‘Il giovane europeo’: l’altra Europa di Pierre Drieu La Rochelle, dove l’uomo non sa più esprimere nulla

Nato a Parigi nel 1893 da una famiglia borghese di origini normanne, Pierre Drieu La Rochelle condivise le inquietudini e le delusioni di una generazione sconvolta dalla Grande Guerra e dalle macerie spirituali di un vecchio mondo in rovina. Alto, snello, elegante – terribilmente attraente – con un sorriso breve e raffinato, aveva un aspetto penetrante e diretto. Si contraddistinse come il tipo del “martire rivoluzionario”, sfidando le convenzioni “di destra e di sinistra” per il bene dell’Europa, e senza dubbio ci parla ancora attraverso i suoi libri.

L’attualità della sua figura riguarda, in particolare, un “sovranismo europeo” (diremmo oggi), la cui preoccupazione fondamentale è che la rinascita dell’Europa non agisca per distruggere le nazioni a mezzo di una economia iper-liberista, ma per integrarle in un orizzonte più vasto. A proposito di prospettive spirituali e critiche del nostro autore in tema di Europa: è stato pubblicato quest’anno da Aspis in prima edizione italiana, curato e tradotto da Marco Settimini, “Il giovane Europeo”, uscito in Francia nel 1927. I testi che vi sono raccolti incarnano, con vigore sincero, un originale spirito di combinazione tra eccentricità dadaista, entusiasmo futuristico per l’innovazione tecnica e rivolta surrealista, pur mantenendo il ricordo della tradizione classica.

l libro si compone di tre saggi. I primi due, sotto forma di ritmi narrativi di un diario, descrivono le esperienze di un giovane europeo del XX secolo – dallo sport alla politica, dalla religione alla tecnica, dalle sperimentazioni artistiche e culturali alla rivoluzione e alla guerra – un uomo che matura lentamente un senso di inevitabile decadenza e si vede smarrito in una terra che non sente più come patria.

L’altro saggio, partendo dalla descrizione di una music hall, allegoria dello “spettacolo” della vita moderna, sviluppa una riflessione atroce sulla “strana” bellezza e sul fascino di una civiltà in decomposizione. Seguendone le bizzarrie, si capirà presto che l’autore cerca piuttosto di liberare la propria anima dal complesso dramma del tempo, per offrire soluzioni ai tempi che verranno. Con uno stile visionario e surrealista, le feroci critiche alla modernità richiamano politicamente le parole dell’illustre predecessore Alexis de Tocqueville, senza dimenticare i contemporanei Bernanos e Céline.

Sogna di trasferirsi in America, di dedicarsi agli affari, sposarsi e avere un figlio, ma “Passando dai grandi eserciti d’Europa alla guerra brutale che l’americano incessantemente conduce contro la Natura, mi resi presto conto di non aver mutato di clima”.

Troviamo, inizialmente, gli elementi di una mitologia bellicosa che diventano la matrice della sua concezione dell’azione e della sua visione del mondo. Il divario tra questa mitologia eroica e l’esperienza della prima guerra industriale anonima, tuttavia, rivela una realtà in cui i soldati sono antieroi passivi, schiavi delle macchine, che si comportano come un gregge – come le masse nei regimi democratici. Sopraffatti dall’atroce esperienza della Grande Guerra, delusi dal lugubre immobilismo del vecchio mondo, che vedono ricadere nella routine delle abitudini borghesi, gli scrittori di quella generazione, cui Drieu La Rochelle non fa eccezione, sperano ancora di dare un senso a una modernità che fugge via in un perpetuo movimento di accelerazione verso il vuoto. La crisi spirituale scatenata dalla guerra lanciò il suo incantesimo sull’intera epoca che precedette lo scoppio dell’altro conflitto mondiale.

Nel mettere in discussione le fondamenta di tutto un mondo, il nostro autore coglie queste impressioni:

Mi sforzo di avvicinare, fino a toccarli con le dita, i caratteri della mia epoca. Li trovo abominevoli, e così dominanti che l’uomo infiacchito non potrà più sottrarsi alla fatalità che enunciano, e ben presto ne morirà.
Meccanizzazione, egualitarismo, sono i ragni che tessono la tela dei loro crudeli nomi tra le mie palpebre. Vedo un orizzonte fatto di sbarre di prigione. Il soffocamento dei desideri tramite la soddisfazione dei bisogni, questa è la polizia parsimoniosa, l’economia sordida che deriva dalle facilitazioni con cui ci opprimono le macchine e che l’avrà vinta sulle nostre razze. L’uomo ha del genio soltanto se ha vent’anni e se ha fame. Ma l’abbondanza delle drogherie uccide le passioni. Rimpinzata di conserve, nella bocca dell’uomo si crea una pessima chimica che corrompe i vocaboli. Niente più religioni, niente più arti, niente più linguaggi. Sconvolto, l’uomo non esprime più nulla.

Il XX secolo aveva reso obsolete non solo le vecchie forme di civiltà, ma l’ordine stesso uscito dai Trattati di Westfalia (1648), inaugurando un’era di imperi continentali che aveva diminuito il significato e la “sovranità” dello stato-nazione. Finché l’Europa fosse rimasta politicamente fratturata, avrebbe rischiato, quindi, non solo un’altra lotta fratricida, come nei fatti avvenne, ma il dominio delle potenze continentali del capitalismo americano e del comunismo sovietico, per non parlare di quelle degli imperi cinese e indiano, che irrompono all’inizio del XXI secolo.

La Francia, la Germania e le altre nazioni europee, in altre parole, avrebbero potuto sopravvivere all’era degli imperi continentali – con le loro economie di scala e la tirannia dei numeri – solo attraverso la federazione, che non significava tuttavia liquidazione nazionale. A differenza dell’attuale Unione, la federazione di Drieu La Rochelle non consisteva nel subordinare i popoli del continente al primato del libero mercato divinizzato. Influenzato nella sua giovinezza da nazionalisti come Charles Maurras e Jacques Bainville – che lo iniziarono al culto della Francia, che egli amava “come una bella donna che potrebbe incontrarsi per strada di notte” – allo stesso tempo vide che il nazionalismo aveva raggiunto un punto morto, sia in termini di rivalità autodistruttive che di limitazioni imposte allo spirito europeo. Tutti i nazionalismi che rendono la patria una fine piuttosto che un inizio stavano respingendo le stesse energie e creatività nate dalla patria stessa.

