibri di una compattezza partecipativa ricorrente. Ma anche peculiare e singolare negli atteggiamenti familiari e individuali, una Swedish way of thinking che si impone in via istituzionale a combattere persino la solitudine, nella forma più estrema. Un’ipertrofia della socialità, la definisce Piovene, con la natura ad impersonare il ruolo trascendente del divino. La Norvegia mantiene una mentalità marinara autentica, un profilo più “barbaro” della Svezia, di navigatori che sanno attardarsi in un gioco che avanza sicuro e autonomo, ma con meno autocompiacimento e più ruvidezza. La maestosità dei fiordi norvegesi tesse un ordito che lascia spazio all’immaginazione ma anche alla presenza più presaga di avventura complice e parzialmente prevedibile.

La Finlandia è un coagulo di certezze raffinate, di straordinarie vitalità appartate e quasi gelose di un’intimità naturale e molto autoctone, di architetture fisiche e mentali che hanno subìto l’influsso russo e svedese preservando una quasi intatta specificità culturale (l’arte dei cristalli è sapienziale). Qui l’Europa incontra qualcosa che le è proprio ma anche un accento diverso, uno spazio di laghi e betulle, tra rocce nere e boschi di una terra nazionalista, un’essenza speciale piena di sottigliezze e distinzioni che rifrangono uno stile sinuoso. La luce di Helsinki mostra la città più silenziosa e forse più bella del Nord. La Danimarca mantiene qualcosa del tratto tedesco nella sua cultura in un misto anglosassone e proprio: è stato il primo paese a sdoganare la pornografia e primordiali forme di poliamore. Piovene registra per tempo: siamo pur sempre nel paese di Andersen ma anche di Kierkegaard verrebbe da aggiungere, favola e una certa forma di misticismo si toccano. L’Irlanda è una tappa quasi turistica per Piovene che ha vissuto più volte tutti i paesi esplorati in epoche anche molto diverse – ciò avvalora una sorta di viaggio nel viaggio già complesso in un novecento multiforme – e tra gli alberi più belli d’Europa si stempera quella voglia di Europa, vedendo già l’illusione di un continente ancora da edificare, tra impressioni fresche e datate, ambizioni e illusioni che alludono a un futuro precario.

Lo splendidamente intatto dell’entroterra spagnolo vale ancora, come la speculazione edilizia della costa, ma quale balzo ha fatto la hispanidad odierna nel mondo, l’investimento sicuro ed efficace nel turismo e nell’agricoltura, nei trasporti di qualità, nel gusto igienico decoroso per chiunque frequenti beni pubblici e servizi. La Spagna ha virato con forti autonomie e un’attenzione speciale all’uomo – qualunque esso sia – che metta piede sul proprio suolo. La Spagna – scriveva bene non solo Piovene, ma Ortega, Unamuno, Giusso e molti altri – non è solo Europa e Africa, ma anche molto altro e soprattutto Spagna nella sua diversificata forma e sostanza. Popoli orgogliosi di essere parti decisive di una sedimentazione varia e ampia, ordinatissima nei suoi vigneti ed oliveti, persino commovente nel reale e concreto sussiego della Andalusia, con Granada e l’Alhambra allo zenit e la Giralda a Cordoba come torre eletta araba nel mondo per bellezza. Piovene ammira pure il Portogallo delle coste, un paese attardato ma dolce, gentile, permaloso, orgoglioso e indolente. Una periferia tutta particolare, così lontana dal sentire quasi montanaro di una certa Spagna. Europeo ma anche qui con caratteristiche così tipiche da farne un microcosmo, un mondo a parte.

L’Europa oggi è la Germania unita, il tedesco la occupa con la forza di un’economia globalizzata, di stampo statunitense, è un paese che ha fatto i conti con il proprio passato rielaborandolo profondamente e passando ad altro, superando quell’ansia che Piovene registrava nelle terre che non vedono quasi del tutto il mare come sosteneva Savinio (e Sorte dell’Europa sarebbero pagine da leggere accanto a quelle dello scrittore vicentino), Piovene avverte per tempo a Berlino che l’aria sta cambiando nella città dell’assurdo recinto, così come Monaco l’aveva preceduta in quella gigantesca opera di ricostruzione dove vi è un curioso e interessante incontro con Konrad Lorenz. Piovene crede negli individui, nelle nazioni, nelle ragioni di un continente che rimane ambiguo e anfibio, come quando esisteva la grande divisione ad Est, ora venuta meno, ma che non ha dissolto quel grado di diffidenza tra le nazioni che sembra portare verso accordi a più velocità, tra fanatismi, opportunismi e silenzi prudenti interni ed esterni alle dinamiche delle relazioni internazionali.

La crescita paritaria dell’Europa è una favola sentenziava Piovene nel 1973, che credeva nel ruolo guida della Francia (aveva già dedicato nel 1966 un notevole saggio, Madame la France, che merita di essere vagliato con attenzione quanto il suo De America, per non parlare di quel capolavoro che resta Viaggio in Italia) dove la crisi dell’idea di Europa, l’Europa semilibera appunto, era anche una crisi di sogni, di utopie vitali, di ipotesi realmente percorribili nel tempo lungo di un’unificazione graduale e sensata. In un panorama editoriale raramente attrattivo come il nostro, non appare fuori luogo attuare qualche ripescaggio di autori di alto livello, il caso di Piovene poi offre anche sul fronte narrativo e biografico ampi spazi inediti di indagine. Europeo lo era già per vocazione, ma non aveva dimenticato la sovrana bellezza e stanchezza di un certo paesaggio veneto, a lui carissimo.

 

Stefano Chemelli

Robert Musil: 10 frasi per ricordarlo

Robert Musil è tra i più importati scrittori del ‘900 europeo e rappresenta una pietra miliare nello sviluppo della sensibilità anti-soggettiva, che si muove in direzione opposta all’ideologismo e al moralismo. Per lo scrittore austriaco l’uomo privo di determinazioni proprie, “senza qualità”, si pone in un rapporto di «passività attiva» con se stesso e con il mondo circostante.

