Il vero Oscar Wilde: apologeta del dolore. Un’analisi del ‘De Profundis’

Siete sicuri di sapere davvero chi fosse Oscar Wilde? Dico a quelli che sventolano i suoi libri, agli uomini di marketing che abusano dei suoi aforismi, ostentano le sue frasi e civettano con il suo personaggio, adulandolo ed emulandolo. A ben vedere, la versione di Wilde che viene proposta e che va per la maggiore oggi delinea davvero il profilo di un profeta del nostro tempo: prima del Novecento stabilì l’evasione dell’arte dalla morale e consumò il divorzio tra Bello e Buono; frequentò i salotti prima che questi fossero proiettati in Tv, precorrendo la figura dell’intellettuale-divo, conversatore mordace e col gusto dello scandalo e del paradosso; infine, con il suo stile di scrittura, fatto di aforismi fulminanti e caustici, precorse l’epoca di Twitter e di Facebook. Ma se davvero la vita di Wilde fu un’opera d’arte, come recitava una frase in odore di estetismo, ripresa da Nietzsche nella Nascita della Tragedia e che stregò D’Annunzio, allora questa storia va raccontata fino alla fine, fino all’ultima riga dell’ultimo capitolo.

È scorretto dare una versione ammezzata o parziale, non è giusto stroncare il finale dell’opera adombrando significati fuorvianti; e infatti c’è un ultimo, grandioso capitolo della spettacolare vita di Oscar Wilde che viene sovente omesso o liquidato frettolosamente, ma che invece dice molto di quest’autore, dà compimento a tutta la sua esistenza precedente e ce la fa leggere in modo diverso.
Questa parte è la lunga clausura in prigione, a Reading, a cui Wilde fu costretto a seguito delle denunce sporte a suo danno dal padre di un suo amato, ovvero Lord Alfred Douglas, che l’aveva pubblicamente additato come corruttore del giovane figlio. L’eredità più grande di quel periodo, l’opera con cui Wilde fa i conti con i suoi anni in carcere, è una lunga lettera scritta quando era ancora in prigione, indirizzata proprio ad Alfred e pubblicata in seguito col titolo di De Profundis.

Questo libro è davvero il passaggio finale della vita di Wilde, la sua ultima opera, in un certo senso il suo testamento spirituale, affidato al giovane Alfred. Ma il De Profundis fa anche chiarezza su questo rapporto, che in molti hanno voluto idealizzare o mistificare. Non è vero, infatti, che quella tra i due fosse una storia d’amore idilliaca, spezzata dal clima sessuofobo ed intollerante dell’Inghilterra vittoriana: è vero, al contrario, che Wilde fosse totalmente soffocato dal giovane Alfred, ragazzo dissoluto, superficiale ed opportunista, di cui però il grande scrittore irlandese era divenuto letteralmente succube.

Nella lettera Wilde descrive, con una tensione emotiva veramente drammatica, la volgarità di Alfred, il modo in cui il ragazzo si serviva di lui solo per ottenere soldi, vino e feste; il suo penoso narcisismo e la sua rabbiosa rivendicazione di ogni capriccio; il modo in cui Alfred sfruttasse la sua protezione per farsi scudo del padre, nei confronti del quale provava un odio profondo. Perfino la colpa della sua condanna alla prigione, per Wilde non è da attribuire alla società, al padre del ragazzo o a chicchessia, ma allo stesso Alfred, che aveva costretto Wilde a denunciare suo padre per una bagatella famigliare e la cui accusa s’era presto ritorta contro lo scrittore, su cui il padre di Alfred aveva vomitato addosso le peggiori calunnie.

Dallo scritto si capisce che non fu Wilde a plagiare un efebo ingenuo ed imberbe, ma che in realtà fu proprio il giovane e spregiudicato Alfred a sottomettere, gettandolo in uno stato di soffocante sudditanza, il più grande scrittore dell’Inghilterra vittoriana. Wilde quando parla di lui non mostra né rancore né acrimonia, ma solo una delusione amara e sconfortante, perfino pietà per quel ragazzo che, già così giovane, aveva gettato via la vita per votarla alla lussuria, all’eccesso stomachevole di cibo e di vino, all’ozio parassitario e sterile ed alla depravazione più spregiudicata.