Dopo i contatti con il movimento surrealista, iniziò un forte avvicinamento ai socialisti, non vedendo altri mezzi per raggiungere i suoi desideri per la federazione europea. Tuttavia, il socialismo di Drieu La Rochelle aveva poco in comune con il marxismo – con il suo universalismo, il collettivismo e il materialismo paralizzante. Piuttosto, il suo era il socialismo che Spengler attribuiva ai prussiani: il socialismo organico e autoritario che subordinava l’economia alla nazione e perseguiva i fini sociali privilegiando lo sviluppo dello spirito e della vitalità.

Anche il fascismo, che abbracciò successivamente, non era in lui del tutto ortodosso. L’interesse era più esistenziale che politico. Piuttosto che il nazionalismo piccolo-borghese, anticomunista, fissato nello stato, lo attrasse l’istintiva opposizione all’ordine liberal-capitalista, l’enfasi su gioventù, salute, ribellione, azioni virili, e in particolare la volontà nietzschiana di vivere pericolosamente. Il “fascismo” in Drieu derivava, in definitiva, dall’identificazione con la volontà di superare la decadenza nata dall’età moderna e, nel farlo, di realizzare una comunità spirituale superiore.

A seguito della battaglia di Francia (maggio-giugno 1940), che confermò la sua scarsa opinione del regime parlamentare francese e la convinzione che l’esercito, nel subire la più grande débacle nella storia nazionale, riflettesse la natura sclerotica dell’ordine sociale borghese, La Rochelle tentò di sfruttare al meglio una situazione ostile, collaborando con l’occupante tedesco, nella speranza di creare in Francia un certo rispetto per la Germania nazional-socialista e, nel frattempo, di rendere il fascismo meno nazionalista e più europeo e socialista. Rassegnandosi al fatto che i francesi non erano riusciti a realizzare la propria rivoluzione, era propenso a pensare che questa dovesse essere imposta dall’esterno. Con questo spirito assunse la direzione della più prestigiosa rivista francese, la Nouvelle Revue française e si impegnò in varie attività per dare sostanza agli ideali collaborazionisti, per unificare l’Europa realizzando il tipo di rivoluzione che aveva rianimato la Germania dopo il 1933.

Ancora una volta sarebbe rimasto deluso. Sempre più alienato dagli occupanti e ossessionato dall’imminente destino dell’Europa, si rifiutò di rifugiarsi in Svizzera o altrove, una volta che la possibilità si presentò dopo il 1943. Sentiva che era una questione d’onore. La notte del 15 marzo 1945, mentre si nascondeva dal nuovo regime instaurato a Parigi, deglutì una fatale dose di veleno.

Drieu La Rochelle riconobbe che l’Europa era una specie di mito, la cui risonanza aveva ancora il potere di evocare quelle forze che avrebbero potuto sfidare la decadenza regnante. La sua visione della federazione, questa Europa dei patrioti, cercava di ravvivare lo spirito specifico di forme di vita uniche e incomparabili, non di dissolverlo in un mercato unico mondiale. Tuttavia, le sue parole non lasciano molte speranze:

Di tutte le civilizzazioni sotto i nostri occhi, non ci rimane oggi nient’altro che un’unica civilizzazione planetaria, tutta logora.

 

Gabriele Sabetta

Skira presenta a Milano il libro di Franzosini ‘Rimbaud e la vedova’, giovedì 10 maggio

Giovedì 10 maggio alle 18.30 al nuovo Circolo dei Lettori di Milano a Casa Manzoni, in Via Morone 1, si terrà la presentazione del libro Rimbaud e la vedova, di Edgardo Franzosini, per SKIRA editore. Con l’autore interverranno il poeta Valerio Magrelli e lo scrittore Hans Tuzzi. Il libro racconta il periodo, tra marzo e aprile 1875, in cui il grande poeta arrivò a Milano proveniente da un rocambolesco viaggio a piedi dalla Svizzera e fu ospitato e accudito da una misteriosa vedova abitante in piazza Duomo 39 dove oggi c’è la Rinascente. Il periodo coincide con la decisione di Rimbaud di abbandonare per sempre la poesia, nei brevi anni di vita che gli rimarranno si dedicherà infatti a vari disparati mestieri. Franzosini ne racconta la vicenda con sapienza rendendola avvincente, pur basandosi su pochissimi documenti reali.

Dopo l’incontro sarà possibile effettuare una visita guidata gratuita al primo piano di Palazzo Anguissola delle Gallerie d’Italia, sede museale di Intesa Sanpaolo, con le vedute del Duomo e di Milano.

“Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.” Tra l’aprile e il maggio 1875 per alcune settimane Arthur Rimbaud, il grande autore di Vocali, Il Battello ebbro e Una stagione all’inferno, dall’esistenza scandalosa e ricca di colpi di scena, si ferma a Milano dove sembra essere ospitato nella casa di una misteriosa vedova, affacciata su piazza Duomo. In quello stesso 1875, il giovane prende la definitiva decisione di rinunciare alla letteratura, trasformandosi, per dirla con Mallarmé, in “qualcuno che era stato lui, ma che non lo era più, in nessun modo”.

Edgardo Franzosini evoca quei giorni con raffinata dovizia di particolari, ricostruendo come un investigatore tenace e sapiente il soggiorno di Rimbaud attraverso le tracce lievi e suggestive lasciate dal poeta nella Milano dell’epoca.
Franzosini è nato in provincia di Lecco. Vive a Milano. Ha pubblicato: Raymond Isidore e la sua cattedrale (Adelphi) Premio l’Inedito e Premio Procida-Elsa Morante, Bela Lugosi. Biografia di una metamorfosi (Adelphi) Premio Fimcritica, Sotto il nome del Cardinale (Adelphi), Sul Monte Verità (Il Saggiatore), Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi) Premio Comisso e Premio Dessì, Il mangiatore di Carta (Sellerio). I suoi libri sono stati tradotti in Francia, Spagna, Germania e Stati Uniti. Collabora con “la Repubblica”.

Il mito di Rimbaud persiste in quanto egli si propone come l’unico personaggio-protagonista della sua opera, l’unico attore di una tragedia. Tragedia classica per la sua sottomissione alle tre regole del genere: unità di tempo: una breve adolescenza; unità di luogo: lo spazio chiuso di un’anima; unità d’azione: la lotta con l’angelo. Già alla fine del secolo scorso la leggenda si è impadronita del poeta, e lo ha mitizzato, dando vita a una tradizione rimbodiana che troppe volte ha ostacolato una serena visione critica dell’uomo e del poeta che confondeva tutto con l’arte.