Dopo l’esperienza della guerra, l’ingegnere meccanico Robert Musil, lavorò come bibliotecario, redattore editoriale, impiegato del ministero per la propaganda alle truppe. Dal 1923 si dedicò esclusivamente alla letteratura. Nel 1931 lasciò Berlino e tornò a Vienna. Nel 1939 si rifugiò a Ginevra dove visse in dignitosa povertà fino alla sua morte che lo colse improvvisamente mentre lavorava al suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Tra le sue opere precedenti figurano: Incontri, Tre donne, Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. Nel 1924, Robert Musil venne onorato con il premio dell’arte della città di Vienna, nel 1927 tenne un discorso a Berlino in occasione della morte di Rilke e nel 1929 Musil venne premiato con il premio letterario Gerhart Hauptmann.

Attraverso il protagonista nel capolavoro L’uomo senza qualità, Ulrich (che in realtà di qualità ne ha molte, ma manca di determinazione), Musil cha compiuto un viaggio  intellettuale attraverso le idee e le tensioni del suo tempo, scoprendo così le carenze delle tradizionali visioni del mondo. In questo senso storia, sociologia, economia, filosofia, religione, politica, sono ambiti importanti che offrono punti di vista limitati, che coabitano e si respingono in una cultura che non ha più la capacità raggiungere una sintesi complessiva.

 

1. “La matematica è un’ostentazione di audacia della pura ratio; uno dei pochi lussi oggi ancora possibili. Anche i filologi si dedicano spesso ad attività nelle quali essi per primi non intravedono il minimo utile, e i collezionisti di francobolli o di cravatte ancora peggio. Ma questi sono passatempi inoffensivi, ben lontani dalle cose serie della vita. La matematica, invece, proprio in esse abbraccia alcune delle avventure più appassionanti e incisive dell’esistenza umana”.

2.”Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è”.

3.”[…] anche l’amore era fra quelle esperienze mistiche e pericolose, perché toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a mezz’aria sopra un abisso senza fondo”.

4.”Negli anni della maturità pochi uomini sanno, in fondo, come son giunti a se stessi, ai propri piaceri, alla propria concezione del mondo, alla propria moglie, al proprio carattere e mestiere e loro conseguenze, ma sentono di non poter più cambiare di molto. Si potrebbe sostenere persino, che sono stati ingannati; infatti è impossibile scoprire una ragione sufficiente per cui tutto sia andato proprio così come è andato; avrebbe anche potuto andare diversamente; essi hanno influito pochissimo sugli avvenimenti, che per lo più sono dipesi da circostanze svariate, dall’umore, dalla vita, dalla morte di tutt’altri individui; e solo in quel dato momento si sono abbattuti su di loro”.

5.”Dio non intende che si prenda il mondo alla lettera: il mondo è un’immagine, un’analogia, un modo di dire del quale egli deve servirsi per un motivo qualunque, e naturalmente è sempre approssimativo; non dobbiamo prenderlo in parola, tocca a noi stessi trovare lo scioglimento del quesito ch’egli ci impone”.

6.”Ogni progresso è anche un regresso. C’è progresso sempre e solo in un determinato senso. E poiché la vita nel suo complesso non ha senso, nel suo complesso non ha nemmeno progresso”.

7.”Si ama una certa persona nonostante tutto, e anche per nessuna ragione; e ciò significa che il tutto è un’illusione, o che quest’illusione è un tutto, com’è un tutto il mondo, dove non si muove una foglia senza che l’Onnisenziente se ne accorga”.

8.”Se avete intenzione di affogare i vostri problemi nell’alcool, tenete presente che alcuni problemi sanno nuotare benissimo”.

9.”Listante non è altro che il punto di malinconia tra il desiderio e la memoria”.

10.Sport. Si potrebbe definire il sedimento di un odio universale finissimamente diffuso, che precipita nelle competizioni sportive”.

Alfredo Oriani, schietto ritrattista di anime inquiete

Alfredo Oriani (Faenza, 1852 – Casola Valsenio, 1909) è stato uno scrittore autentico, profondo, sensibile; uomo fiero e solitario, complicato, non avvezzo alla mondanità, ma soprattutto è stato un autore dimenticato, che ha passato la sua esistenza tra l’incomprensione della maggior parte dei critici e l’indifferenza del pubblico.

Rivalutato nientemeno che da Benito Mussolini, da poco salito al potere, finalmente Alfredo Oriani conosce un periodo glorioso post-mortem grazie alla pubblicazione da parte del Duce dell’opera omnia, in trenta volumi, dal 1923 al 1933.

Alfredo Oriani: la forza emotiva dei suoi romanzi

Alfredo Oriani ha scritto perlomeno due romanzi molto belli: Olocausto e Vortice; ha avuto un buon riconoscimento da Benedetto Croce in uno dei saggi della Letteratura della nuova Italia. Tuttavia la sorte ha riservato ad Alfredo Oriani un destino infausto. Secondo Renato Serra, il romanziere non arriva a un soliloquio intimo in cui l’uomo sia per se stesso materia e spettacolo per lo scrittore; egli infatti non è fatto per sdoppiarsi nemmeno quando parla di se. Ma le prospettive e le esigenze dei punti di vista cambiano e in questo senso sarebbe molto interessante riprendere alcuni romanzi di Alfredo Oriani che vanno dalla fine dell’800 all’inizio del ‘900: Gelosia (1894), La disfatta (1896), Vortice (1899) e Olocausto (1902), per vedere cosa potremmo trovarci dalla nostra prospettiva mutata.