Chi addita Wilde come libertino e come precursore dell’orgoglio gay si sorprenderebbe di leggere le righe in cui confessa il proprio amore per la moglie ed il rammarico per averla delusa, ed in cui rimpiange che il rapporto con Alfred non si sia mantenuto casto, solamente spirituale:

Mi biasimo di aver lasciato che un’amicizia non intellettuale, un’amicizia il cui primo scopo non era la creazione o la contemplazione di cose belle, dominasse interamente la mia esistenza

E sono perfino penosi gli episodi citati da Wilde per dimostrare all’amico la sua aridità, per esempio quando Alfred vide Wilde malato e scomparve da casa sua per vari giorni, senza neppure portargli il libro che lo scrittore gli aveva chiesto per alleviare la propria convalescenza, e quando finalmente si rifece vivo freddò Wilde con infami parole:

Quando non sei su un piedistallo, non sei più interessante

Il De Profundis di Wilde è importante proprio per questo: perché in quest’opera lo scrittore irlandese fa i conti con se stesso, con la sua vita, con la sua attività di letterato e di provocatore prima di entrare in carcere, rivendicando i propri meriti ma anche riconoscendo i propri sbagli. Wilde rivendica l’attività di letterato, il culto dell’estetismo, l’amore per il bello e per le arti; ma allo stesso tempo abiura le sue eccessive concessioni, che traspaiono anche da qualche aforisma poco felice, ad una concezione tutta edonista della vita, ad una sprezzante ironia nei confronti del popolo e delle persone semplici, ad una visione del mondo disincantata e cinica. Scrive Wilde:

Mi lasciai ammaliare in lunghi incanti di abbandoni sensuali e senza senso. Mi divertii a fare il flaneur, il dandy, l’uomo di mondo. Mi circondai di persone dalla natura più infima e dalla mente più meschina. […]. Ciò che era stato per me il paradosso nella sfera del pensiero, diventò la perversità nella sfera della passione. Il desiderio, alla fine, divenne una malattia, una follia, forse tutte e due. Non mi importò più della vita degli altri. Prendevo il piacere ovunque volevo e passavo oltre.

Ecco un vecchio cultore del piacere che sconta sulla sua pelle e denuncia con forza morale enorme lo scotto dell’edonismo morboso tanto in voga oggi: se il godimento viene liberato da ogni salutare limitazione, diventa ingordo ed insaziabile, inquina amicizie e rapporti, ci porta a dimenticare gli altri e la realtà e a piegarci al narcisismo, ci fa smarrire il senso profondo delle cose e delle relazioni, ci inaridisce e ci immiserisce.

La vera scoperta, accanto ai limiti e alle brutture del piacere smodato, che Wilde fa in prigione è invece il carattere necessario e fecondo che nella vita di ciascuno hanno il dolore, la privazione, la sofferenza. Oggi, nell’Europa opulenta dei due terzi di garantiti, questo è ancora un messaggio irricevibile, e anche noi facciamo fatica ad accoglierlo senza sentirci inadeguati, impreparati, non all’altezza. E però questa è una verità che ciascuno di noi ha provato sulla sua pelle, ha avvertito profondamente dentro di sé almeno una volta: quando proviamo una sofferenza, pur piccola che sia, una volta che l’abbiamo superata il mondo ci sembra più leggero, le nostre priorità sono riordinate, i nostri rapporti con chi ci ha visti inermi e vulnerabili diventano più sinceri e profondi. Ma ancora, l’ansia di dover sempre apparire o di essere sempre perfetti ed impeccabili svanisce, si diventa più maturi, si intuisce l’importanza davvero relativa delle nostre vicende, personali e individuali, rispetto alla vita nella sua vastità: spesso, ci si rende disponibili a mettere la nostra piccola esistenza al servizio di qualcosa di più grande, che ci trascende e ci sovrasta.

Qui Wilde tocca un tema che scandagliò con singolare profondità Nietzsche in “Al di là del Bene e del Male”, ma che è anche onnipresente in Dostoevskij: ovvero la necessità per ciascuno di portare la propria croce, di passare dalla sofferenza per arrivare ad una forma di amore più vero, che non si arresti alla superficie, alle apparenze, alle tendenze. Wilde, con una franchezza ed onestà morale che ce lo fa sentire vicino, ammette anche che, durante la sua vita prima dell’arrivo in carcere, aveva vissuto infantilmente come se il dolore e la sofferenza non esistessero, aveva voluto provare, secondo una mania molto in voga oggi, ad abolire la croce dalla sua vita, vivendo una vita in cui ci fosse solo il piacere:

Insuccessi, infamia, povertà, dolore, disperazione, sofferenza, le lacrime persino, le parole spezzate che mormorano le labbra di chi soffre, il rimorso che lastrica di spine ogni cammino, la coscienza che giudica e condanna, l’avvilimento che punisce, l’infelicità che si cosparge il capo di cenere, l’angoscia che si avvolge nell’abito di sacco e versa fiele nel suo bicchiere: tutto ciò mi spaventava.