L’antisemitismo di Céline e la censura nel saggio di Stefano Lanuzza: ‘Céline, testimone d’Europa’

Con Céline, come afferma lo scrittore siciliano Stefano Lanuzza nel saggio Céline, testimone dell’Europa, opera imbastita come un dibattito in cui studiosi e lettori pongono domande all’autore su vita e opera di Louis-Ferdinand Céline, non si evoca uno scrittore facile, consolatorio, o di consumo, che ha bisogno di lettori forti che vanno liberandolo dalle panie di una iconografia ideologizzante da troppo tempo focalizzata su un antisemitismo che nell’opera céliniana rimane al margine. Diventa poi superfluo ripetere che i libri di Céline nascono con lo scopo di evitare l’entrata in guerra di una Francia militarmente inadeguata nella seconda guerra mondiale voluta da Hitler. Da ignoranti e false idee ogni lettore si potrà liberare cominciando ad affidarsi agli odisseici percorsi del capolavoro Viaggio al termine della notte, metafora della condizione degli uomini condannati ad andare, senza sosta, sempre avanti verso il loro destino, in fondo alla notte. Ma tutti i libri di Céline sarebbero da porre in relazione con il Voyage. Ma ci fosse oggi uno scrittore come Céline nel nostro Paese assillato dalla crisi, assopito nel consenso e in una restaurazione culturale che sta all’origine della letteratura di consumo e per passatempo: un paese affollato tra loro simili, ininfluenti e dediti a rincorrere i premi letterari. Ci fosse in Italia un Céline che viaggia sempre a proprio rischio e pericolo.

Céline dunque era eretico ed anarchico? Indubbiamente, e nichilista? Certo ma verso lo stato di cose: verso il falso amor di patria e la balorda esaltazione delle virtù guerriere, verso l’infamia delle guerre combattute dai poveri a esclusivo vantaggio degli interessi capitalistici e delle classi sfruttatrici, le retoriche patriottiche e i deliri nazionalistici. In questo senso il Voyage è un romanzo contro il colonialismo predatore, lo sfruttamento nella fabbriche, la povertà sordida e senza speranza nella povera gente delle metropoli degradate.

Rimasto segnato dall’esperienza militare, Céline si accanisce in un’amara critica verso i popoli che non progrediscono moralmente, ma da sempre operano contro loro stessi. Secondo lui non è sicuro che gli uomini nascano infelici, condannati al dolore da una sorte malvagia: è più vero che la colpa della loro sofferenza derivi dalla loro bramosia di suicidio, da un impulso di morte ispiratore di ogni conflitto e tirannia.

Insieme a pochi altri autori e anche se talora dimenticato da critici usi a fissare inopinati canoni, Céline deve essere considerato come uno tra i più grandi protagonisti della letteratura moderna. Lo è, oltre che per le sue innovazioni linguistiche e lo stile unico, per aver offerto con la sua opera un quadro illuminante dei fenomeni sociali e storici dell’Europa del Novecento. Ma l’equivoco dell’antisemitismo di Céline è stato definitivamente chiarito? Come risponde Fagioli alla domanda di Guerrieri, l’ostilità di certi ambienti letterari nei confronti di Céline si è manifestata, ancora prima che lo scrittore pubblicasse i propri libri antisemiti a causa della sua posizione contro l’estetocrazia della casta dominante. Secondo un altro protagonista di questo dialogo immaginario, Bernardi Guardi, l’antisemitismo di Céline è fatto di accensioni virulente, si scatena come una tempesta di denunce ed ingiurie, sembra quasi rivendicare un paradossale diritto di manifestarsi senza alcuna remora. Interviene Horn affermando che nel contesto di una storia contraddistinta da guerre continue, come si sarebbe posto oggi il pacifista Cèline davanti all’interminabile conflitto Israele-Palestina?

Inoltre, in base ai dati, non può non apparire singolare il caso di Céline accusato senza prove da Sartre. A contraddire il filosofo di L’Essere e il nulla, a distanza di anni prende la parola l’artista Jean Dubuffet che sostiene che l’avversione di cui è stato fatto oggetto Céline emerge molto prima della denuncia delle sue opinioni contro gli ebrei. C’è da credere che per le conventicole letterarie, l’antisemitismo e l’avversione di Céline nei confronti di una mentalità radical-massonica dominante in Francia, siano appigli sufficienti per tenere distanti un outsider, un anomalo ed irregolare, un bastian contrario isolato che comunque sopravanza di una spanna gli scrittori suoi contemporanei. Non appartenendo a nessun partito, a nessuna cricca, nessuna conventicola, sono praticamente solo? Si interroga Céline già nel 1936 in una lettera a <<Le Merle blanc>>. Lui è un emarginato tra i francesi che, durante il regime di Vichy, nella persecuzione già combattenti per la Francia durante la prima guerra mondiale, sono ancora più zelanti dei tedeschi. Mentre Pétain applica contro l’intera comunità ebraica leggi ancora più repressive di quelle naziste. C’è quanto basta per convincersi che Céline, a parte i suoi torti d’opinione, resti una vittima dell’ipocrisia del potere, questo davvero alacre collaborazionista.

Nel famigerato Bagatelle per un massacro, che alla sua uscita è gradito sia alla destra che alla sinistra, Céline sostiene che lui scrive a beneficio dei francesi e precisando la propria distanza dal credo fascista. Si crede che la condanna contro Bagatelle sia dovuta ai suoi contenuti quanto parrebbe accendere l’indignazione, è il modo, ossia la forma che è sostanza artistica che lo scrittore conferisce a un libello redatto con la tecnica del poema satirico in prosa. Bisogna inoltre sottolineare che sionismo ed ebrei non sono la stessa cosa. Vi sono infatti ebrei che non si proclamano sionisti. Il Sionismo è un movimento politico che ha preso il sopravvento nella società ebrea al punto che la gente comune crede che quando qualcuno sfida il Sionismo, si stia schierando anche contro gli ebrei.

Al seguito degli antisemiti che lo anticipano (tra cui Shakespeare, Dickens, Benn, Jung, Heidegger), ecco Céline dichiararsi antisemita: “Sono diventato antisemita” annuncia in Bagatelle, diventato, che sta a significare che prima non lo era. La spiegazione più immediata all’ostracismo patito da Céline può rimandare all’isolamento dello scrittore rispetto alla società letteraria parigina, soprattutto quella di una sinistra stalinista rimasta spiazzata dopo l’uscita di Mea culpa, un’autocritica profonda e un’accusa contro il bolscevismo.