Queste opere sono pervase da una forza schietta e indefinibile che vince il giudizio e il gusto per lasciare solo l’inquietudine delle anime. Si sente solo il dramma degli uomini e Alfredo Oriani mostra le loro anime nude e misere come fanno Zola e Tolstoj. Se prendiamo in esame il romanzo Gelosia, noteremo come questo libro, pur presentando dei difetti, sia ricco di qualità e virtù che pur mancano, Verga escluso, a tutti i romanzi che spuntano in Italia durante la stagione verista; e i limiti di Oriani si trovano dove egli viene meno al canone dell’impersonalità.

I romanzi di Alfredo Oriani, soprattutto La Disfatta, sono drammatici resoconti  di fallimenti, rovine e disastri , ma non rientrano in un certo “dover essere”, in una certa poetica della narrativa. I romanzi di Oriani rientrano nell’atmosfera che contraddistingue il materiale narrativo e lo stile del romanzo naturalista; tuttavia emergono però l’indipendenza di Alfredo Oriani dai modelli, soprattutto francesi. Senza dubbio La Disfatta è il romanzo più compiuto di Oriani per un lettore comune, ma è stato concepito meno schiettamente rispetto agli altri, in cui vi trapelano ambizione e volgarità. Alcuni critici, come il già citato Serra, ritengono che la qualità dei sentimenti personali di Oriani sia discutibile, se non addirittura bassa e che l’autore dia fastidio quando interviene troppo spesso di persona se descrive un paesaggio o un monumento; insomma secondo alcuni Oriani trova sempre il modo per infilare se stesso tra le pagine di un romanzo. E ancora: anche nel romanzo novecentesco Olocausto, Alfredo Oriani, secondo i critici Ambrosini e Serra, ha commesso un grave errore, quello di non fermarsi subito dopo la morte della piccola Tina, la protagonista, quando la madre, che l’ha prostituita, va a letto sola e sente sotto il suo corpo, nel materasso, “la buca della morta”. Secondo i critici dunque, Oriani non era contento nelle sue immaginazioni.

Ma nonostante diversi giudizi negativi, non si può non affermare che i romanzi di Oriani hanno in sé una grande forza emotiva e artistica e riescono a cogliere nel segno proprio perché derivano dall’identificazione tra i fallimenti e le sofferenze dell’autore e i disastri toccati ai suoi personaggi. Identificazione strettamente e visibilmente autobiografica, identificazione che di certo non deriva dall’essere informati sulla vita e sul privato di Oriani (soprattutto la sua presunta misoginia), altrimenti si scadrebbe solo nel pettegolezzo, anche perché l’autore emiliano era gelosissimo della sua infelicità personale che non potremmo mai assimilare alle vicissitudini da lui narrate. In lui l’intrusione autobiografica e il tentativo di catarsi allo stato di sfogo è divenuto lievito di poesia.

I critici di Alfredo Oriani sono tali in quanto essi hanno come modello di romanzo solo quello verista, essendo Oriani uno scrittore che ha vissuto perlopiù l’800; bisognerebbe mostrare, invece, quanto egli sia anche molto “novecentesco”, come i suoi personaggi, con i quali è stato reciso il cordone ombelicale, siano effettivamente dei personaggi-uomo, i quali patiscono le offese dell’autore, e che diventano sentimenti universali della vita.

Giovanni Papini: l’intellettuale “teppista”

Giovanni Papini nasce a Firenze nel 1881 in un’Italia che viene definita “l’Italia delle due guerre”, e muore nella sua città d’origine nel 1956. In questo preciso momento storico l’intellettuale sente il bisogno di trasformare radicalmente la cultura e la letteratura. La città fulcro di questa necessità è Firenze dove la giovane generazione degli intellettuali vuole diffondere le proprie idee e i propri programmi attraverso la fondazione di riviste. La più importante tra le prime riviste fiorentine è il «Leonardo» nata nel gennaio del 1903 sotto la direzione di Giovanni Papini e di Giuseppe Prezzolini, e uscita fino all’agosto del 1907.

Il <<Leonardo>> ha un taglio nettamente filosofico, e propone un programma di svecchiamento culturale. I due direttori sono influenzati dall’estetismo dannunziano e dall’irrazionalismo decadente di un’altra rivista «Il Marzocco». Quando nel 1907 il «Leonardo» cessa le pubblicazioni a causa delle diverse vedute dei direttori, Papini si indirizza verso le teorie spiritualistiche ed esoteriche mentre Prezzolini cerca un collegamento tra la ricerca filosofia e l’impegno intellettuale fondando nel 1908 un’altra rivista «La Voce», che dirige fino al 1914 con l’aiuto occasionale di Papini. Nel 1911 Papini si stacca definitivamente dalla rivista collaborando con Giovanni Amendola alla fondazione de  «L’anima», che si basa su un’autonoma ricerca di tipo spiritualistico e religioso. Tuttavia questa collaborazione non dura a lungo e  Papini fonda nel 1913, con Ardengo Soffici, la rivista «Lacerba», che diviene l’organo del futurismo guidato da Aldo Palazzeschi.

Giovanni Papini e la figura dell’intellettuale

Il processo di industrializzazione determinò una crisi dei ruoli umanistici tradizionali. L’atteggiamento degli intellettuali risultò differente e determinò lo sviluppo di diversi movimenti letterari: i crepuscolari che tendevano a negare i ruoli tradizionali rifiutando la figura del poeta-vate, i futuristi che dichiaravano esaurito il ruolo umanistico degli intellettuali, il valore dell’uomo di cultura stava  nell’anticipazione del futuro. I vociani, che promuovevano una figura dell’intellettuale omologa all’industria e integrata nello sviluppo della modernizzazione. Un’altra è stata la via inaugurata da Giovanni Papini che, nonostante la formazione umanistica, viene influenzato da d’Annunzio e dalle avanguardie. Questo ha determinato una mescolanza di argomenti ed ideali. Sulla linea dannunziana e umanista Giovanni Papini propone un ruolo dell’ intellettuale-ideologo e di poeta-vate che sia protagonista, ma nel contempo, a causa dell’impotenza ad assolvere tale ruolo, sfoga la propria frustrazione in atteggiamenti iconoclasti e provocatori. Egli ha sviluppato dunque un tipo di intellettuale chiamato “teppista”, un intellettuale piccolo borghese che si compiaceva di scandalizzare ma che mirava al riconoscimento sociale e al potere. La sua figura dell’intellettuale viene sintetizzata nel Discorso di Roma del 1913 pronunciato in un teatro durante una manifestazione futurista:

