Sulle stile di Tommaso Landolfi: sinuoso e avventuroso

Tommaso Landolfi scrive e pubblica negli stessi anni di Giuseppe Dessì. Anche lui è un autore poco conosciuto dal grande pubblico, complice il carattere schivo. Nasce a Pico, in provincia di Frosinone, e perde la madre in tenera età. Si laurea in letteratura russa a Firenze, discutendo una tesi sulla poetessa Anna Achmatova, ed ha modo di entrare in contatto con un ambiente letterario molto ricco, e ciò influisce molto sul suo modo di scrivere: egli inizia la sua attività letterario durante il ventennio fascista, periodo molto “chiuso” a causa dello stretto contatto con le letterature straniere.

Nel capoluogo toscano Landolfi collabora a diverse riviste letterarie, come Campo di Marte e Letterature. Il demone del gioco è al centro della sua produzione letteraria, così come della sua vita, e anche la vanità umana. Salvo brevi soggiorni all’estero, si sposta prevalentemente tra Roma e Firenze.

Ha un’esistenza appartata, lontana dai salotti intellettuali e mondani, ma nonostante ciò viene a contatto con molti intellettuali, tra cui lo stesso Calvino, che ne curerà un’antologia nel 1982. Anche Carlo Bo ci fornisce molte informazioni su Landolfi, definendolo un personaggio avvolto nel mistero, privo di una posizione politica. Nel 1963 vince un premio letterario, il premio Montefeltro. Nel 1975, lo scrittore ottiene il massimo riconoscimento della sua carriera artistica: con A caso vince infatti il Premio Strega.

Landolfi si ammala, complice anche il clima umido di Pico, e cerca sollievo nelle località liguri di San Remo e Rapallo. Si spegnerà a Ronciglione (Viterbo) l’8 luglio 1979. Il patrimonio letterario lasciato in eredità diviene oggetto di continuo studio e di riedizioni, a opera di Idolina Landolfi. La figlia di Tommaso, si occupa per tutta la vita della cura e della promozione dei testi paterni, fondando nel 1996 il Centro Studi Landolfiano.

Dello scrittore «molto bello e molto pallido» (Natalia Ginzburg) ormai non si può non parlare negli educati circoli dei letterati italiani, e questo rende Tommaso più antipatico di quanto non lo fosse (davvero) quand’era ignoto, ignorato e desideroso di esserlo. Per questioni di diritti Landolfi non fece parte del mucchio selvaggio: lo sostituii con il più algido Federigo Tozzi. Successivamente, i diritti sono venuti al pettine: l’editore Adelphi ha pubblicato Viola di morte (2011), la prima raccolta poetica di Tommaso, edita nel 1972, a cui seguì, nel 1977, in quanto «grave e terribile seguito» (parole sue), Il tradimento (ora Adelphi, 2014), libro ben più bello (che tra l’altro, per quel che conta, ottenne un premio Viareggio).

Italo Calvino paragona l’attività letteraria landonfiana a quella degli scrittori francesi di fine ottocento, mentre Carlo Bo ha più volte dichiarato che Landolfi, subito dopo d’Annunzio, è il primo scrittore in grado di giocare con la lingua italiana. Molti altri critici, hanno associato il macabro presente il Landolfi, a quello dell’autore Edgar Allan Poe.

Lo scrittore toscano ha saputo giocare con la lingua, plasmando le regole della grammatica a suo piacimento, e nei suoi scritti la tradizione, celebrata con periodi sinuosi e formalmente impeccabili, si alterna alle più originali sperimentazioni che, per la loro natura sorprendente e provocatoria, sembrano quasi voler sfidare le risorse della lingua. Le parole per Landolfi sono vive: saltellano gioiose da un periodo all’altro, sempre alla ricerca di nuove avventure.

I temi delle sue opere spaziano dal fantastico al grottesco, dall’insolito al raccapricciante, dall’illogico all’assurdo. Il suo profondo scetticismo verso il reale si esprime nell’arte con il ricorso al gioco e allo scherzo, che mettono in campo un’ironia dissacratoria e inarrestabile. Della quotidianità, i suoi testi valorizzano gli aspetti stravaganti e onirici.

I critici hanno finito per definirlo un surrealista, per via della sua indifferenza verso il clima politico degli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sebbene la definizione sia indubbiamente semplicistica, alimentata in gran parte dal netto contrasto fra il suo atteggiamento disinteressato e il tenace attivismo di diversi suoi colleghi, qualcosa di vero c’è: come molti altri artisti, infatti, si sentiva estraneo al suo tempo, giudicato come oscuro e, a tratti, perfino incomprensibile.