Poiché nel Primo novecento francese non sono pochi gli intellettuali e gli scrittori antisemiti, alcuni di loro blandi o meno conosciuti collaborazionisti, (Béraud, Chardonne, Alphonse de Châteaubriant, Maurras, il paradossale ‘fasciocomunista’ Jacques Doriot, Montherlant, Jean Giono, nonché Morand, Jouhandeau, Anouilh, Giraudoux, Sachs, Gide, Mauriac, Gaxotte, Simenon da giovane…) – l’impressione che ogni volta Céline finisca per essere assunto in esclusiva quale pharmakos/‘capro espiatorio’: al pari del più sfortunato Robert Brasillach sbrigativamente passato per le armi ad Arcueil il 6 febbraio 1945.
Ancora oggi sembra che a Céline si dia la caccia per lavare la coscienza sporca della Francia ottusamente antisemita del ‘caso Alfred Dreyfus’ (1894-1906), il capitano alsaziano-ebreo ingiustamente accusato d’intesa col nemico tedesco, oltre che per far obliare l’antisemitismo e il filonazismo della Repubblica collaborazionista di Vichy capeggiata da Pétain che Albert Camus chiama “traditore della Francia” (“Combat”, n. 58, luglio 1944).

Malgrado tanta ordalia e lo ‘stridor di denti’ degli implacati censori, i libelli vietati di Céline, seppure privi di curatele critiche, restano reperibili su Internet sia nella lingua originale, sia in traduzione. Volendo, li si legga come – poniamo – si possono leggere le pagine del ‘reazionario’ e grande Gadda: per l’indubbia qualità artistica della loro lingua, cioè per lo stile che, senza separarsi dai contenuti talora insopportabili, riscatta un autore tra i maggiori del Novecento. Lo stile, conta nient’altro che lo stile: l’unica cosa – Céline tiene sempre a spiegare – per cui valga la pena di scrivere.

 

Bibliografia: Stefano Lanuzza, Céline, testimone del’Europa

Stefano Lanuzza: Lucette, Céline, Gallimard e la censura

‘Diario di un delicato’: il testamento letterario e umano in opera diaristica di Drieu La Rochelle

È nel tacito principio di delicatezza che si incorniciano le cose nel silenzio, lasciando il lavoro all’intuizione, sullo stesso solco dove si racchiudono i gesti nell’aura della stasi. È un contegno di attesa nel fluire del tempo, dove il momento è comodo allo sguardo interiore. La grazia viaggia su binari cristallini, nel riguardo dell’emozione di un’altra esistenza. La delicatezza dello scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle, alcune delle sue massime sono stracelebri come: “Detesto i ricchi, ma i poveri mi fanno schifo”  e “L’estrema civiltà genera l’estrema barbarie”, nel Diario di un delicato non appartiene a un movimento esteriore, quanto a un vero e proprio moto dell’anima.

Perché rileggere il diario? Poiché quell’afflato di garbo appartiene a un mondo perduto, è patrimonio di uno sguardo gentile, attraverso il quale vedere la vita, interiorizzarla e rifiutarla eroicamente. Perché figura una galleria di riflessioni sull’esistenza e sulla spiritualità, giacché su qualsiasi pagina si poggi la nostra mano, un aforisma o un pensiero saranno lì nell’attesa di trafiggerci e sostare nella nostra memoria. Un altro motivo è l’attualità: il diario è stato pubblicato nel 1944, un anno prima del suicidio dell’autore e custodisce lo spirito di un tempo che potrebbe essere anche il nostro. La sua Europa forata dal refolo dell’aridità non è poi troppo distante dal mostro tecnocratico di Bruxelles. Le parole dello scrittore sono trainate dalla complessità di uno spirito sopraffatto e deluso, certamente non abbastanza da non affiancare una certa dose di nobiltà a un pessimismo incollato su ogni singolo nervo. Pulsazioni vigorose che vanno incontro alla vita, ma dalla stessa vengono avvilite. Scoramento che a ogni modo non cede alla resa, al contrario, seppur all’interno di un suolo disincantato, si edifica sopra una presa di coscienza.

Il dialogo malconcio tra l’eroico e la vita trova in Jeanne il primo simbolo. Jeanne è la donna che vive al suo fianco; un’estranea continuamente invocata, esaminata e stimata. Ammirazione incredula per quell’amore che è abnegazione. Una figura femminile che lentamente si incunea nel suo rifiuto di amare, giunta troppo tardi nella vita di Drieu, poiché egli s’è ormai disposto nella direzione del divino. Ma Jeanne non è nel troppo tardi poiché il diniego del delicato è ancor prima di lei. Una ripulsa autoinflitta che non investe la donna, ma ciò che rappresenta. Invero il suo nome è sempre presente nelle parole dell’autore:

Osservo Jeanne Muoversi. Mi affascinano i gesti di una donna che vive al mio fianco; sono stupito che una donna possa vivere al mio fianco. Nessuna donna ha mai abitato a casa mia. Tutt’al più vi ha passato la notte. Oppure si viaggiava insieme. Da vero libertino, ho conservato sempre una specie di castità; mai una donna è penetrata, si è installata nel mio intimo.

L’intima rinuncia alla donna disegna la non accettazione della fine di un seduttore: Jean è lo specchio di un arresto. Un termine sigillato nella solitudine, che insieme al dramma esistenziale, delineano il leitmotiv di tutta l’opera. Isolamento sollecitato per immolarsi alla paura, ovvero a quel flusso che da sempre lo possiede.

La solitudine del delicato – nella caducità di un animo che svela le fragilità di un’esistenza – muta in paura e la paura in pena. Un’angoscia a ogni modo ricercata alla maniera di un pretesto, sola sospensione da una perenne afflizione. Il trait d’union fra Drieu La Rochelle e la vita risulta sempre lei, Jeanne.
Eppure vicino a lei ho dei lunghi momenti di tregua, di riposo. Allora fa uno sforzo su se stessa, si trattiene; ma non cessa di spiarmi. Aspetta il momento in cui potrà ancora gettarsi su di me per strapparmi parole, gesti, sospiri, grida.

 

La paura di un delicato rappresenta un timore spesso simulato, almeno nella profondità di tale stato. È pensabile a un paradosso, ossia un panico di superficie che non oltrepassa l’epidermide; ciò che rimane in patina non è capace di penetrare, di infiltrarsi. E dunque l’uomo e lo scrittore vivono l’ordine della pace. In tale movimento, un desiderio si fa strada: rivedere il Partenone.