“Qualcuno, che s’immagina di conoscermi, si meraviglierà, forse, di vedermi qui, in mezzo ai futuristi, pronto e disposto a urlare coi lupi e a ridere coi pazzi (benissimo). Ma io, che mi conosco assai meglio di chiunque altra persona, non sono affatto sorpreso di trovarmi in così cattiva compagnia (bravo!). Da quando, dieci anni fa, sono scappato da quelle case di perdizione che son le scuole (primi urli) per buttar fuori quel che avevo accumulato in un lungo incubamento di solitudine ho avuto sempre il vizio di star dalla parte dei matti contro i savi; con quelli che mettono il campo a rumore contro quelli che voglion stabilire il pericoloso ordine e la mortale calma; con quelli che hanno fatto ai cazzotti contro quelli che stanno alla finestra a vedere ( gridi svariati). Mi hanno chiamato ciarlatano, mi hanno chiamato teppista, mi hanno chiamato becero ( bene!). Ed io ho ricevuto con inconfessabile gioia queste ingiurie che diventano lodi magnifiche nelle bocche di chi le pronunzia. Io sono un teppista, è arcivero (verissimo!). M’è sempre piaciuto rompere le finestre e i coglioni altrui (vocìo enorme) e vi sono in Italia dei crani illustri, che mostrano ancora le bozze livide delle mie sassate (proteste, alcune signore si alzano). Non c’è, nel nostro caro paese di parvenus, abbastanza teppismo intellettuale. Siamo nelle mani dei borghesi, dei burocratici, degli accademici, dei posapiano, dei piacciconi (gridìo confuso). Non basta aprire le finestre – bisogna sfondar le porte. Le riviste non bastano ci voglion le pedate (approvazioni ironiche). Per questo mio stato d’animo, per questa mia nativa ed invincibile inclinazione al becerismo spirituale, io, per quanto non futurista (risate, insulti), non ho potuto fare a meno di accettare l’invito di Marinetti e di venir qui a far la parte di buffone schiamazzatore dinanzi a tante serie persone (è vero!). Ho già scritto e stampato tutto il male e tutto il bene che penso del futurismo e non voglio ripetermi. Ma resta il fatto importante e fondamentale che in questo momento, in Italia, non v’è altro moto d’avanguardia vivo e coraggioso al di fuori di questo; non v’è altra compagnia possibile e sopportabile per un’anima di distruttore, per un’anima seccata dell’eterno ieri e innamorata del divino domani – resta il fatto gravissimo, signori miei, che tra questi canzonati futuristi vi sono uomini di vero ingegno che valgono assai più dei graziosi scimpanzé che ridon loro sul viso (urli bestiali). Queste ragioni mi son bastate e mi bastano per sfidare l’obbrobrio che può cadere sul mio capo scarmigliato per questo mio gesto di simpatia, e, se volete, di solidarietà (tumulto in platea)”.

Da: Giovanni Papini, “Lacerba”, anno I, n. 5, 1°marzo 1913.

Il pragmatismo magico di Papini

Giovanni Papini ha aderito al pragmatismo con l’obiettivo di trovare una soluzione organica ai vari ragionamenti filosofici e per configurare una filosofia in grado di sostenere le proprie scelte esistenziali. In altri termini, a una vita intesa come missione doveva corrispondere una filosofia del fare. Una filosofia della prassi dunque, che conduce all’analisi della volontà come funzione determinante dell’azione e della credenza, credenza che è regola d’azione quando ci si trova nelle situazioni di dubbio, ponendo nel risultato dell’azione la sua verificazione. Tale questione è affrontata da Papini nel saggio La volontà di credere.

Dalla combinazione di diversi elementi quali il sogno della divinità e della magia, l’ambizione di possedere la realtà e di trasformarla, il pragmatismo diventa magico, perché con la pratica, seconodo Giovanni Papini, si sfugge a tutti gli inganni e a tutti i tradimenti del razionalismo e dell’espressione e con lo spirito si creano nuovi mondi. Urge secondo lui trasformare la realtà, sradicando il rapporto soggetto-oggetto che caratterizzato tutta la filosofia, per fare sì che si possa modificare il mondo solo attraverso il “miracolo”, reso possibile solo  dall’«Uomo-Dio» che è cristiano, magico e mistico.

Secondo Giovanni Papini, infatti, l’esigenza della divinità è innata nell’uomo, in quanto egli è insoddisfatto e desidera sempre di più. L’uomo può uscire da questa condizione di angoscia solo attraverso due vie: la rinuncia o il possesso. Ma il metodo della rinuncia è storicamente fallito, e il desiderio di onnipotenza può aprire nuovi orizzonti. Ottenuta l’onnipotenza, l’«Uomo-Dio» non avrà più desideri e di conseguenza sofferenze, ma inizierà a disprezzare le cose per la loro abbondanza e per la loro facilità con cui si ottengono. Morto il desiderio, morta anche l’azione.

Tra le opere più importanti di Papini si ricordano: Il crepuscolo dei filosofi, Un uomo finito, Polemiche religiose, Storia di Cristo, Gog, Santi e poeti, il diavolo, Sant’Agostino oltre alle numerose opere di politica, filosofia, poesia.

 

Giovanni Battista Angioletti, autore neoclassico

Giovanni Battista Angioletti nasce a Milano il 27 Novembre del 1896, da una famiglia medio-borghese. Già a diciassette anni fonda il suo primo settimanale La TerzaItalia, di stampo nazionalista ed interventista. Il romanzo che invece ha fatto sì che si diffondesse la sua fama in quanto autore è stato Il giorno del giudizio, grazie al quale si è aggiudicato anche il Premio Bagutta.