Michael Weinberg, “Il diario di Lela – Storia di ordinari abusi”

“Il diario di Lela – Storia di ordinari abusi” di Michael Weinberg è un’opera coraggiosa, dedicata «a tutte le donne vittime di violenza, costrette nel quotidiano silenzio del proprio dolore»; la protagonista della vicenda è colei che nella vita reale l’ha ispirata, e che ha avuto la forza di raccontare la sua storia e di ripercorrere anni di indicibile sofferenza e di insopportabile vuoto, causati da uomini disgustosi che l’hanno resa un oggetto, una marionetta senza volontà.

Lela, nome di fantasia, offre generosamente il suo vissuto sperando che possa essere di conforto per le donne che stanno passando il suo stesso inferno, e che magari possa anche spingerle a riscattarsi e a riprendere in mano la propria esistenza. In tal senso sono una preziosa testimonianza i brani del diario di Lela contenuti nell’opera; sono pagine dure e drammatiche e a volte, durante la lettura, si arriva a pensare che sia troppo da sopportare per un essere umano, e che sia quindi frutto della fantasia di Lela.

Eppure, come è ben dichiarato, sono reali storie di vita vissuta e meritano quindi di essere trasmesse a più persone possibili, per diffondere sensibilizzazione sul tema della violenza contro le donne: una piaga che ogni anno miete vittime che rimangono per lo più silenziose, a causa della paura, della vergogna o del senso di colpa indotto da una società che non difende i più deboli ma che, anzi, li giudica senza pietà. È quindi importante che tutti sappiano ciò che accade, che vivano le sensazioni provate dalle vittime di stupro, che si rendano conto dell’entità delle terribili ferite fisiche ed emotive che non guariscono mai, e che gettano le donne in un incubo senza fine.

Michael Weinberg accompagna rispettosamente il personaggio di Lela, una vera e propria sopravvissuta, nel corso di una vicenda che fa male e che fa provare rabbia e sgomento; ci racconta senza censure le tragiche esperienze di questa giovane donna che perde pezzi della sua anima a ogni violenza, e che smarrisce la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, di occuparsi di sé stessa e perfino di provare sentimenti ed emozioni. Una donna che diventa nulla perché odia il suo corpo abusato, prima di rendersi conto, dopo un lungo e sofferto cammino, di non avere nessuna colpa – «I mostri sono loro, non io».

L’autore torinese presenta un’intensa opera ispirata a eventi realmente accaduti: è il racconto della triste vicenda di Lela, costretta a subire per anni violenze e abusi inimmaginabili che l’hanno spinta sull’orlo del baratro. Una storia di sofferenza e di riscatto narrata dall’autore con delicatezza, e con rispetto per la cruda e straziante verità dei fatti.

 

SINOSSI DELL’OPERA. Frammenti di dolore, estrapolati dal racconto di una donna, lasciano spazio a interrogativi e dubbi atroci su cui indagare. Adriano, giornalista brillante e dal fiuto per le investigazioni, si troverà a fare i conti con il diario di Lela, le cui pagine rimandano al profilo complesso di una ragazza dal vissuto emotivo devastato e intorpidito da stupri reiteratamente subiti. Sarà proprio Adriano che – entrando di soppiatto nelle squallide vite di chi si è macchiato di simili atrocità – farà luce sugli eventi tragici che hanno segnato il percorso di Lela, e che sembrano averla condotta fino alla morte. È un romanzo che dà voce a tutte le donne che hanno subìto e subiscono violenze, ma che non hanno la forza e il coraggio di raccontare. È un invito ad ascoltare il silenzio, quello rumoroso, e a comprenderlo, invece che giudicarlo.

 

LA COLLANA “BERKANA” DI GRAUS EDIZIONI, FONDATA E DIRETTA DA ROBERTA BEOLCHI: Berkana è una runa che viene dalla cultura celtica e germanica; rappresenta la Runa dell’energia femminile, della fecondità, della rinascita e della rigenerazione ed è simbolo positivo dell’universo femminile. Proprio in virtù di tale motivo, la Collana Berkana raccoglie testi che raccontano di donne che hanno subito violenze ma che ce l’hanno fatta, riuscendo a trarne un insegnamento, e anche storie di orfani che sono riusciti a superare la perdita della propria madre; testi da cui trarre un insegnamento positivo e che esaltano la Donna. Graus Edizioni rappresenta la prima casa editrice che possiede una collana dedicata ad una runa, la runa della fertilità, della creatività e del rinnovamento.

 

BIOGRAFIA DELL’AUTORE. Michael Weinberg (Torino, 1967), pseudonimo dell’autore, Dottore Commercialista, esperto nelle soluzioni alle crisi d’impresa, vive oggi a Dubai ove si occupa in prevalenza di consulenza transnazionale. Scrive per passione, traendo spunto da fatti ispirati a vicende realmente accadute. Il suo primo libro, “L’Intervista, la verità sulle trame ordite contro il curatore della TAV” (Graus Edizioni) è stato insignito del Premio Menotti, Spoleto Art Festival (2021).

