Irène Némirovsky, tra i casi letterari più potenti degli ultimi decenni

Le sembrò tutto ambiguo, una fatalità, forse, ordita da un romanziere sadico. Il 2 febbraio del 1939 Irène Némirovsky si era fatta battezzare presso l’Abbazia di Sainte-Marie, l’anno dopo veniva censita come ebrea.

La lettera inviata al maresciallo Pétain – “Inutile dire che non mi sono mai occupata di politica, avendo scritto opere puramente letterarie… mi sono impegnata al massimo per far conoscere e amare la Francia” – non aveva sortito effetto.

Eppure, Irène Némirovsky, donna audace, d’intransigente bellezza, cruda, era tra gli scrittori più noti, in Francia. Da David Golder, uscito nel 1929 per Grasset, era stato tratto un film di successo – passato, in Italia, come “La beffa della vita” – girato da Julien Duvivier.

Irène Némirovsky, la femme fatale della letteratura francese

Nel 1931 Robert Brasillach ne aveva esaltato l’afflato lirico, “così toccante e così vero”. Era nata a Kiev, l’11 febbraio del 1903: il papà era banchiere, ebreo non praticante, la madre impediva che si parlasse yiddish o russo, in casa vigeva la legge grammaticale del francese.

La Rivoluzione, ovviamente, ruppe l’idillio: Irène e mammà, vestite da contadine, fuggono, miracolosamente, in Finlandia; insieme al padre approdano a Stoccolma, infine, nel ’19, si stabiliscono a Parigi. Irène si sente francese: pubblica libri di successo – Il ballo, I cani e i lupi, Jezabel, La preda – ma le viene negata la cittadinanza.

Poco gliene importa, ebbra di fama. Ancora nel luglio del 1942, arrestata dai gendarmi di Vichy, non crede nell’inevitabile, e scrive al marito: “Amore mio, in questo momento sono seduta alla gendarmeria dove ho mangiato ribes in attesa che venissero a prendermi. Soprattutto, sta’ tranquillo, sono certa che sarà questione di poco… Copri di baci le mie adorate bambine… Se poteste mandarmi qualcosa… Libri, per favore, e se possibile anche un po’ di burro salato”.

La deportazione ad Aushwitz

Deportata ad Aushwitz, muore il 6 novembre di quell’anno, in una camera a gas. La resurrezione accade, col criterio del prodigio, nel 2004, quando Denoël pubblica Suite francese, il manoscritto dell’ultimo romanzo della Némirovsky, nascosto in una valigia che conteneva diversi effetti personali.

Il successo, la seconda volta, è più clamoroso della prima: sulla scia di Adelphi, non c’è editore italiano che non abbia la propria traduzione di Suite francese – vincitore di un Prix Renaudot postumo –, da cui è tratto un film di dubbia bellezza, con Michelle Williams e Kristin Scott Thomas. La straordinaria storia del manoscritto, insieme alla pubblicazione del “capitolo ritrovato di Suite francese”, è il cuore di un libro, Re di un’ora (Edizioni Ares, 2021), che allinea diversi inediti – il più importante è quello che dona il titolo al testo – e mostra un poco la virtuosa attività pubblicistica della Némirovsky (aveva sintonia con Pearl S. Buck, le piaceva Il postino suona sempre due volte).

L’ebraismo di Irene

A curare il volume, Cinzia Bigliosi, traduttrice di platino – per Bompiani ha appena licenziato la sua versione de Il rosso e il nero; per Feltrinelli ha tradotto Guy de Maupassant, George Sand, Alexandre Dumas –, con una propensione ‘affettiva’ per la Némirovsky (ha tradotto Suite francese per Feltrinelli, La nemica per Astoria, ha curato il libro di Élisabeth Gille, Mirador. Irène Némirowsky mia madre).

Secondo Cinzia Bigliosi il mondo ebraico di Irène Némirovsky è la matrice di un immaginario con il quale la scrittrice intratteneva un rapporto molto forte, anche se fino a poco prima dell’Anschluss, sarebbe rimasto quasi esclusivamente un tema letterario.

Nella vita di Irène l’ebraismo ha agito come una negazione primordiale che partecipò probabilmente all’inconsapevolezza del pericolo nazista da parte di Irène che non ricordava più la propria origine e che ha guardato fin quasi alla fine a quello che le capitava intorno come a un fatto che non potesse riguardarla fino in fondo.

Re di un’ora, il libro più importante di Némirovsky

Re di un’ora è il testo fondativo e fondamentale nell’opera di Irène Némirovsky, per diversi motivi. Prima di tutto l’idea di fondo che nel 1934 sfocerà in questo breve trattato fisiologico, nello stile di Balzac, è ossessiva e il “macher”, ossia il faccendiere di origine levantine sul quale si concentra e che ha molti tratti in comune, se volessimo scivolare nel freudismo, con il padre, è protagonista della maggior parte dei suoi scritti narrativi, in primis David Golder.

Inoltre l’analisi alla quale si abbandona Irène nello scavare tra esempi a lei contemporanei la spinge senza che se ne accorga nella costruzione di un vero e proprio tipo, e in questo modo il “macher” diventa, letto con lo sguardo di oggi, un modello modernissimo di affarista nel quale potremmo riconoscere molti dei personaggi che infestano la vita pubblica e politica, e qualche cella carceraria, affaristi non solo italiani che, giunti dal nulla, salgono in cima a montagne di denaro e di successo per crollare nel vuoto poco dopo, e ricominciare da capo, senza soluzione di continuità.