Durante il ventennio fascista, in Giovanni Battista Angioletti, come spiegato nell’antologia di C. Salinari -C.Ricci

prende vita una visione apocalittica del mondo, suggerita non soltanto dall’inquietudine per la sorte dell’uomo, ma soprattutto per la sorte di quei beni spirituali, di una vita morale, di una civiltà dello spirito che sono la creazione di generazioni innumerevoli succedentisi nei millenni, minacciate dal sopravvenire di una civiltà della tecnica che, frutto anch’essa dell’intelligenza e della civiltà umana, è tuttavia, forse perché troppo spesso nelle mani di uomini impreparati moralmente ai suoi vantaggi, incline a degenerare una forza negativa, pressoché demoniaca.

Appassionato di giornalismo, Angioletti, ha scritto articoli per numerose testate ed è stato condirettore dell’ Italia letteraria, assieme a Curzio Malaparte, negli anni che vanno dal 1928 al 1935. Un ruolo come direttore dell’istituto italiano di cultura a Praga e come insegnante di letteratura italiana presso alcune città come Diogene e Parigi, lo tengono lontano dalla sua città natale, nella quale ritornerà solo con lo scoppio della guerra. Intorno al ’45, dirige la Fiera Letteraria. Angioletti, inoltre, è stato uno dei fondatori della Comunità europea degli scrittori, restando al contempo anche segretario del Sindacato Nazionale Scrittori Italiani:

In realtà le mie battaglie si svolsero quasi tutte sul terreno letterario; specie durante la lunga contesa tra i calligrafi e i contenutisti (e io, a torto o a ragione, ero considerato come un capofila dei primi).

Suggestionato dalla letteratura europea soprattutto quella di matrice inglese e francese (nonostante le differenze evidenti dal punto di vista culturale e sociale), Giovanni Battista Angioletti considera la letteratura ”puro stile”, prosa d’ arte che non deve mescolarsi con nient’altro ma restare autonoma e indipendente. Angioletti insiste sulla distinzione tra poesia e prosa, polemica piuttosto accesa in quegli anni, ritenendo che la prosa meriti la stessa dignità letteraria fino ad allora riservata alla poesia; secondo lui infatti, l’autore, bravo, infatti, è proprio colui che riesce a fondere entrambe senza sacrificare i contenuti.

Giovanni Battista Angioletti: tra letteratura e giornalismo

La linea di Angioletti, palesemente neoclassica e lontana soprattutto dalla letteratura naturalistica e realistica, da lui seguita è quella abbracciata dalla <<Ronda>>, anche se non manca in lui il bisogno di un rinnovamento e di un’apertura verso quell’Europa già più moderna ma sempre portatrice di saldi valori nei quali il letterato può riconoscersi. Un’intesa attività come giornalista ha accompagnato la sua attività di scrittore: gusto formale ma soprattutto una grande forza morale restano i capisaldi del suo pensiero: ”il nuovo romanticismo” (interessanti in questo senso gli articoli scritti per il volume Le carte parlanti). Nel ’49 lo scrittore milanese risulta vincitore del Premio Strega, con La Memoria, la sua opera più conosciuta ma anche aspramente criticata perché ritenuta troppo monotona.

Ritratto del mio paese (1928) e Italia felice (1947) sono invece i testi in cui la descrizione del paesaggio (tema costante e molto caro allo scrittore) non è affatto idilliaca come si potrebbe pensare, non prevalgono sentimenti ancestrali ma anzi dietro l’angolo si cela il pericolo della noia, da cui si può sfuggire solo attraverso un dialogo con gli altri e una predisposizione maggiore alla vita. Odio e amore, dunque, verso la propria terra ma anche speranza nel cambiamento e nelle belle pagine. Angioletti si spegne a Santa Maria la Bruna il 3 Agosto del 1961, presso Torre del Greco.

Giovanni Battista Angioletti, come riporta il sito http://www.cristinacampo.it/public/giovan%20battista%20angioletti.pdf, si interroga sulle reazioni di Giacomo Leopardi di fronte ai luoghi vesuviani: la natura feconda, il sole splendente, la bellezza dei paesaggi avranno smentito le teorie pessimistiche? La gioia della gente, la vitalità degli abitanti, le voci squillanti avranno messo in dubbio le convinzioni del poeta? Solo apparentemente, sostiene Angioletti: il poeta di Recanati non poté non percepire la tristezza di quei contadini. In ogni caso Angioletti ha amato Torre del Greco, con le sue campagne e questo amore ha forse anche una precisa spiegazione: lo scrittore si scagliò sempre contro la civiltà moderna, distruttrice dei valori spirituali con il suo tecnicismo materialistico e contro il lucido e freddo razionalismo di origini illuministiche: forse in quella campagna Angioletti ritrovava la sua “poesia”, l’atmosfera surreale, l’essenza originaria e profonda delle cose.

Ariosto visto da Pirandello

Senza dubbio la cultura letteraria novecentesca ha rinvenuto una proiezione speculare di sé più nelle fome del barocco piuttosto che in quelle rinascimentali e del classicismo cinquecentesco, esprimendo la propria identificazione con le immagini della dissonanza, smarrendo ogni tensione verso gli ideali di unità e integrità propri di un’idea classica di letteratura. Pensiamo a Luigi Pirandello e alla sua pratica dell’arte del contrasto e della contraddizione, distonica con i canoni della tradizione letteraria, che però esprime un giudizio sulla civiltà letteraria del rinascimento e in particolar modo su uno dei suoi massimi rappresentanti, Ludovico Ariosto, positivo ma a tratti ambivalente.