‘In viaggio’: Gerry Di Lorenzo ritorna in libreria con una nuova silloge

In viaggio, edito da Robin Edizioni, è la nuova silloge di Gerry Di Lorenzo. Lo scrittore è nato il 27 giugno 1975 in provincia di Napoli, dove trascorre la sua infanzia. Fin da piccolo coltiva la sua passione per la poesia e la musica che lo porterà a formarsi tra Zocca (Mo) e Roma. Tornato a Napoli si laurea, intraprende l’attività di libero professionista, senza mai abbandonare le sue vere passioni.

Nel 2019 pubblica la sua prima silloge poetica: Pensieri di un poeta mediocre. Nel 2021 pubblica la sua seconda silloge poetica: In viaggio. Attualmente Di Lorenzo collabora con giornali online pubblicando editoriali, scrive canzoni (passione nata sin da bambino) sia come autore che come compositore e ha ancora un cassetto pieno di progetti da realizzare. Dopo le prime due raccolte di poesie, si è avvicinato alla prosa e sta ultimando la scrittura di un romanzo.

In viaggio: sinossi

“Scrivere una poesia è come disegnare un ritratto:  devi andare oltre al volto che dipingi… devi leggere  dentro per dare al ritratto la giusta espressività. Un bel ritratto riesce sempre a trasmettere qualcosa, come se chi lo osserva conoscesse davvero  quel volto dipinto. Una poesia è uguale: trasmette emozioni quando  sei in grado di far conoscere a chi legge, la persona  della quale parli, o vivere lo stato d’animo che descrivi. Poi il resto viene da sé: la poesia, la fantasia e  l’immaginazione che vola in alto” scrive Gerry Di Lorenzo nella premessa

La vita è un continuo viaggio alla ricerca di sé stessi, fotografando piccoli gesti e riflessioni per fermare questi istanti nel tempo. Per quanto possa sembrare assurdo, “cercarsi” è un viaggio possibile ed incredibile.

Tempo

Ho l’ossessione del tempo
quello che mastico tra i denti
e lo faccio col timore
che mi scivoli dritto in gola
togliendomi l’aria che respiro
senza lasciarmi nemmeno il tempo
di raccontarti il mondo che gira
perché si blocca il tempo per spiegarti
e può farlo lasciandomi senza voce.
Oggi ho paura del tempo
perché passa veloce
e veloce fugge via.
Tra questi versi può finire
o alla prossima poesia
senza il finale che vorrei dire
mentre cerco le parole
quelle giuste da scolpire
sopra il foglio delle scuse…

“Mi chiamo Gerry Di Lorenzo – ha dichiarato l’autore – e ho capito che se nella vita mi fermo, sono morto! Probabilmente è l’unica cosa che ho capito della vita. Questa paura mi spinge a trovare sempre nuovi stimoli e nuove iniziative per rincorrere quella serenità interiore che, per un essere inquieto come me, dura un secondo e vola via. Credo che avere sempre degli obiettivi sia alla base della felicità, perché in fondo, si è felici solo se si è soddisfatti e privi di rimpianti.

I rimpianti mi spaventano, mi opprimono, mi tolgono l’aria perché sono la fonte delle insoddisfazioni e dell’infelicità. Troppo spesso si ci illude di essere felici, ma la realtà è che in tanti la felicità non l’hanno mai incontrata e, non conoscendola, sono convinti che ciò che hanno lo sia. La felicità è come una donna che devi fare tua, riempire di premure e alimentare quell’amore ogni attimo della vita, altrimenti andrà via. Chi sono? Sono un uomo qualunque, ancora alla ricerca di sé stesso e che lo fa scrivendo, trasformando in versi i suoi stati d’animo, le sue paure, le sue gioie, le sue delusioni”.

Dalla lettura di questa seconda raccolta si comprende che la vita è un continuo viaggio alla ricerca della felicità, affrontando tormenti e vivendo emozioni sottopelle che scuotono.

 

http://www.robinedizioni.it/nuovo/in-viaggio

 

‘Vita in Egitto’ di Enrico Pea. Racconto da dove è partita la rinascita della letteratura italiana

Nel 1949, la Mondadori pubblica Vita in Egitto di Enrico Pea. Nonostante da decenni manchi una ristampa, questo titolo ha un’importanza capitale non soltanto per il gran pezzo di letteratura che rappresenta, ma anche per l’incredibile testimonianza che contiene.

In queste pagine, infatti, Pea fa un resoconto estremamente espressivo e concreto degli anni da lui vissuti in Egitto, per esattezza ad Alessandria, gran metropoli mediorientale. In questa opera lo scrittore seravezzino ci fa dono di pagine roventi; questo non solo in virtù dell’arido sole alessandrino, che tanto volentieri cuoce la carne degli uomini, ma anche per il turbinio di passioni politiche, amorose, artistiche e religiose che muovono le zone più umili della città, e che sono racchiuse in questa opera.