Sono dunque un esteta, se non posso vivere senza rivedere il Partenone? Ma sono stato toccato al cuore da quel colore di miele striato di rosa, infinitamente punteggiato di cristalli.

Di fatto Drieu La Rochelle sostiene lo stadio primitivo della cultura ellenica su quella peculiarmente classica. Tra un raccoglimento, una riflessione e un aforisma, il pensiero dello scrittore si volge a una dimensione spirituale. Dio e la storia di alcune religioni occupano uno spazio cospicuo.
Sono soltanto l’uomo nel mezzo del cosmo, tra Dio e il nulla, tra le grandi immagini indicibili che sono tutto il mio problema e tutta la mia realtà, che segnano i limiti estremi al di là dei quali voglio prolungare all’infinito il mio slancio.

Da un lato vi è un rapporto intimista con Dio, dall’altro un’indagine teorica delle religioni. L’inchiostro di un uomo raffinato traccia dei confini: fra Dio e la terra, tra un sacerdote e un guerriero e, sopra questi limiti oscilla un combattivo che si fa sempre più sacerdotale. Il piacere non viene respinto, ma confinato nella zona dell’indifferenza. Il ritorno è sempre in Jeanne, nel calore del suo amore, sorgente di grazia e mestizia. Ma lei è anche la donna che domanda completezza con la richiesta della maternità, esigenza che lo scrittore riceve come una forma di ablazione annientatrice. Il focolare invocato da Jeanne è l’annullamento respinto da Drieu. Il figlio figura per un delicato la perdita nell’unificazione di due egoismi. E l’aspirante madre non rappresenta infine la devozione assoluta, ma colei che si è subordinata e in questo ha asservito anche il suo uomo. L’amore come abnegazione si è fatto il bisogno di una donna, che nel pensiero puro e delicato, è mutato nella brama di un altro essere.

Jeanne mi vuole ancora – e si vuole – in un figlio. Ma non sarà più né lei né me. Il suo sogno è impossibile, questo figlio non sarà noi. Sarà un’indipendenza, un’ingratitudine, un ego.

Dall’isolamento al rifiuto, La Rochelle (Gilles, La Commedia di Charleloi, Fuoco fatuo, Una donna alla finestra, Piccoli borghesi, Stato civile, Socialismo fascista…)  si avviluppa in un vortice di aridità: aver voluto Jeanne solo nel preludio della paura di non poterla possedere. Viverla al proprio fianco e avvertirla come lontana, poiché in quel figlio scorge l’ipotesi terribile di essere superato. La coppia trascorre le vacanze estive su un’isola bretone; qui la natura disegna un’ulteriore occasione per allontanarsi: la contemplazione allontana dalla carne. L’anima leggera infine tace davanti al fatto compiuto di una donna in attesa. A fronte di una nascita, si scaglia la sterilità di un uomo che non vuole divenire padre, ma restare nel sentiero di un delicato, nel percorso verso una fine che una nuova creatura avrebbe mutato in un inizio. E per un nuovo principio, sono necessarie forze, illusioni e progetti. Energie che l’autore raccoglie, certo per un esordio, ma quello della sua vecchiaia, ovvero la liberazione finalmente dal suo Io. L’attesa è rivolta ad accogliere il germe del divino.

La sterilità di Drieu de La Rochelle si contrappone alla fertilità di Jeanne, come un deciso declino alla vita e all’amore. La devozione della donna è totale e in tale deferenza, la rinuncia al figlio nell’aborto, sottolinea la passione assoluta per La Rochelle e il disamore per se stessa. Entrambi rappresentano il simbolo della solitudine e della resa all’esistenza. Il diario delinea per il suo autore il confessionale di un ricco uditorio, pronto alla riflessione e a comprendere con leggerezza e partecipazione le sfumature di un animo delicato.

A quelli che possiedono la fede e la grazia, che sono impegnati nel cammino dell’ascesi e della mistica, occorre molto amore per giustificare il loro apparente rifiuto dell’amore umano. Occorre molto amore divino per perdonare il rifiuto dell’amore umano.

L’opera, pubblicata un anno prima del suicidio, mostra un percorso spesso impervio e non agevole. Un’occasione, tuttavia preziosa, per sollevarsi da un caos effettivo e compiere una sorta di ascesi dentro la penna di uno scrittore elegante e diviso tra il grido eroico e l’autodistruzione. Una prima lettura ne domanda una seconda e ancora fortuite riprese per ubriacarsi di delicatezza. Parafrasando Paolo Conte, a La donna d’inverno, lasciamo “un libro di La Rochelle aperto tra le dita”.

Recensione de L’intellettuale dissidente

André Malraux, romanziere avventuroso e ‘umanista laico’

André Malraux, nato a Parigi nel 1901, è tra i personaggi più eclettici del XX secolo. La sua giovinezza è animata da innumerevoli passioni: i viaggi, il desiderio di scrivere e l’amore per l’arte. Nel 1921 pubblica il suo primo romanzo: Lune di Carta, opera ispirata al cubismo.

Cultore e amante dell’Archeologia, Malraux parte per l’Asia nel 1923 per una spedizione in Indocina. Qui è accusato di aver sottratto dei bassorilievi di Khmer e deve subire un processo. Questa esperienza, per quanto sventurata, si rivela proficua, in quanto Malraux scopre la corruzione del mondo coloniale e la miseria degli Indigeni indocinesi. Ciò marca l’inizio della sua carriera politica.

Dopo un breve ritorno in Francia, André Malraux riparte per l’Indocina. Qui fonda un giornale nel quale denuncia con forza i pilastri del sistema coloniale. Queste vicende sono produttive soprattutto a livello letterario perché ispirano i romanzi: I Conquistatori pubblicato nel 1928 e La via dei Re nel 1930.

In questi anni, entra in contatto con il movimento rivoluzionario Giovane Annam e con i
protagonisti dell’insurrezione a Shangai. A questo impegno politico fa corrispondere un romanzo: questi eventi, saranno lo sfondo di uno dei suoi scritti più celebri, La condizione umana del 1933, che lo consacrerà nel panorama letterario del Novecento. Durante l’ascesa del fascismo, Malraux aderisce al Comitato Mondiale Antifascista: milita a favore del comunismo, che è per lui l’unico modo per combattere efficacemente queste ideologie così “chiuse”. Nel 1935 pubblica Il tempo del disprezzo, un invito a resistere ai regimi totalitari che si espandono in Europa.