Pirandello discute il tema della Retorica, ovvero l’insieme delle codificazioni, del sistema di regole di origine classica entrate in crisi con il romanticismo:

<<La Retorica, insomma, era come un guardaroba: il guardaroba dell’eloquenza dove i pensieri nudi andavano a vestirsi. E gli abiti, in quel guardaroba, erano già belli e pronti, tagliati tutti sui modelli antichi, o meno adorni, di stoffa umile o mezzana o magnifica, divisi in tante scansie, appesi alle grucce e custoditi dalla guardarobiera che si chiamava convenienza. Questa assegnava gli abiti acconci ai pensieri che si presentavano ignudi>>.

Ma se Pirandello parla dei danni incalcolabili prodotti dagli schemi della Retorica, egli respinge generalizzazioni e codici astratti; la sua polemica non investe il rinascimento come idealità grande che ha illuminato il mondo, ma funzionalizza il discorso sul rinascimento e in particolare su Ariosto alla sua poetica, in cui si preoccupa di giustificare storicamente quella poetica, tracciando un quadro della tradizione dell’umorismo. La mente va inevitabilmente alle pagine dell’Avvertenza che Pirandello ha apposto in appendice alla terza edizione del Fu Mattia Pascal, specialmente dove egli ironizza sui critici idealisti ansiosi di ribadire che l’umanità sia qualcosa che consiste più nel sentimento che nel ragionamento.

Pirandello e l’umorismo

Nella prima sezione del saggio L’umorismo, il diagramma storiografico dell’umorismo appare come un movimento di trasgessione nei confronti dei canoni vincolanti di moduli retorici, basato sulle leggi di imitazione e ripetizione; la letteratura umoristica in Italia è stata alimentata, secondo Pirandello, da scrittori toscani di cui il capofila è stato Cecco Angiolieri, che lo scrittore siciliano definisce “di popolo”, ovvero lontani dalla scuola e dunque maggiormente inclini a distaccarsi dalla Retorica. Il riso italico nemico della Retorica è una forma di sconnessione anche se non è possibile identificarlo con l’umorismo in senso stretto in quanto quest’ultimo ha bisogno di una drammatizzazione e di un’immersione dell’autore stesso nel dramma, aspetto, questo, che non si riscontra mai nella poesia cavalleresca; da Pulci ad Ariosto prevale una forma di ironia che riduce o annulla contrasti troppo violenti, che invece esploderanno in Cervantes. Ariosto non scrive, come Pulci, per parodiare la “lingua buffona del popolo”, né come Boiardo, per “buon tempo e gradito sollazzo” al pubblico; Ariosto è più “serio” da questo punto di vista.

Pirandello parte dalla considerazione che bisogna respingere l’idea sostenuta dal filologo Rajna, secondo cui l’autore dell’Orlando furioso con sorriso incredulo trasforma in fantasmi i personaggi dell’Orlando innamorato; al contrario egli dà a quei personaggi ciò che a loro manca: consistenza e fondamento di verità fantastica e coerenza estetica. Ma in questo gioco, spesso irrompe la realtà, quella del presente e si dispiega l’ironia che però non stride. Significativo a tal proposito è il commento dell’episodio del castello di Atlante dove si incastonano, nota Pirandello, due magie: il poeta diviene un mago e fa entrare Angelica viva nel castello. Ad una prima finzione si sovrappone una seconda finzione, quella di Angelica resa invisibile dal suo anello. In Ariosto, secondo l’autore siciliano, l’ronia discoglie la realtà come dimostra anche l’episodio del volo di Ruggiero sull’ippogrifo.

Insomma anche quando il poeta con la magia dello stile riesce a rendere più solida la realtà, all’improvviso essa si posa sulla realtà effettiva, rompendo l’incanto della fantasia. Il gioco di Ariosto dunque, secondo Pirandello, mira a stabilire in continuazione un legame tra sé e la materia, tra le condizioni inverosimili del passato e le ragioni del presente. Dove non è possibile stabilire tale legame, ecco che interviene in maniera armonica l’ironia.

 

Bibliografia: A. Saccone, Qui/vive/sepolto/un poeta, Liguori editore.

La camera azzurra, il romanzo-interrogatorio di Simenon

La camera azzurra (Adelphi, 2003) è un romanzo di Georges Simenon e viene pubblicato per la prima volta nel 1964; esso va collocato nel genere poliziesco per la presenza di un giudice, di un investigatore e di un’atmosfera che ha non poco a che fare con il giallo ma che da esso si diparte in fretta. O, per meglio dire, chi legge quest’opera avrà una sensazione diversa, in cui languore e disgusto sedimentano e stimolano la lettura che non è quello che si prova leggendo un giallo di Agata Christie.

L’autore della Camera azzurra è ormai mitico: si tratta dello scrittore belga Georges Simenon, ideatore delle vicende del celebre commissario Maigret. Simenon è uno scrittore strabordante e ricco di talento, quasi convulso. Il fenomeno Simenon vuole che egli abbia scritto un romanzo nell’arco di una settimana, così come è nota la storia della sua irrefrenabile e mai esausta creatività. Improbabile fornire infatti una bibliografia della sua opera completa: si tratta di uno scrittore che vive per scrivere mai scrive per vivere:

“Sono passato poco a poco da 12 giorni ad 11, a 10, a 9. Ma ecco che per la prima volta sono giunto alla cifra 7, che è diventato come lo stampo definitivo nel quale saranno colati ormai i miei romanzi” (G. Simenon).

Tony Falcone, protagonista del romanzo, vive a Saint-Justin con la sua famiglia, insieme alla moglie Gisèle dalla quale ha avuto una bimba, Marianne. La loro è una vita semplice e genuina, fatta di abitudini, certezze e molti sacrifici. Basata sul reciproco rispetto e su di un amore “razionalmente” controllato, così prosegue la vita dei coniugi, fino ad un momento: quello in cui Andrée entra nella sua vita. Lei alta e fredda così che a Tony  pare una “statua”, una donna senza emozioni che non può dare amore, almeno questo è ciò che Tony crede. Quella donna diventerà l’amante disinibita, cruda ossessione, la sua rovina, pone fine alla calma – che vige nello stagno noioso di un piccolo borghese –  impettita dell’esistenza. Ma la protagonista eccentrica della storia, nucleo dell’intreccio che ritorna a più riprese non è una donna, bensì lei: la camera azzurra. Come fosse animata da un spirito ribelle, accompagna Tony fino alle ultime pagine.