Alessandria d’Egitto durante l’inizio del XX secolo

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, Alessandria d’Egitto è un brulichio di razze e culture diverse: vi si trovano greci, arabi, copti, spagnoli, russi, ebrei e italiani, tutti mossi verso questa metropoli mediterranea per motivi diversi. Per quanto riguarda gli italiani (ma non solo), i motivi più stringenti sono sostanzialmente due: la ricerca di un lavoro e la politica. Proprio per quest’ultimo motivo, è presente una rete anarchica molto organizzata sul territorio. Non ci vuole molto tempo che il giovane Pea viene “iniziato” all’anarchia da Pilade, pisano, fuggito dall’Italia a causa di una condanna pendente sulla sua testa:

“Da Pilade ebbi la prima lezione sulla “società futura”. Fui chiamato “simpatizzante” che è il primo grado (anche l’anarchia ha i suoi gradi), “compagno” lo sarei diventato più tardi. Alto. Magro e di pelle rossa. Autoritario. Pilade metteva soggezione”.

Enrico Pea mette su un luogo che sembra essere la rappresentazione vivida di questa temperie alessandrina, ovvero la “baracca rossa”, «tumultante ritrovo di gente d’ogni risma e d’ogni nazione».

Trama e contenuti

È nella baracca rossa che si riuniscono, ogni giorno, tutte le teste calde della città, ed è proprio qui che Pea fa la conoscenza con il giovane Giuseppe Ungaretti. È a questo punto, quindi, che è necessario chiarire la natura di questo anarchismo, così diffuso nei bassifondi di Alessandria d’Egitto e nel libro. Non c’è da pensare, infatti, che tutti coloro che si professano anarchici, o che frequentano la baracca rossa, siano realmente degli ideologi formati sulle idee sovversive di un Proudhon o di un Bakunin.

Molto più spesso, si tratta di un vago istinto ribelle nei confronti della borghesia e di tutto ciò che sembra limitare la libertà individuale. Esempio lampante di ciò, è proprio Ungaretti, poiché «non era tutto di eguaglianza e di pane, l’affanno delle sue battaglie, ché in quell’arroventarsi c’era anche la voglia di svincolarsi dalle leggi borghesi: il desiderio d’impossessarsi del mondo. Era un agitarsi senza misura e senza meta: rompere intanto, con la furia dei giovani, per vedere com’è fatta la vita.»

Un racconto concreto privo di idealismi

In altri casi ancora, a far scaturire la fiamma della ribellione è solo un vago risentimento sociale, dovuto principalmente alla propria condizione di indigenza.

Non è un caso che proprio uno dei più forti esclamatori delle dottrine anarchiche, ovvero Pilade, una volta arricchitosi, abbia archiviato senza troppi problemi le sue vecchie passioni politiche. Superata la tragica morte del primogenito, Guidino, Pilade infatti riesce a far fortuna, assicurando a lui e alla moglie Argia una vita agiata:

“Se l’Argia avesse ancora Guidino oggi Guidino (lontano dal farsi regicida) sarebbe laureando, in qualche scienza. E se l’Argiaavesse avuto anche una figliola, la figliola suonerebbe il piano nel salotto buono nei giorni di ricevimento.”

Non è un racconto, quello di Pea, viziato da sentimentalismo o idealismo di alcuna sorta. Concreto e aderente alla realtà, come suo solito, non indora alcuna pillola, non distorce i fatti in nome di chissà quale verità. Non di rado, la narrazione si fa cinica e cruda, in particolare quando va a descrivere i vezzi e le manie degli abitanti del luogo da lui conosciuti.

Le famiglie greche, spagnole, ebree, i lavoratori arabi… ognuno di questi gruppi è come se avesse delle caratteristiche archetipiche. Gli ultimi menzionati, ad esempio, sono rappresentati quasi all’opposto dei sovversivi italiani: remissivi alle forze pubbliche e ai “padroni”, religiosi fino quasi alla superstizione.

Un parallelismo con Ungaretti

Il contrasto ben si avverte in uno degli episodi narrati nel libro, in cui l’autore, appena sbarcato in Alessandria, vedendo un arabo picchiato da un poliziotto, si butta in mezzo per difenderlo. Oltre a essere stato picchiato a sua volta, Enrico Pea subisce pure il dileggio degli altri arabi, divertiti dal suo altruismo considerato assurdo.