Oggi la società dei consumi e dello spettacolo ci prospetta sempre più spesso la favola di un mondo depurato dal dolore, in cui ci siano solo il piacere, lo svago, la dissolutezza gaia, il divertimento: a volte anche noi ne siamo sedotti, ammaliati e tentati. Ma quello che c’insegna Wilde è che questo mondo, senza croci e sacrifici, è un mondo falso, che ci porta a non conoscere veramente nessuno a fondo, neppure noi stessi, e in cui finiamo solo per adeguarci alle maschere, alle pose ed ai comportamenti preconfezionati che la società ci propone. Scrive Wilde, in una frase che dà il senso più pieno della sua conversione letteraria ed esistenziale, di una bellezza ed una forza spaventose:

La sofferenza, al contrario del piacere, non porta la maschera

In tutto questo, è quasi naturale che Wilde additi Gesù come modello non solo per ogni vita ma anche per ogni arte. “Riconosco una più intima ed immediata connessione tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell’artista […].” In questa meravigliosa accettazione del mondo “al di là del bene e del male”, in questo amor fati, Wilde arriva anche a formulare una sua personale teodicea: egli dice che Dio, pur essendo buono, permette il dolore perché è solo mediante al dolore che si può pervenire all’amore:

[…] se il mondo è stato, come ho già detto, costruito sul dolore, le mani dell’amore ne sono state l’artefice: l’anima dell’uomo, infatti, per cui il mondo è stato creato, non avrebbe potuto in nessun altro modo raggiungere le vette della sua perfezione. Piacere per il corpo bello, ma dolore per l’anima bella.

È un messaggio difficile da ricevere oggi: che ne sappiamo, noi figli del benessere, di che sia la vera sofferenza? Ma tentare di accettare ed affrontare la vita, anche nei suoi rischi e nelle sue privazioni; cercare di mostrarsi anche con le proprie fragilità e le proprie ferite è forse l’unico modo di vivere davvero, di essere davvero se stessi, di dare un senso ai propri giorni ed ai propri incontri, di non circondarci solo di persone che ci abbandonerebbero se non fossimo più “su un piedistallo”. È questa anche l’esortazione suprema e finale che fa Wilde a Lord Douglas, il ragazzo che pure l’aveva così vergognosamente amareggiato: di non eludere né scansare le preoccupazioni e le difficoltà, rinchiudendosi nella protezione della madre o nel suo delirio narcisistico, infantile ed isterico, ma affrontare queste difficoltà, attraversare “la polvere”, per scoprire la sua vera identità, per conoscere finalmente se stesso, oltre alle maschere e alle apparenze dietro cui si nascondeva. Forse così anche il loro rapporto, così misero ed infelice, avrebbe potuto assumere un senso nella comprensione di quest’eredità profonda.

Venisti da me per conoscere i piaceri della vita e i piaceri dell’arte. Forse io sono destinato a insegnarti una cosa assai più splendida: il significato del dolore, la sua bellezza.

 

Luca Gritti-L’intellettuale dissidente

Graham Greene, scrittore-giornalista poliedrico e cosmopolita

Nato a Berkhamsted, in Gran Bretagna il 2 ottobre del 1904, Graham Greene ha dedicato tutta la sua vita alla scrittura senza fermarsi mai. Infatti durante i suoi numerosi viaggi traeva fonti essenziali per la sua poetica. Il contatto con questi luoghi (Africa, Messico, Estremo Oriente, Italia, Francia ecc.), ha permesso di rendere la sua narrativa portavoce a chiare linee dei conflitti e dei mutamenti dell’epoca. Nel caso di Greene è impossibile tracciare confini netti tra vita e opera letteraria, queste due componenti costituiscono in modo inscindibile la sua natura di intellettuale. Proveniente da una famiglia di orientamento protestante, a partire dal 1912, lo scrittore frequenta la scuola di Berkhamsted dove il padre Charles Henry svolge il ruolo di preside. Durante gli anni scolastici è vittima di bullismo, questa esperienza traumatica lo accompagnerà fino ai suoi ultimi giorni e influirà in modo incisivo sulla sua scrittura. Dopo un tentativo di suicidio e le cure psicoanalitiche del dott. Kenneth Richmond, accede al Balliol College di Oxford (1922) dove conosce la sua futura moglie Vivien Dayrell-Browing che lo inizierà al cattolicesimo, aderirà poi nel 1923 al Partito Comunista ma vi rimarrà solo per un mese. Mentre frequenta il College, Greene comincia a scrivere versi che culminano con la pubblicazione della sua prima opera, una raccolta di poesie intitolata Babbling April (1925).