A Tony bambino il colore azzurro sembra un miracolo, come può una polverina cromata di cielo candeggiare  lenzuola e vestiti? Allo stesso modo, si può costruire un parallelo tra questo non cedibile candore, la pulizia che a Tony ricorda l’amore materno, con la relazione con la devota moglie Gisèle? Se non fosse per quell’azzurro mozzafiato della stanza dell’Hotel de Voyageurs, che lo ha tentato inconsciamente, non sarebbe colpevole, no, non lo sarebbe. Strano, è proprio quello che Andrée si lascia scappare durante il proprio interrogatorio al giudice: “Le donne come lei non sono capaci di un vero amore”. Così, secondo Andrée, Giséle Falcone sarebbe un corpo svuotato dell’istinto, una moglie affidabile ma non una donna innamorata. E’ curioso perciò constatare che l’immagine che Tony aveva anteriormente al primo vistoso amplesso con Andrée, mai svelata all’amante, sia la stessa che l’amante di Falcone ha della sua rivale. Inversione di ruoli o gioco di specularità? Una cosa è certa: le donne del libro sono virili nell’animo, pusillanime è invece il ritratto di Falcone. C’è un momento, uno spartiacque nella vicenda, raccontata tramite la serie di interrogatori ai quali viene sottoposto il protagonista, quello dell’invio delle lettere spedite da Andrée. Lì Tony si sveglia, e comincia l’incubo giudiziario. E’ colpevole, lui stesso lo dirà. Ma di cosa? Di non essere stato sincero con se stesso? O c’è dell’altro? Si sovrappone il passato al presente, la bellezza al turpe inferno delle domande.

Simenon mostra in una parola, in un suono o in un dettaglio, nell’indubbia paura che si può scivolare nel baratro e racconta proprio questo: chi sopravvive nell’infelicità è morto da tempo. Solo ad un certo punto del libro l’autore ci concede di capire, ma non tutto. Il  protagonista, insieme alla sua amante Andrée, è artefice di una vicenda torbida e piena di ambiguità. Non sono solo amanti, ma accusati di un ignominioso crimine: entrambi sono stati arrestati con l’accusa di aver commesso l’omicidio dei rispettivi coniugi Nicolas, ex marito, inutile e malato, e la placida Gisèle.

Con La camera azzurra lo scrittore belga è riuscito a tessere una trama autentica che trascina giù con efficacia più del vero: nella quotidianità siamo tutti Tony e abbiamo paura di scegliere. A partire dalle prime righe della prima pagina Simenon non può non colpire il lettore: che sia nel bene piuttosto che nel male, basta poco per capirlo. Quelle parole sono scolpite, affisse come un annuncio di festa che poi si capovolga in un necrologio. La sua nettezza è lampante, plastica la luce come le ombre. Si afferra ogni virgola con gli occhi, come battuta di una piccola inquadratura cinematografica, o l’inizio di una sceneggiatura.

La camera azzurra non solo è un romanzo scritto come se fosse un sogno, senza sbavature o incrinature, è una casa in cui ogni oggetto si muova come animato e, al ritorno del padrone di casa, si riponga autonomamente al posto di assegnazione;  mestoli nella credenza, la frutta sul tavolo, e così via. Ogni emozione in Simenon è al suo posto, questo libro riesce ad aprire il cuore senza chiudere la mente, la spalanca . Chi entra a leggere, non potrà uscire se non cambiato da questa storia di passione e autodistruzione. Il libro stesso risulta costruito come un interrogatorio vero e proprio che scandaglia fino alle viscere oceaniche del nulla, per poi ammettere che la verità non è mai una sola, è solo che un’omissione è più potente di una bugia. E che cos’è, la verità, se non forse solo un’impressione?

 

Alberto Moravia, ritrattista della borghesia

(Roma, 28 novembre 1907 – Roma, 26 settembre 1990)

Alberto Moravia è considerato, insieme alla sua consorte Elsa Morante, unita a lui non solo dal sentimento, bensì dall’amore per la scrittura, uno dei migliori, più intensi scrittori che l’Italia abbia mai avuto l’onore di conoscere. Un uomo che cresce in un ambiente famigliare piuttosto difficile; a tal fine sembra doveroso richiamarsi agli anni giovanili, quelli -prima dell’artefice de Gli indifferenti- in cui il bambino Moravia nasce e cresce, nel quale maturano ferite che rimarranno nascoste ma svelate, ben presto, in quelli che potremmo definire i romanzi della borghesia.

Alberto Pincherle Moravia nasce nel 1907 in una benestante famiglia dell’alta borghesia di intellettuali: il padre è architetto e pittore. Fin dai primissimi anni dell’infanzia Alberto inizia la sua battaglia contro la tubercolosi ossea, una malattia che stigmatizza in maniera irreparabile i giorni della spensieratezza e lo costringe allo studio autodidattico, a causa delle cure alle quali deve essere sottoposto, e ai lunghi soggiorni salutari in alta montagna. Nonostante ciò, Alberto va avanti e studia in totale autonomia, come un novello leopardiano. Non possono non restare incisi come l’immagine di un’incudine su ferro -nella sua personalità di scrittore- l’isolamento, la solitudine ed infine la necessità, quasi, di far proprio uno sguardo straniato sull’esistenza e sugli altri uomini. Proprio per questo egli sarà così abile, forse, nella costruzione di personaggi estraniati, trasognati e a tratti inumani: vittime di una sorta di parossismo sentimentale, innamorati di se stessi ed egoisti.