D’altra parte, la superstizione dei lavoratori arabi è ampiamente usata contro di loro. Un esempio è costituito dalla madre di Ungaretti, che per svegliare i suoi braccianti nel cuore della notte per impastare il pane, libera un suino nei loro alloggi. Questi, considerando l’animale demoniaco, ai suoi grugniti si destano spaventati a morte e docili come agnellini. Anche in questo caso, però, non si deve pensare che l’intento dell’autore sia quello di ridicolizzare le credenze religiose, tutt’altro. Se c’è un filo rosso che accompagna tutto Vita in Egitto, infatti, quello è proprio la ricerca spirituale. Per spiegarsi meglio, però è necessario dire qualcosa in più sulla struttura del libro.

Il racconto è steso in maniera apparentemente disordinata, con pochissimi punti di riferimento cronologici. Pea passa senza problemi da un argomento all’altro, mosso da suggestioni, ricordi, emozioni. Eppure, ogni divagazione prende un significato preciso, se il libro viene preso nella sua globalità.

La figura di Giuda

Ad accompagnare quasi tutti gli episodi narrati da Pea, infatti, è il fantasma di Giuda Iscariota. Lo scrittore seravezzino vuole chiarire al lettore la genesi del primo personaggio da lui messo sulla scena, nella sua opera teatrale più blasfema e dissacrante. «Riabilitare Giuda», questa la folle idea che Enrico Pea partorisce: una simile bestemmia non poteva che avere i natali in un luogo di bestemmiatori.

Eppure, nonostante gli anarchici, nonostante il materialismo imperante, tutto sembra dover portare a una riflessione sulla Fede: in visita a casa dei fratelli Thuil con Ungaretti, tra tutti i libri rari da questi posseduti, l’unico che attrae Pea è la bibbia della loro nonna; a lavoro e negli ambienti anarchici, si ritrova ad essere l’unico amico e il protettore di Pipicco, giovane spagnolo devotamente cattolico; nel cimitero civile, una volta seppellito il figlio di Pilade, viene disgustato dalle chiacchiere eccessivamente materialiste del custode.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Vita in Egitto comincia con la volontà di redimere Giuda Iscariota e finisce con la recita di una messa francescana.

Imbarcato sulla nave di ritorno in Italia, l’autore si imbatte nei preparativi di una messa. Chiede al marinaio se quella fosse una messa regolare, come quelle officiate in chiesa, e questo gli risponde che un gruppo di soriani cattolici si era portato con sé un prete, proprio con lo scopo di non saltare la liturgia nel lungo viaggio che li avrebbe portati in America.

Pea decide di assistere alla messa, per curiosità. Il marinaio, credendolo credente, gli accosta una sedia, nel caso volesse inginocchiarsi durante il rito. Pea, confuso e sdegnato da questa incomprensione, si trattiene dal rispondergli con male parole. Parte la messa, Pea ne rimane come stregato:

“E quando l’officiante si rivolse: aperse le braccia e disse: «Ita, missa est.» E gli emigranti si levarono in piedi, mi avvidi che anch’io avevo poggiato i ginocchi sulla sedia messa lì a bella posta in quel modo, dal marinaio, alle cui parole poc’anzi avevo provato superbia, confusione, sdegno.”

 

Fonte

Nicolò Bindi

‘Cose da bambini’ di Toni Brunetti: l’incredulità di fronte alla brutalità del mondo

Negli anni sessanta Milano è già “la capitale morale” e la “capitale sanitaria” del paese. Milano fa scuola nell’economia, nella cultura, nella moda, nella pubblicità, nel design.

Milano tra gli anni ’60 e ’70

La città nella storia dell’Italia è riuscita sempre ad avere un ruolo prioritario in qualsiasi ambito: dall’eroismo delle cinque giornate alla lotta partigiana. Anche il 1968 vede Milano protagonista. Nel gennaio di quell’anno vengono occupate alla Statale le facoltà di Lettere, Legge e Scienze.

A marzo avvengono gli scontri di Largo Gemelli tra studenti e poliziotti. Ad aprile un centinaio di artisti occupa la Triennale. A giugno gli studenti contestatori attaccano la sede del Corriere della sera. A dicembre la contestazione degli studenti alla Scala: uova e cachi lanciati contro signori in smoking e signore impellicciate. Questi sono gli avvenimenti salienti del 1968 milanese. Ma nessun trionfalismo perché il peggio deve ancora venire.

Il 12 Dicembre 1969 proprio a Milano inizia la strategia della tensione: 16 morti e 90 feriti nella strage di piazza Fontana. Milano in quegli anni ha soprattutto il volto di una città operosa e ricca. Non tutti però riescono a raggiungere il benessere. Molti sono costretti alla “vita agra” descritta dallo scrittore Luciano Bianciardi.

La strategia del terrore

All’epoca si registra una massiccia migrazione interna. Torino e Milano sono le destinazioni di molti uomini del Sud, che partono con la valigia di cartone legata con lo spago, alla ricerca di lavoro. Giungono a Milano e subito si sentono spaesati e soffocati dalle coperture a tettoia della stazione centrale.