L’attività giornalistica di Greene e l’incontro con Hollywood

Diplomatosi l’anno successivo, lo Greene comincia la sua carriera giornalistica dapprima come volontario al «Nottingham Journal» e poi come vicedirettore presso il «Times» fino al 1930. Nel 1929 lo scrittore pubblica il suo primo romanzo The Man Within, storia di Andrew e dei suoi compagni contrabbandieri che scappano per non essere accusati di omicidio. Dopo l’abbandono del «Times», egli si dedica principalmente alla scrittura e alle sue missioni di inviato speciale. I resoconti dei suoi viaggi in Sierra Leone, Liberia (1934) e Messico (1938) fungono da materiale per opere come Journey Without Maps, The Lawless Roads e nel romanzo The Power and the Glory. All’approssimarsi della seconda guerra mondiale Greene riprende il lavoro di giornalista per lo «Spectator» occupandosi in un primo momento della pagina teatrale e grafica, e di quella letteraria dal 1940-1941. Proprio grazie al suo lavoro di sceneggiatore, egli si trova in diretto rapporto con il mondo di Hollywood; progetta la prima sceneggiatura The Tenth Man rielaborata solo successivamente e collabora con Rattigan trasponendo il suo romanzo Brighton Rock in un film. Dal 1941 al 1943 risiede in Africa impiegato dal Ministero degli Affari Esteri.

In realtà dietro tale apparenza si cela la reale professione di Greene: agente segreto per il governo britannico, ruolo rivestito anche durante la prima guerra mondiale da suo zio Sir W. Graham Greene K.C.B. Tale esperienza è trascritta nel diario di viaggio Convoy to West Africa e trasposta in The Heart of the Matter (1948). Dal 1947 al 1953 Greene scrive alcuni libri per l’infanzia, recensioni letterarie per l’«Evening Standard» e produce un gran numero di introduzioni a testi letterari come al The Good Soldier (1962). Sebbene egli stesso abbia indicato in un primo momento la distinzione tra i suoi romanzi “seri” e “leggeri” rigetta più volte tale affermazione e rinnova il suo disagio per l’etichetta di scrittore “cattolico”. Egli spiega che nonostante la problematicità cattolica assuma un posto principale nei suoi saggi, il suo scopo è voler semplicemente esporre i problemi spirituali che lo tormentano cercando in questo modo di risolverli, ma non ha intenzione di divulgare un credo ideologico.

La passione per i viaggi e l’esotismo

Negli anni ’50 Greene ottiene altri incarichi giornalistici sia come inviato per il «New Republic», che come corrispondente per il «Sunday Times». Questo lavoro lo mette di fronte ad enormi problematiche politiche. Parte poi per il Kenya, la Malesia e l’Indocina, proprio in quest’ultima ambienta il romanzo intitolato The Quiet American (1955), una sorta di thriller psicologico. Nel 1957 soggiorna a Cuba e scrive Our Man in Havana pubblicato l’anno successivo. Nel 1959, compie un viaggio nel Congo belga che funge da sfondo per il romanzo A Burnt-Out Case, trascritto nel diario Congo Journal. Il ’62 è un anno fondamentale per l’autore, egli riceve la laurea ad Honorem in Lettere dall’Università di Cambridge. Seguono altri viaggi che lo conducono in Arabia, Cina, Sud America e infine in Argentina e in Paraguay per il  «Sunday Telegraph». Si reca poi a Panama come ospite del generale Omar Torrijos Herrera, trascrivendo il resoconto di tali esperienze nel volume Getting to Know the General (1984). Proprio in questi luoghi sono ambientati alcuni dei romanzi scritti negli ultimi anni di vita come Travels with My Aunt (1969) e la seconda parte di The Captain and the Enemy (1988) suo ultimo romanzo.

Come si è detto precedentemente gli scritti di Greene non sono altro che rielaborazioni di esperienze di vita, che lo scrittore in prima persona da critico, giornalista, emissario del Foreign Office durante la seconda guerra mondiale, inviato speciale, ha voluto far confluire nel suo corpus letterario avvalendosi di una scrittura chiara e precisa. Nell’ultima parte della sua produzione mostra un risvolto parodico di questi eventi, visibile in The Honorary Consul e nel Monsignor Quixote (1982). Il 3 aprile del 1991 dopo essersi trasferito in Svizzera si spegne, concludendo il suo ultimo “viaggio”, quello della vita.

Exit mobile version