L’anno seguente partecipa alla guerra civile in Spagna a fianco dei Repubblicani: in questa cornice è inquadrato un altro dei suoi romanzi, La Speranza, che vede la luce nel 1937, dove si assiste al crollo della repubblica spagnola. Nella seconda guerra mondiale,diviene membro della Resistenza sotto l’occupazione tedesca e viene arrestato dalla Gestapo ma riesce a fuggire.

Aderisce al gallismo, e viene nominato Ministro dell’informazione. Il suo incontro con il generale de Gaulle nel 1944, sul fronte dell’Alsazia segna una nuova tappa della sua esistenza: Malraux infatti abbandona la letteratura per dedicarsi all’arte. L’amore per l’arte offre all’autore francese nuovi scorci letterari: nascono i saggi La voce del silenzio nel 1951, il Museo immaginario della scultura mondiale nel 1952-54, La metamorfosi degli dei nel 1967.

Con il ritorno di De Gaulle al potere, Malraux diventa ministro della cultura. Pubblica nel 1967 un’opera autobiografica, Antimemorie, in cui si esprime compiutamente la sua concezione del mondo, basata su una ricerca dell’assoluto. Muore nel 1976.

Il nuovo Umanesimo di Malraux

Nei suoi romanzi Malraux ricerca i valori universali che, sono alla base delle azioni umane: la dignità, che può spingere l’uomo alla morte volontaria per dare un senso alla sua vita e la fraternità, che porta a unirsi per andare oltre l’egoismo e lottare per il bene comune.

Nel dopoguerra Malraux medita sulla storia e sul significato delle opere d’arte, gli strumenti più adatti per l’uomo a prendere coscienza del proprio destino e quindi ad appropriarsene. L’arte si configura come l’elemento a portata dell’uomo, la sua unica chance di immortalità; essa infatti, “come ogni conversione, è la rottura di un rapporto anteriore fra un uomo e un mondo”. Attraverso la riflessione sulla natura e sui valori della arti figurative, lo scrittore introduce un nuovo tipo di umanesimo, l’Umanesimo laico, basato sul rifiuto degli impulsi violenti che animano la natura umana.

La condizione umana: un dramma esistenziale

La condizione umana, romanzo del 1933 insignito del Premio Goncourt è pubblicato prima in feuilleton nella rivista Nouvelle Reveu Française e poi in un volume. Anbientato in Cina, alla fine degli anni Venti, La condizione umana evoca la rottura dell’alleanza tra il Kuomintang di Chang Kai-shek e il partito comunista cinese e l’inizio delle repressioni comuniste. I protagonisti del romanzo sono Kyo, Tchen, Katow. Essi subiscono il medesimo destino: la morte.

Il romanzo, pervaso da un afflato rivoluzionario, più che storico è esistenziale in quanto mette in luce un degli aspetti tragico della vita umana. La dignità di questi uomini è calpestata e la condizione umana si riduce ad una condizione animale. La condizione umana, il titolo del romanzo, richiama il pensiero di Pascal: l’uomo è solo con il suo destino.

Eppure, in questo dramma la speranza persiste: l’uomo non può sfuggire alla sua condizione, ma, può attraverso la morte volontaria dare un senso alla sua vita. Difatti Kyo si uccide in carcere con del cianuro, e ciò fa di lui un eroe positivo, pronto a morire in nome di un ideale; Tchen si suicida per riscattare la propria dignità e anche Katow è annoverato tra gli eroi, poiché mostra la sua umanità, cedendo la propria fialetta di cianuro ad un prigioniero, terrorizzato all’idea delle torture.

Affrontando questi grandi temi di etica e politica, Malraux ha posto la sua penna al servizio del collettività annunciando, in qualche modo, la littérature engageé cioè la letteratura impegnata già impiegata da Sartre e Camus. Le opere di André Malraux infatti offrono un interessante memoriale della vita politica e culturale del XX secolo, dove, e qui risiede la forza dell’opera, gli ideali rivoluzionari ed ideologici sono messi in secondo piano rispetto all’umanità dei personaggi resi memorabili dai loro tormenti e passioni, dalle loro paure e dalle loro speranze.

Come ha giustamente sottolineato Enzo Golino, il tono alto della scrittura di Malraux evoca la grande tradizione retorica della letteratura francese e s’impenna spesso in arditi funambolismi di stile. Manierista dell’ideologia, campione di un sovversivismo reversibile che di mito in mito, tra menzogna e leggenda, gli ha fatto percorrere il tragitto dalla rivoluzione comunista a De Gaulle, autodidatta di genio, poeta dell’eroismo spettacolare, voce che si atteggia a profezia, Malraux ancora oggi avrebbe qualcosa da dire in un mondo dove l’irreparabile conflitto tra l’ uomo e ciò che egli ha creato dilania il mondo occidentale e ha dato vita al regno dell’assurdo. E lo direbbe con la stessa scioletezza espressiva sorprendente, intessuta di sfrenato egotismo e di oracolare eloquenza, che il suo amico André Gide descrisse bilanciando garbatamente ammirazione e malignità.

‘Il ragazzo con gli occhi grigi’, di Gilles Perrault

Il ragazzo con gli occhi grigi (Fandango, 2016) è un libro di Gilles Perrault, scrittore, sceneggiatore ed attivista politico francese. Del romanzo esiste anche un adattamento cinematografico ad opera del regista André Techiné (Palma d’oro a Cannes con il film Rendez-vous) che ha adattato Il ragazzo con gli occhi grigi per il cinema con il titolo Les Égarés. Tra gli attori anche Emmanuelle Béart.

 

Il ragazzo con gli occhi grigi: la trama

Francia, 1940. Il paese è lacerato dalla seconda guerra mondiale. In viaggio gli sfollati si dirigono verso il sud, in un esodo drammatico che sembra non conoscere fine. Tra questi ci sono anche una giovane donna della borghesia francese, moglie di un tenente, e i suoi due figli, Sylvie e Philippe. Lungo il cammino sono colti a sorpresa dall’attacco di uno Stuka tedesco che prende a colpire a suon di mitragliatrice i civili. Nei fumi di una tragedia senza tempo, spunta dal nulla come un fantasma Jean, un ragazzo appena adolescente e li trae in salvo. Sarà lui l’angelo protettore della sgangherata famigliola, proteggendola dai pericoli che i tre sono costretti ad affrontare, come procurarsi del cibo, trovare una dimora per nascondersi da tedeschi, sopravvivere ai soprusi degli sciacalli. Li strappa ad un ambiente ormai spoglio di regole, imbastito di confusione e furfanteria. Quella condizione di semi-anarchia che solo la guerra sa portare con sé. Lui, che parla con gli occhi grigi ma non emette suoni né parole, è un ragazzo dai modi rozzo, misterioso ed introverso che riesce a catturare l’attenzione e a sensibilizzare il lettore. Jean nasconde un segreto ma la sua presenza racchiude un tabù che tutti vorrebbero rompere, seppur per un soffio di tempo.

