Incontro con il giallista Umberto Mapelli

Lo scrittore di romanzi gialli Umberto Mapelli,  nato a Besano, in provincia di Varese 38 anni fa, a soli 13 anni inizia a scrivere i suoi “raccontini” che lo stesso autore ha definito, in retrospettiva, ancora troppo immaturi e dallo stile estremamente semplice. In pochi anni, in seguito anche alle proprie esperienze personali e sentimentali, che il nostro autore specifica essere legate al mondo della notte e dei divertimenti nella disco, cresce e si anima in lui, si viene delineando la fisionomia di scrittore  dai lineamenti sempre più definiti. Il ricatto, pubblicato nel 1999, non a caso è ambientato interamente in una sala da ballo ed è frutto del conguaglio dei “raccontini” giovanili con le esperienze successive. La predilezione per il giallo è innata, forse legata alle letture giovanili, ma non esiste dietro questa scelta una consapevolezza d’intenti. Si tratta perciò del frutto di una risposta istintiva alle propria tendenza giallista.

Mapelli ha pubblicato tre opere: Il ricatto, I giorni del santo e L’ombra di Angela. Ma a chi ispirarsi e quali i modelli di un giallista? Lo scrittore li identifica in alcuni dei più grandi scrittori dei secoli passati, anche se ci tiene a specificare che nessuno di questi grandi ha influito in maniera preponderante sul suo stile. Più che modelli diretti a cui rifarsi allora si tratta, per utilizzare l’espressione adottata dall’autore di “succhiare il nettare fecondo che poteva aiutarmi nella composizione delle mie opere”. Ma quali i nomi? Si parte dal giallista britannico Edgar Wallace, passando per il geniale Fedor Dostoevskyj e per finire non dimenticando il nostrano Umberto Eco. Se si parla di opere di autori contemporanei, invece, a Mapelli non viene in mente un autore prediletto. <<La scelta del libro da leggere è istintiva>>, afferma. Si passa quindi dai gialli e dalle storie di spionaggio alla lettura delle biografie dei grandi personaggi della storia per arrivare ai classici intramontabili dell ‘800/’900. Tra i libri sul comodino ci sono Ken Follet, per gli italiani invece un voto di insufficienza quasi, o perlomeno si evince un po’ di scetticismo. La curiosità del giallista si può definire non troppo entusiastica per i libri di De Carlo e Golinelli, segnalati ma sui quali Mapelli non intende sbilanciarsi.

Una caratteristica comune ad artisti e scrittori è quella di cercare di essere qualcun altro. La letteratura, ma anche la più frugale produzione narrativa di massa, cerca spesso un topos, un sito, che sia fisico o meno non è rilevante, in cui traslare o riconoscere se stessi. In questo caso Mapelli si riconosce e supera la propria limitatezza tipica di tutti gli uomini, proiettandosi in un giovane, Roberto Ghiselli, un ragazzo che ricorda al nostro scrittore la sua giovinezza baldanzosa e spensierata, ma non solo. Il protagonista de Il ricatto lavora nelle discoteche, luogo centrale nella giovinezza dell’autore, è affascinante e intraprendente. Un personaggio quindi che, così sembrerebbe, vive sfrecciando a tremila e fregandosene di tutto. In realtà si tratta di un uomo fragile, volubile, che dopo una sconfitta cade in preda allo sconforto. Mapelli si identifica in questo personaggio, contraddittorio in un certo senso perché quasi un viveur, ma allo stesso tempo vittima del materialismo e della vacuità di un mondo fatto di illusioni e carta straccia. In un certo senso Roberto Righelli è un personaggio tipico, se vogliamo, perché non è altro che il disegno della fragilità che oggi ancora ogni giovane che si affaccia al futuro, purtroppo, presenta. Alla domanda: “Cinque aggettivi per Il ricatto?”, l’autore risponde: <<attraente, claustrofobico, intrigante, coinvolgente, evanescente (per il finale “in sospensione”). Un libro da leggere, sicuramente>>.

L’altra opera, L’ombra di Angela, con la quale Mapelli rimane fedele al genere giallo, è ambientato interamente nella Milano degli anni ’80. Anche in questo caso si parla di una città esplorata e amata dallo scrittore nell’età della formazione, dello scontro: l’età adolescenziale. Lo scrittore ci racconta di come molti amici e persone care siano stati tramutati in personaggi nel libro, e di come l’amore giovanile (ovviamente non corrisposto) abbia svolto un ruolo significativo nel far “scattare” la molla creativa dalla quale nacque il nucleo della storia.