Milano come Torino ha bisogno di questi lavoratori, ma riesce a stento ad offrire loro un alloggio adeguato: nascono di conseguenza anche delle abitazioni abusive, quelle che verranno battezzate dai milanesi le coree. Milano non è solo vetrine sgargianti, capitani di industria, direttori di giornali, conversazioni da salotto dell’alta borghesia e benessere; è anche asfalto, cemento, traffico, stress, freddo e nebbia. A Milano ci si può perdere nel reticolo di strade del centro, ma anche nelle vie anonime dei quartieri di periferia.

Milano è una moltitudine di volti, una massa di pendolari e di gente che va di fretta. Negli anni settanta Milano era già una “città che sale”, come dicevano i milanesi: erano già stati costruiti il Pirellone e la torre Velasca. Palazzi e grattacieli spuntavano in ogni zona della città. Molti fanno parte della “gente che corre, che si dibatte, che ti ignora” come testimonierà Luciano Bianciardi. Per questa massa di persone Milano promette e non mantiene, fa sognare e poi risveglia bruscamente.

Milano all’epoca era una metropoli abitata da un milione ed ottocentomila persone. Forse a causa di quella che i sociologi chiamano anomia e/o forse a causa della correlazione tra frustrazione ed aggressività e/o forse a causa della società di massa dal dopoguerra in poi Milano diviene nota anche per i fatti di cronaca nera: delitti, sequestri lampo e rapine a mano armata fanno di Milano anche la capitale italiana del noir.

Il lato oscuro di Milano in alcuni romanzi

Giorgio Scerbanenco è il primo scrittore a descrivere magistralmente il lato oscuro di Milano con i suoi gialli: è il primo ad intuire che l’indifferenza, la solitudine e l’apatia possono avere la meglio sulla famosa gioia di vivere milanese. In Cose da bambini (edito da Planet Book) di Toni Brunetti, autore e regista, si sentono gli echi di questi due grandi scrittori.

L’autore rivela una cura certosina del dettaglio, una descrizione minuziosa e mai sciatta dei particolari, che probabilmente richiama Calvino. Però ciò non è un difetto perché Calvino ha influenzato molti ottimi autori, come ad esempio Daniele Del Giudice.

Cose da bambini: un romanzo di formazione che è anche un thriller

In Cose da bambini, ambientato tra il 12 dicembre 1969 e il 31 dicembre 1970, che è al contempo romanzo di formazione e thriller, c’è la periferia violenta di Milano sullo sfondo. Il protagonista vive nel problematico quartiere dell’Anello. Ma siamo davvero certi che quella fosse una Milano minore? Comunque in primo piano c’è la vita del giovanissimo protagonista, Marco di soli 11 anni, sospeso tra il mondo dei cosiddetti pari, con tutti i suoi conflitti come ad esempio la guerra delle clave, e quello familiare, in cui troviamo i contrasti dei genitori e della sorella più grande.

C’è l’evoluzione di Marco, con tutte le sue sensazioni, la sua curiosità, il suo stupore, in una parola sola il suo sguardo partecipe sul mondo. È descritta anche la realtà di un’altra epoca, fatta di cose, oggi ritenute insignificanti, ma che agli occhi del bambino erano importanti, come la cartolina da spedire per fare un provino nell’Inter o i pettegolezzi riguardanti la maestra più bella della scuola. Non ci è dato sapere quanto biografica sia la vicenda narrata.

Forse alcuni episodi ed alcuni personaggi della sua infanzia sono stati trasfigurati in Cose da bambini. La cosa fondamentale è che l’autore l’abbia tratteggiati perché restituiscono uno spaccato di quella Milano, oggi dimenticato o addirittura sconosciuto ai più. E poi leggendo questo libro viene rovesciata la prospettiva: non è che le nuove tecnologie di adesso siano esse stesse davvero insignificanti? Ma Milano ha anche un cuore nero.

Freud e il crimine

Nella metropoli vengono compiuti crimini efferati ed anche nel romanzo una bambina scompare. Un interrogativo interessante, che sorge spontaneo, leggendo questo libro è il seguente: Freud riguardo al periodo di latenza, quello riguardante la preadolescenza, aveva ragione oppure no?

Freud descrive questo periodo quasi come asessuato, ma probabilmente non è così. In quegli anni, come rivela Brunetti, facendo un quadro realistico, molto fuoco cova sotto la cenere. L’erotismo non è rimosso, ma tutto al più un poco inibito.

Inoltre  l’autore mette in evidenza acutamente anche il fatto che in quegli anni settanta i bambini crescevano in presa diretta con la realtà, frequentavano la strada, giocavano ad esempio a calcio in strada, cosa che oggi nessuno fa più. Non c’era nessun familiare allora che mediava il mondo di un quartiere difficile.