Il segreto di Jean

Chi è Jean, e da dove spunta? Ci sarà qualcos’altro da sapere su questo curioso personaggio che entra silenziosamente nella vita dei tre personaggi: Quello della moglie di Robert, tenente valoroso e gran signore che non compare nel libro, Sylvie, di sei anni, e Philippe, 10 anni, l’ometto di casa. Così leggero e immediato, questo volume di sole 90 pagine accoglie in un’atmosfera nella quale tragico, noir e mélo si incontrano. Una trama semplice, personaggi delineati con delicatezza e dettagli che brillano. Luccicano come una lacrima, e le lacrime non mancheranno in Il ragazzo con gli occhi grigi. Per questo motivo è superfluo soffermarsi sulla vicenda, perché ossuta e lineare si rivela. Al contrario è da notare qualche passo, assaggi di una lettura che coinvolge e spiazza al tempo stesso. Come nella descrizione di Jean:

Il ragazzo si muoveva. I piedi sfioravano il parquet. Sembrava danzare su una musica lenta che solo lui sentiva. Il corpo ondeggiava come una bandiera nella brezza leggera e il braccio destro teso in avanti, di una rigidità assoluta, sembrava l’asta di quella bandiera.

In un momento d’azione, di cui il libro non è costellato, il ragazzo dagli occhi grigi, freddi come il polo artico, in una danza da guerra, si abbatte contro due farabutti che tentano di violentare la donna. Jean ha solo sedici anni, ed è per questo che non può che figurarsi così: un uomo maturo nel corpo di un giovane venuto dal nulla. L’autore moralizza, induce alla riflessione, ferma il procedere narrativo all’improvviso: “Il problema è che la tua spaventosa frivolezza t’impedirà sempre di cogliere la dimensione tragica degli eventi”.

Buoni o cattivi, una favola novecentesca

Colpa di una superficialità della classe medio alta? Può darsi, ma il narratore non è mai spietato con la co-protagonista, la moglie del tenente. Lascia che sia la protagonista femminile a compiere l’autoanalisi, a fare i conti con il proprio passato, non solo recente. Come se in lei si racchiudesse la sconfitta di un’intera – o forse più d’una – generazione alle prese con una nuova guerra. Il microcosmo di Il ragazzo con gli occhi grigi è tipizzato, da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi, che la protagonista sembra riconoscere, come a disporre di un acuto intuito. Ovviamente il momento bellico li fa incontrare e scontrare, ma nessuno abbandona mai il suo posto assegnato dal narratore. Ognuno mostra ciò che è, presto o tardi, la natura dell’uomo emerge nettamente.

Gilles Perrault profonde così l’assaggio di un’arte narrativa dedicata alla naturalezza, primo capitolo di una trilogia incentrata sul filo conduttore della maison, ovvero la casa che i personaggi occupano lungo il loro pellegrinaggio verso la propria. In questa storia carica di paure riesce a raccontare la guerra come si narra Cappuccetto rosso ai bambini prima di dormire. L’eroe è recuperato, anche se veste i panni di un adolescente strambo. Il lupo c’è ancora, anche se intimorisce di meno. E’ come una “favola” amara, questa seconda guerra mondiale sotto la voce di Girrault, una favola per adulti.

‘Ecco la storia’: l’audace metaromanzo di Pennac

Ecco la storia è un romanzo pubblicato nel 2003 dal celebre scrittore francese Daniel Pennac, attivo anche come insegnante in un liceo parigino per quasi trent’anni e sceneggiatore teatrale.

Terminata da poco la fortunatissima saga del “capro espiatorio” Malaussène, che aveva visto la luce nel 1985 con il romanzo Il paradiso degli orchi, Pennac abbandona il mondo ironico e fiabesco dei suoi vecchi personaggi per spostarsi in un campo narrativo non meno bizzarro: Ecco la storia è infatti un singolare intreccio di realtà e finzione, un libro perennemente in bilico tra fantasia e autobiografia, con una trama che non procede in maniera lineare, ma si muove su un percorso contorto e imprevedibile.

«Sarebbe la storia di un dittatore agorafobico» dichiara un insolito incipit con un verbo al condizionale. Viene introdotta così la vicenda del sudamericano Manuel Pereira da Ponte Martins, figlio di un ricco latifondista, dotato fin da bambino di una forte ambizione a esercitare il potere, sogno che egli realizza ben presto attraverso un delitto e un colpo di stato. Terrorizzato dalla profezia di una veggente che gli ha predetto la morte per mano del suo stesso popolo, Pereira si fa sostituire da un sosia, che istruisce a dovere prima di fuggire in segreto dal paese. Il sosia sceglierà poi un altro sosia, il quale ne sceglierà a sua volta un altro, in un intricato gioco narrativo che rievoca un tema-cardine della commedia classica. È un processo potenzialmente infinito, che può ripetersi illimitatamente, ma che dovrà in realtà arrestarsi a causa dell’inaspettata evoluzione di questa stramba fiaba del potere.

La voce narrante, che si identifica con lo scrittore stesso, interrompe con frequenza la storia del dittatore Pereira e dei suoi sosia, lasciandola sospesa nel vuoto ed evidenziando così il carattere tutto ipotetico della trama – e della scrittura in generale -, come si evince fin dall’inizio dall’uso del condizionale. Lo scrittore interviene per narrare aneddoti autobiografici, vicende che rivelano la genesi del libro, incontri con persone reali che la fantasia dell’autore ha poi trasfigurato in personaggi fittizi. Queste lunghe e invadenti parentesi costituiscono il vero spirito dell’opera, che si presenta come un metaromanzo capace di stravolgere i parametri convenzionali della narrativa. Far procedere la trama diviene così una semplice opzione, una possibilità che preme per essere realizzata, ma che perde sempre di più la sua consistenza.