Ma cosa ne pensa Umberto Mapelli dello scrittore “digitale”? <<Nessuna differenza, lo scrittore non cambia>>, risponde, nonostante egli riconosca che, grazie ad internet e ai social network, è riuscito ad intrattenere contatti con molti professionisti del settore e a dare maggiore visibilità all’uscita del libro L’ombra di Angela. Se Mapelli abbia mai pubblicato un e-book? <<Mai, per ora. Ma non si esclude che non accada in futuro, se questo può permettere una maggiore diffusione dell’opera>>.  Alla domanda cosa preferisce Mapelli scrittore, risponde: <<Io sono affezionato alla pagina di carta e all’odore dell’inchiostro, soprattutto nella lettura. Ma, chissà, forse la mia prossima fatica vedrà la luce proprio in formato digitale. Che la tradizione non vada mai dimenticata, bene dunque la digitalizzazione del sapere letterario, ma mai dimenticare le origini e la materialità dei nostri amatissimi libri. Questa è la vera rivoluzione. Cambiare ma non obliare il passato>>. Infine, cosa consiglia Mapelli al giovane che si avvicina al mondo della scrittura, in questo momento critico? <<Pazienza, tenacia: queste la doti che uno scrittore deve avere per non cadere nello sconforto. Sono molti gli ostacoli da affrontare: da quello dell’autofinanziamento, che può generare delusione e grandi flop, a quello del blocco del foglio bianco, ma anche la strenua ricerca di un potenziale editore che punti sulla nostra opera>>.

Ma alla fine la passione travolge l’inerzia e vince, sempre. Così l’animo dello scrittore afflitto o scoraggiato tornerà sempre a scrivere, come gli occhi tornano a guardare la luce, dopo aver pianto, così un pittore torna a dipingere la sua sposa, dopo mille muse di piacevole occasionalità. Perciò, mai scoraggiarsi futuri scrittori!

Umberto Mapelli di tutto ciò è la prova.  Ci invita ad assaporare  i suoi gialli, leggendone, tra le righe, le dinamiche di uno scrittore in lotta per far destare la propria opera e mettersi a disposizione di ogni lettore che voglia conoscerla. Uno scrittore in lotta senza armi, come la maggior parte degli artisti viventi (e non solo).

 

 

 

Marcel Proust, una vita per la letteratura: la più vera forma di vita

Marcel Proust (Parigi, 10 luglio 1871 – Parigi, 18 novembre 1922) è un nome che evoca un concetto tanto caro a noi esseri umani, il tempo. Tempo che è stato cercato, rincorso, cristallizzato da Proust, uno dei più grandi scrittori che la letteratura abbia mai partorito, che ha vissuto per la letteratura, che l’ha definita la forma più vera di vita. Nessuno come Proust  ha approfondito con tale finezza la psicologia con un grande senso della relatività, una sorta di meccanica quantistica che gli consente di rappresentare a più livelli lo stesso personaggio facendo vivere al lettore un’intensa esperienza conoscitiva, come dimostra il suo capolavoro Alla ricerca del tempo perduto.

Proust nasce  ad Auteil, elegante sobborgo di Parigi  in una famiglia dell’alta borghesia (il padre, Adrien, noto medico, la madre Jeanne Weil, figlia di un agente di cambio israelita), cresce in un quasi morboso attaccamento verso la madre (descritto anche nella sua opera) in un ambiente ovattato dalle più tenere cure da parte della famiglia. Egli è molto legato anche alla nonna materna, Adèle Weil, ed è stata proprio la sua morte, nel 1890, a spingere il romanziere a scrivere la celebre pagina sulle “intermittenze del cuore”, quegli inviti della memorie, quel risorgere di un tempo perduto che ci rende felici in quell’attimo.

Trascorre spesso le estati a Illiers, luogo d’origine della famiglia paterna (la  celebre Combray del romanzo). Nel 1882 comincia a frequentare il liceo Condorcet, dove fa buoni studi e stabilisce solide amicizie con giovani che poi lasceranno un nome nel panorama letterario del loro tempo: Fernand Gregh, Daniel Halévy, Daniel de Flers. Nel 1889 – 90 è ad Orléans per il servizio militare: sono gli anni della sua amicizia affettuosa con Gaston de Caillavet. Tornato a Parigi, frequenta i corsi di Albert Sorel all’Ecole des sciences politiques e quelli di Henri Bergson, che da poco ha pubblicato la sua tesi sui Dati immediati della coscienza, alla Sorbona. Laureato in lettere nel 1892, si reca  spesso, d’estate, sulle spiagge normanne, Trouville e soprattutto Cabourg, che diventerà nel romanzo Balbec.

Inizia negli eleganti e raffinati salotti parigini, la sua attività di scrittore; collabora con giornali come “Le Gaulois” e con riviste come “Le Blanquet” e “La Revue Blanche”, sempre assente dalla Biblioteca Mazarine dove è stato assunto nel 1895 come addetto non retribuito. Proust vive ora la sua scintillante stagione mondana, conosce scrittori dandy, artisti e grandi dame, nobili come Robert de Montesquiou, musicisti come Reynaldo Hahn che metterà in musica alcune sue poesie e diverrà, nel romanzo, l’ispiratore di Vinteuil, il pittore Blanche e l’acquarellista Madeleine Lemaire che illustra il suo primo volume, I piaceri e i giorni, uscito nel 1896.