I bambini allora si lasciava che lo affrontassero da sé. I genitori non erano in genere iperprotettivi. Se due bambini facevano a botte nessuno chiamava il legale di fiducia, ma si diceva che erano cose da ragazzi. Le mamme allora non erano delle chiocce, che difendevano i loro ragazzi dai pericoli del mondo.

Eppure anche allora il mondo era pieno di  insidie e minacce a non finire. Erano allora i bambini più immorali o amorali? È molto difficile stabilirlo. Di sicuro non vivevano nell’ovatta, in quella che oggi chiameremo comfort zone. Un altro interrogativo sorge spontaneo dalla lettura di queste pagine. Viene da chiedersi se un tempo si maturava più in fretta e se si raggiungeva prima la capacità di intendere e di volere.

L’argomento è controverso, ma la riflessione è più che lecita, anzi doverosa. Altra cosa lodevole è che l’autore ha trovato uno scarto dal senso comune e dal linguaggio convenzionale, un ribaltamento del senso, una parola che indaga, che testimonia l’incredulità di fronte alla brutalità e all’assurdità del mondo.

 

Di Davide Morelli

Tondelli, il rifiuto di ogni ideologia

Pier Vittorio Tondelli muore di AIDS nel 1991 a soli 36 anni ed è stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile ed acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.

Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo, vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del settantasette. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.

Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.

Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.

Un aspetto che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza ed una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.

Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è ad esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.

Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde- viene da chiedersi- in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo a Tondelli.

A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.

La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.

Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Li riunisce in quattro categorie: testi intimisti, generazionali, di genere, sperimentali. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Un’ultima. brevissima, nota infine sul suo  “Weekend postmoderno”, un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni ottanta italiani.

 

Di Davide Morelli

‘Mu’, la raccolta di poesie zen di Nunzio di Sarno

Le prime parole che troviamo ad aprire la raccolta intitolata Mu di Nunzio Di Sarno sono quelle di un koan zen:

Un monaco chiese a Joshu: “Un cane ha la natura di Buddha?”

Joshu rispose: “Mu”

Mu mantiene in sé gli opposti e spinge a trascenderli in uno slancio che scatta lontano dalla logica e dalla premeditazione.

E quando pensi di averlo afferrato è proprio lì che ti scappa.

Ci si può solo muovere insieme.

Il koan ci mostra la strada che si fa traccia e mappa.

Una mappa che si mantiene giusto per il passaggio e le luci che durano sono le realizzazioni, in balia dell’amore e l’amicizia, delle droghe, dell’alcool e delle meditazioni, della malattia, della morte e della disciplina, in seno alle famiglie “vecchie, nuove e ritrovate”. Mu è uno dei Koan più conosciuti della scuola Rinzai di zen giapponese. È un concetto che contiene gli opposti, una sintesi, ma allo stesso tempo è la spinta a trascenderli.

In una parola la Vita.

Che suona al passaggio del vento,

ma anche al ritmo sghembo di Monk

e alle distorsioni secche dei Ramones.

È un attimo e le gambe a croce schizzano nel Pogo.

In una spinta continua alla trasformazione, che trova,

nella trasfigurazione della mancanza e degli eccessi, le nuove forme.

E come riporta “Manifesto” il suono è sempre operativo, tutto è vissuto! Niente spazio per l’ozio, gli ammiccamenti e le consolazioni di rito.

Come potrebbero le pose reggere al vortice degli Elementi?

Il pensiero si produce nell’azione e all’azione riconduce sempre.

E l’azione non può non essere politica.

 

Qui il lettore non può restare sulla soglia a guardare, è chiamato ad aprirsi ed immergersi per sentire su di sé, sposando i ritmi per ritrovarsi a pezzi. Unico sentiero per accedere alle forme nuove.

Nunzio Di Sarno nasce a Napoli, si laurea in lingue e letterature straniere con una tesi su Ginna e le connessioni tra astrattismo e spiritualismo. Ha lavorato come operatore sociale, mediatore culturale, insegnante di italiano L2, di sostegno e di inglese.

Da alcuni anni risiede ed insegna a Firenze.

Nel 2021si laurea in psicologia clinica e della riabilitazione con una tesi su Yoga, Tai Chi e mindfulness come terapie complementari nella malattia di Parkinson.

Mu, pubblicata da Oèdipus edizioni nell’agosto 2020, è la sua raccolta d’esordio. Sue poesie ed articoli sono presenti su diversi siti e blog letterari.

Mu è una raccolta dove a farla da padrona è la ricerca interiore, quella che va molto di moda oggi e che tanto affascina i cultori della Giappone.

 

L’autore di Mu

Nunzio Di Sarno nasce a Napoli, si laurea in lingue e letterature straniere con una tesi su Ginna e le connessioni tra astrattismo e spiritualismo. Ha lavorato come operatore sociale, mediatore culturale, insegnante di italiano L2, di sostegno e di inglese.