Le parti autobiografiche, che il lettore vede come segmenti di pura realtà, si contaminano a poco a poco con il mondo della finzione: si rimane dunque sorpresi nello scoprire che alcuni eventi raccontati da Pennac sulla sua vita non sono di fatto mai avvenuti, e che persino il personaggio di Sonia, con cui egli intrattiene lunghe conversazioni, non è mai esistito.

Ancor più che alla definizione di metaromanzo, è lecito affermare che Ecco la storia si avvicini all’idea novecentesca di iper-romanzo, quel «luogo d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili»,  come spiega magistralmente Italo Calvino nelle sue Lezioni americane. Pennac, in fondo, fa proprio questo: crea una macchina per moltiplicare le narrazioni, costruisce storie che si intrecciano su una cornice che risulta a sua volta modellata dalle vicende che da essa si dipartono. L’audacia che sta dietro a una simile scelta di scrittura avvicina Ecco la storia a opere come Se una notte d’inverno un viaggiatore dello stesso Calvino e La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec.

La riflessione, tuttavia, non si limita alla sola letteratura: il gioco di Pennac coinvolge anche il cinema, che entra prepotentemente nella trama attraverso i personaggi di Charlie Chaplin e Rodolfo Valentino. E proprio la visione del film di Chaplin Il grande dittatore permette al primo sosia di Pereira, che ha lasciato la patria per diventare un grande attore, di rispecchiarsi nella figura del barbiere senza nome e di formulare contorti ma profondi pensieri sul potere, il sacrificio e l’identità.

Facendo appello a una sensibilità letteraria che sarebbe arduo pretendere indistintamente dal grande pubblico, con Ecco la storia Pennac sembra ricordarci che un libro può avere pieno diritto di esistere e di essere letto anche senza essere scorrevole dalla prima all’ultima pagina, anche se la narrazione rinuncia alle vie lineari a cui siamo tanto abituati, anche se ci fa smarrire e ci conduce lontano, lì dove non vorremmo andare.

 

Jean-Paul Sartre, dieci citazioni per ricordarlo

Molto si è scritto su Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 Giugno 1905 – Parigi, 15 Aprile 1980), filosofo controverso, politicamente impegnato, che in tanti hanno cercato di inquadrare e collocare dove più faceva comodo. Ma perché Sartre è stato così importante questo filosofo francese, soprattutto negli anni in cui sono esplose le vere rivoluzioni culturali e sociali? Quali sono state le questioni che ha sollevato? Quale responsabilità collettiva bisognava avere a quei tempi? Che poi sono anche i nostri, quelli di oggi?

Sartre ha posto al centro della sua riflessione l’infelicità e la solitudine dell’uomo, che è profonda e non conosce tregua. Ed è la solitudine dell’uomo che si incontra e scontra con altri soggetti umani, provocando ora amore, ora odio. Una solitudine che poneva e pone delle domande. Parliamo di un uomo che, in una società moderna come quella borghese, che non ha eliminato i contrasti tra le classi, ha appoggiato la classe operaia elevandola a soggetto dell’umanità, difendendone i diritti, gli unici ad essere ritenuti giusti.  Un uomo che ha scelto la letteratura come risposta alla realtà, cercando di fuggire quanto più possibile dall’errore di porre un muro con gli altri. Il mondo sognato dal filosofo era, notoriamente, quello della conversione di ognuno, della ”rivoluzione permanente”, dell’uomo ”da fare”, che getta i fondamenti per una nuova morale da costruire.

Sartre ha inteso come un impegno l’attività di ”esprimere il mondo” perché l’uomo di cultura, il filosofo, deve porsi come funzionario dell’umanità , al servizio di essa , uscendo finalmente dall’isolamento borghese in cui era confinato.

Di seguito, alcune delle sue più famose citazioni che indubbiamente fanno riflettere:

1. Per molto tempo ho preso la penna per una spada.

2. Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive.
Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea nelle mie mani.

3. L’insieme storico decide in ogni mutamento dei nostri poteri, prescrive i loro limiti al nostro campo d’azione e al nostro avvenire reale; condiziona il nostro atteggiamento nei confronti del possibile e dell’impossibile, del reale e dell’immaginario, dell’essere e del dover essere, del tempo e dello spazio. E’ a partire da esso  che decidiamo a nostra volta dei nostri rapporti con gli altri, cioè del senso della nostra vita e del valore della nostra morte.

4. È dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto — il mondo esiste — ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. È cominciato da quel famoso giorno in cui volevo giuocare a far rimbalzare i ciottoli sul mare. Stavo per lanciare quel sassolino, l’ho guardato, ed è allora che è incominciato: ho sentito che esisteva. E dopo, ci sono state altre Nausee; di quando in quando gli oggetti si mettono ad esistervi dentro la mano. C’è stata la Nausea del «Ritrovo dei ferrovieri» e poi un’altra, prima, una notte in cui guardavo dalla finestra, e poi un’altra al giardino pubblico, una domenica, e poi altre. Ma non era mai stata così forte come oggi.

5. Non ci sono bambini”innocenti”.

6. La pace non è né democratica né nazista: è la pace.

7. Mi si dia qualcosa da fare, qualsiasi cosa… È meglio che pensi ad altro, perché in questo momento sto per recitarmi la commedia. So benissimo che non voglio far niente: far qualche cosa è creare dell’esistenza — e di esistenza ce n’è già abbastanza.

8. A Napoli ho scoperto l’immonda parentela tra l’amore e il Cibo. Non è avvenuto all’improvviso, Napoli non si rivela immediatamente: è una città che si vergogna di se stessa; tenta di far credere agli stranieri che è popolata di casinò, ville e palazzi. Sono arrivato via mare, un mattino di settembre, ed essa mi ha accolto da lontano con dei bagliori scialbi; ho passeggiato tutto il giorno lungo le sue strade diritte e larghe, la Via Umberto, la Via Garibaldi e non ho saputo scorgere, dietro i belletti, le piaghe sospette che esse si portano ai fianchi. Verso sera ero capitato alla terrazza del caffè Gambrinus, davanti a una granita che guardavo malinconicamente mentre si scioglieva nella sua coppa di smalto. Ero piuttosto scoraggiato, non avevo afferrato a volo che piccoli fatti multicolori, dei coriandoli. Mi domandavo: «Ma sono a Napoli? Napoli esiste?»

9. A che serve arrotare un coltello tutti i giorni se non lo si usa mai per tagliare?

10. Il lavoro migliore non è quello che ti costerà di più, ma quello che ti riuscirà meglio.

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