 

 

Fonte

Davide Brullo

‘Anime perdute’, i demoni di Isaac Singer

Non v’è dubbio che gli scrittori di origine ebraica hanno dato un notevole contributo alla narrativa americana, ponendo l’accento sulla condizione angosciosa dell’ebreo e sul suo stato di immigrato e non v’è dubbio che tra i maggiori rappresentanti della narrativa ebraico-americana, nonché del Novecento, figura lo scrittore premio Nobel nel 1978, nato in Polonia, Isaac Bashevis Singer (1904-1991), le cui opere sono scritte in yiddish, la lingua delle comunità ebraiche, ma tradotte in inglese dallo stesso Singer. La sua narrativa, scevra dallo sperimentalismo e dallo psicologismo tipici del Novecento, strizza l’occhio a modelli ottocenteschi e tratta la commistione tra bene e male, il continuo alternarsi di divino e demoniaco sia nella storia che nella vita dell’uomo, senza dimenticarsi di fare i conti con la tradizione.

Anime perdute è un romanzo apparso postumo nel 1994, magicamente in bilico tra farsa e dramma e intriso di pessimismo e vitalità che si allinea a pieno diritto ai migliori romanzi “newyorkesi” di Singer, maestro come pochi nell’evocare con pochi tratti pezzetti di un mondo in cui noi finiamo inevitabilmente di riconoscerci. Aaron Greidinger, disilluso giornalista, è il protagonista del romanzo di Singer, che si culla nella torpida calma di chi ha ormai visto e udito tutto, certo che la vita non possa più regalargli nulla, almeno fino a quando non riceve nel suo ufficio a New York, la visita di un “fantasma”: Max Aberdam, un suo vecchio amico che Aaron ha sempre creduto scomparso nella tragedia dell’Olocausto. Nonostante l’età avanzata Max non rinuncia alla passione che ha le forme sinuose della giovane studentessa e amante Miriam, donna imprevedibile che nasconde un passato oscuro che svelerà gradualmente. Max inoltre, arriva a spingere l’amico Aaron nelle braccia di Miriam, dando inizio ad un gioco di seduzione perverso ed inquietante.

Max Aberdam vive di pillole e di fede, ma non fede in Dio, fede nella sua demenziale fortuna, rispetta la tradizione e sostiene che si può essere ebrei senza credere in Dio, ha molte case e compra azioni, titoli, fondi di investimento, dice di voler bene a Miriam, in attesa di divorzio dal marito aspirante poeta, ma non può lasciare sua moglie e alla fine spetterà ad Aaron la scelta di amare o di giudicare la giovane donna.

L’autore, con la sua capacità narrativa delinea il suo punto di vista rispetto a tematiche spinose come il libero arbitrio, gli errori di giudizio, la religione e la morale (senza tralasciare le ipocrisie), la teodicea, la ricerca interiore, la letteratura stessa, se debba ritornare o meno ad essere azione e tensione narrativa come ai tempi di Omero, spingendo il lettore a porsi delle domande e a riflettere. Lo scrittore punta sui dialoghi, sui ragionamenti dei protagonisti e sugli accadimenti. Egli sceglie l’yiddish perché gli interessa usare tale codice di una civiltà in perenne esilio, capace di riportare nel quotidiano l’intero Talmud e i testi sacri, il loro mondo intessuto di miti, favole e leggende. In questo modo Singer, come ha giustamente notato Roberto Saviano, crea una teologia anarchica dove il rapporto con Dio e con la Legge è definito dall’errore, dall’eresia, e da una continua riflessione che possa portare a trovare un impossibile chiave di svolta che conduca alla verità.

Come ha affermato Singer stesso “l’ebraismo piuttosto che una fede è un compromesso tra Dio e i demoni”“Dio ha bisogno che l’essere umano lo aiuti a portare il dramma cosmico ad un finale benefico”. La letteratura così diventa un mezzo divino capace di registrare mondi dell’unico mondo possibile che siamo costretti a vivere. Da buon seguace di Spinoza, Singer ci invita alla vita come avventura da affrontare con la ragione e i sensi e a proposito di quest’ultimo aspetto, la sessualità è una costante quasi ossessiva nei racconti di Singer, una forza ingovernabile capace di rendere nullo ogni proposito e buone intenzioni.

Anche in Anime perdute, lo scrittore rappresenta tutta la gamma dell’esperienza amorosa (non temendo di presentarci anche una coppia omosessuale), mostrando come la passione carnale riesca ad eternare la vita contro la noia razionale della vita offesa e come la sessualità non desideri null’altro che compiersi senza preoccuparsi a ciò che sarà ed a quanto è stato.

I personaggi di Singer sono avvolti nelle ombre del dubbio e in preda ai loro demoni; si chiedono continuamente cosa sia la morte e la risposta che dà lo scrittore è che la morte è catarsi, pace per le anime che non l’hanno mai raggiunta sulla terra e non è un caso che egli affermi:“Date agli ebrei una rivoluzione, ne pretenderanno un’altra. Date loro un Messia, ne chiederannoun altro”.

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