Da alcuni anni risiede ed insegna a Firenze.

Nel 2021si laurea in psicologia clinica e della riabilitazione con una tesi su Yoga, Tai Chi e mindfulness come terapie complementari nella malattia di Parkinson.

Mu, pubblicata da Oèdipus edizioni nell’agosto 2020, è la sua raccolta d’esordio. Sue poesie ed articoli sono presenti su diversi siti e blog letterari.

‘Vento Lupo e altre improbabili storie’ di Ugo Mauthe, 10 racconti che declinano la fantasia

Uno strano vento scende dalle montagne e ulula tra le case, esasperato dalla solitudine. Una cornacchia dispettosa mette in pericolo la missione di un misterioso equilibrista. L’invenzione della funzione standby porta scompiglio nella vita di coppia di On e di Off. Sono solo alcune delle storie di Ugo Mauthe, fantasiose e improbabili come lupi in città.

I dieci racconti che compongono il libro declinano l’irrealtà, di volta in volta su un diverso registro predominante. Oscillano fra la fiaba nera di Vento lupo (Ensemble 2020 e vincitore del Premio Officina), che dà il titolo alla raccolta e l’allucinata esperienza di vecchiaia e solitudine di Paglia nera. Migrano dall’epica impossibile e pacifista  di L’ultimo soldato ai sorprendenti risvolti della commedia amara di Zapping. Viaggiano fra due diverse sfumature di fantascienza con Zio Simmi e Un fatto misterioso. Toccano l’amore con l’eros tecnologico di On/Off e la favola sognante di Butterfly. Raccontano di strani incontri, come accade nella storia natalizia intitolata Un incontro e nell’ultimo testo della raccolta, Il tatuaggio.

In Vento Lupo, l’autore, pubblicitario con una lunga storia professionale come copywriter, direttore creativo e docente di comunicazione, dopo aver pubblicato sempre con Ensemble  Il silenzio non tace, Premio Conrieri, Premio Il Meleto di Guido Gozzano, Minuziosa sopravvivenza (Il Convivio Editore, 2018), una silloge poetica che ha ottenuto diversi riconoscimenti, e il romanzo Qunellis (Giovane Holden Edizioni, 2018), una favola nera post apocalittica e post umana, sembra chiedersi cosa sia la realtà e in cosa consista la verità dell’essere umano, catapultando il lettore in una dimensione visionaria.

L’irrazionale scherza con il pensiero in Vento Lupo, per rendere traslucidi, attraverso strade di riflessione diverse, l’essenza e i desideri di ogni essere umano. Probabilmente non viviamo la distopia che ci è stata promessa: non viviamo in un mondo di controllo assoluto da parte di internet e della tecnologia, semmai viviamo in un mondo dove si assiste ad un proliferare di nicchie sorprendenti. Non siamo in un romanzo di Orwell, sembra dirci Ugo Mauthe, ma nel mondo di Philip K. Dick, da cui l’autore sempre prendere spunto per raccontare il disordine ontologico di un mondo dove vero e falso si sovrappongono e confondono, realtà e fantasia si fondono, dove false realtà creeranno false creature umane, oppure falsi umani genereranno false realtà per venderli ad altri umani. Per questo le storie improponibili di Mauthe potrebbero non essere tanto improponibili, dato che la realtà che circonda l’autore non lo aggrada, e di conseguenza scrive, evadendo dalla realtà che vede, ma creandone un’altra parallela e facendo emergere l’invisibile che si cela dietro le nostre vite e la nostra quotidianità.

Vento Lupo si configura come una serie di racconti-ragionamento intorno alla realtà e al rapporto dell’uomo con la fantasia, all’abbandonarsi ad essa grazie alla quale la vita di ogni giorno viene vissuta con maggiore curiosità ed intensità. D’altronde come scriveva Alberto Savinio: <<Il verismo è il peggior nemico della letteratura. […] la letteratura non guarda al presente con l’occhio del presente. La letteratura conosce quello che il presente ignora. La letteratura dice quello che il presente tace. […] La letteratura è la Speranza Scritta>>

 

La busta dice di essere un uomo, l’uomo è lui. C’era già arrivata prima ma aveva perso il segno. “Quanto prima?” si domanda mentre dà un altro schiaffo all’aria, l’ultimo, per forza d’inerzia, perché ha speso tutte le sue energie per muoversi e non ne ha più per fermarsi. La busta dice di essere un uomo, l’uomo è lui, “allora sei tu che mi tocchi, mica un ictus o chi sa che malanno, mi vuoi male, cosa vuoi cosa sei venuto a fare, me lo dici eh?” (Da Vento Lupo)

 

Exit mobile version