La fortuna di Moravia inizia con il romanzo d’esordio Gli indifferenti (1929): scritto tra il 1925 ed il 1928, divide critica e pubblico. C’è chi lo ama, definendolo un capolavoro, chi invece rigetta ogni virtù in esso rinvenuta. Una cosa è certa: tutto questo discutere, interrogarsi, indignarsi, in un periodo storico nel quale il genere del romanzo era in evidente stato di catatonia, esiliato ai margini del negletto, tutto questo parlare di Alberto Moravia significa accettare che egli è perlomeno riuscito a rovistare negli armadi di tutti, cogliendo non solo scheletri bensì cadaveri viventi. Quel silenzio di protezione di cui la borghesia si era premurata di coprire se stessa con attenzione e monomania, quel soprabito di pelliccia era stato sostituito da una maglia fatta di pezze ricucite. E male, anche.

Gli indifferenti racconta la storia di una famiglia borghese, come tutti i romanzi moraviani: quella di un nucleo familiare in cui vige la regola della menzogna, la virtù dell’egoismo, in cui ognuno è solo soprattutto in presenza degli altri. La borghesia è denudata in tutte le sue falsità ed inganni: l’immoralità, il perbenismo, l’ambizione sfrenata, e, non meno importante: l’ipocrisia. All’interno di una bella casa borghese, in cui tutto sembrerebbe perfetto, vivono personaggi robotizzati dall’abitudine condividere le giornate senza affetto o trasporto reciproco, senza compassione; è un microcosmo chiuso, asfittico e claustrofobico dal quale il protagonista Michele cerca di estraniarsi, allontanarsi. Ma il suo problema non è l’assenza di una coscienza, in lui vivida e vera, è l’incapacità di uscire dal giogo delle maschere. L’impossibilità di acquisire la padronanza delle proprie azioni, di agire e liberarsi definitivamente dal circuito familiare.

Le tematiche che Moravia predilige e che resteranno gli assi portanti della sua narrativa sono l’idolatria smodata per sesso e denaro. Invincibili e indomabili feticci, sono loro i veri padroni della casa di Michele. L’impostazione del romanzo è tipicamente ottocentesca, naturalistica dunque, con il tempo invece lo scrittore maturerà un approccio più ponderato ed intellettualistico alle vicende. Questo grazie ai suoi studi personali e alle influenze culturali: la filosofia esistenzialista, il marxismo e la psicanalisi freudiana. Nonostante Moravia sia un uomo di sinistra, mai si definirà come un intellettuale: sfrutta il marxismo solo come canale privilegiato di potenziamento ed arricchimento culturale, e per affinare il suo gusto critico. Nel 1935 esce il romanzo poco conosciuto, così come sarà poco amato, Le ambizioni sbagliate. Il mancato credito attribuito all’opera è probabilmente dovuto alla macchinosità della costruzione narrativa, tra il giallo ed il noir, che si richiama al modello del grande Dostoievskij.

L’impostazione moraviana dei romanzi resterà quasi sempre di tipo realistico, ottocentesco anche nei racconti come quelli delle raccolte: La bella vita (1935), L’imbroglio, quest’ultima datata 1937. Altra perla letteraria è il racconto lungo dal titolo Agostino, pubblicato nel 1945, il quale ci presenta la storia di un tredicenne di buona famiglia che, durante una vacanza al mare, scopre l’esistenza del sesso e delle disuguaglianze sociali. Si tratta di un’esperienza traumatica, ai limiti del perturbante, che rivela ad Agostino il suo ingresso nel mondo adulto. Il protagonista tutto un tratto di troverà di fronte alla scelta: stare dalla parte dell’infanzia dorata o rinnegare tutto il passato. Non si riconosce più nell’innocente bambino che era fino a poco prima, e inizia a frequentare un gruppo di proletari ai quali si lega di una profonda amicizia. Proprio tale legame indurrà in lui dei dubbi spaventosi circa l’identità borghese, e tutto quanto ad essa legato. Non è infatti “uno di loro”, un proletario e sente fastidio nei confronti della propria famiglia, dell’universo di cui tuttavia continua a far parte. Assume un atteggiamento di distacco critico, alla ricerca di una dimensione neutra, aliena da tale doloroso binarismo (borghesia-proletariato, ricchi-poveri).

Ma non era un uomo; e molto tempo infelice sarebbe passato prima che lo fosse.

Questo pensa Agostino, ed il romanzo si chiude con un inevitabile quesito: Potrà mai esserci un’integrazione pacifica tra adulti e bambini? Infanzia e maturità? Sogni e realtà? Impossibile dare una risposta, e l’autore non la fornisce. Superata questa fase narrativa (che comprende anche La disubbidienza, 1948), Moravia si trova colto dal vento populista provocato dal Neorealismo, e sforna così alcune opere come La romana, e La ciociara. In questo momento emerge lo scrittore che da voce all’umiltà popolana e gretta. Un interesse per gli umili che però si dimostra più strumentale che reale. La borghesia è solo per poco posta in secondo piano, per contrapporsi alla genuinità dei rozzi contadini. Non a caso, un borghese indignato è Michele (come Michele de Gli indifferenti) mentre esempio di semplicità è il personaggio Cesira. Dopo questa parentesi dedicata alla dicotomia tra proletari e borghesi, Moravia torna a dedicare tutta la sua attenzione ai secondi, evidenziandone le deformità. Questo accade ne La noia, romanzo del 1960 e successo indiscutibile. Lo scrittore qui dimostra continuità con il lontano precedente Gli indifferenti, riportando alla luce la non dimenticata coscienza dell’immoralità borghese e del suo instancabile monito di denunciarne le nefandezze, le crepe interiori.

A chiudere il cerchio degli inetti è Dino: pittore che non riesce più a dipingere, perché non ha la forza di stabilire più dei rapporti autentici e concreti con gli esseri umani, con le cose, con la vita. La tela resta vuota e il nuovo Michele tramuta l’indifferenza sterile di entusiasmi in una noia, un’incapacità di essere, di scegliere.

di Donatella Conte

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