Avvicina anche Oscar Wilde, di passaggio a Parigi. Di questi anni è anche l’inizio del primo romanzo autobiografico, Jean Santeuil, che uscirà postumo nel 1952. Tra il 1896 e il 1897 uno scrittore decadente ed anch’egli omosessuale come Proust, Jean Lorrain, lo attacca con critiche volgari e allusioni in un paio di articoli e considera I piaceri e i giorni “eleganti e squisiti piccoli nulla, vanità, flirts per procura”. Ne viene fuori un duello alla pistola, per fortuna senza danni. Importanti eventi spingono intanto lo scrittore a una riflessione più approfondita sui grandi temi che già occupano la  sua mente. Nel 1894 scoppia il caso Dreyfus e Proust, diventato sostenitore dell’ufficiale ebreo accusato di tradimento, vive questi eventi con assoluta partecipazione e ne trae nuovi spunti di riflessione etica e socio-politica.

Nel 1900 si reca a Venezia e a Padova dove rimane profondamente colpito dagli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Traduce, intanto, alcune opere dell’inglese Ruskin (La Bibbia d’Amiens, Sesamo e i Gigli che usciranno tra il 1904 e il 1906) ed affina il suo gusto estetico. Tra il 1903 e il 1905 muoiono il padre e la madre. Proust vive i due eventi con profonda angoscia, ma trova in essi l’occasione per lasciare spazio ad una più libera manifestazione di sé, il modo di far cadere fra l’altro le ultime remore che finora lo hanno spinto a tener nascosti i suoi costumi omosessuali.

Lottando contro la sua fragile salute, contro gli attacchi d’asma, lo scrittore francese procede all’ elaborazione della sua opera centellinando  le sua forze per portarla a buon fine, rinunciando al ‘mondo’ che amava per non sprecare nemmeno un po’ della sua vitalità, avvalendosi delle sue inquietudini per affinare la conoscenza di se stesso e degli altri. Fino alla morte Proust non vive che per la sua opera, in una triste relegazione. Il racconto è interamente soggettivo e mescola l’autobiografia ai ricordi di un osservatore.

Proust ha dato vita ad un nuovo flusso narrativo rifondando il romanzo su basi diverse rispetto a quelle della tradizione ottocentesca-naturalista. Il romanzo novecentesco disocculta la realtà, mettendo in rilievo la visione onoica e deformata della realtà dei suoi protagonisti. La crisi del Positivismo, la “rivoluzione epistemologica” provocata dal pensiero di Bergson, Nietzsche e Freud, la diffusione di teorie fisiche, come la relatività di Einstein, l’irrompere della concezione dell’inconscio, il crescente senso di disadattamento e di alienazione dell’intellettuale negli anni dell’Imperialismo, della guerra e del dopoguerra, con la sua crisi di identità hanno introdotto nuove tematiche nell’immaginario degli scrittori: la nevrosi in Svevo, la memoria, appunto, in Proust, la malattia in Thomas Mann, la dimensione onirica in Kafka, “l’uomo senza qualità” in Musil, l’inettitudine in Svevo, Tozzi e Pirandello.

Proust è senza dubbio uno dei maggiori rappresentanti del romanzo moderno, in quanto oltre che un autore di crisi è anche un autore in crisi. Irrequieto ed emotivo, Proust, amante del mondo aristocratico, uno snob vittima del suo snobimo e dandismo, affronta temi drammatici in maniera cerimoniosa; come ha giustamente notato Anatole France, Proust <<si diverte a descrivere allo stesso modo lo splendore desolato del sole morente e le vanità irrequiete della sua anima snob>>.

La profonda emotività ed irrequietezza di Proust, non derivano solo dal carattere sensibile dello scrittore, ma hanno radici precise: è bene porre l’attenzione sull’importanza dell’ identità in Proust e più specificamente sul connotato ebraico il quale funge da rivelatore di quell’atteggiamento di sfiducia e di autocritica che spesso sfocia dell’autostroncatura. L’ebraismo, dunque, come ha constatato lo studioso Alessandro Piperno, appare nel mondo proustiano, come “sintomo e sinonimo d’una mancanza ancestrale”, come “mancanza d’abissalità”, di quella “assenza di profondità” di cui i razzisti ariani hanno spesso accusato gli ebrei.

la tomba di Proust

L’ansia di piacere e di essere stimati in effetti costituiscono il marchio del vizio congenito degli ebrei, ma Proust (per metà ebreo e per l’altra cattolico) vuole allontanarsi da questo atteggiamento altrimenti non sarà possibile essere libero e sincero. L’ansia di cui soffre Proust semmai è quella dello scrivere e di voler cogliere ogni singola sfumatura delle cose, nel volter rappresentare la tragedia in luoghi suggestivi e bellissimi. Tuttavia lo scrittore francese ha sempre desiderato di sentirsi pienamente accettato da quella società nella quale invece non lo accolse mai se non in modo superficiale (come la sua famiglia del resto che gli era ostile anche in virtù della salute precaria dello scrittore, dato che soffriva di asma),  facendo ostruzionismo al suo mestiere di scrittore.

Anche la scrittura di Proust risulta indefinibile, incompiuta, che ci svela un Proust fustigatore di atteggiamenti non autentici, che ci lascia scoprire la verità attraverso un’incessante ricerca.

 

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