L’umanesimo secondo Mann e Kerényi

Cos’è l’umanesimo? È forse qualcosa che può riguardarci oggi, che riguarda ancora il geistige Tierreich, come direbbe Hegel, degli intellettuali? E Thomas Mann, potrà veramente esser considerato un umanista?

Non a caso è l’Apollo oscuro (figura di un’oscurità più fonda di Hermes, ma pur sempre il dio dello Spirito), l’emblema inaugurale del carteggio del celebre scrittore tedesco con Karóly Kerényi, nel quale l’argomento trainante diventa ben presto quello della possibilità di sopravvivenza di ciò che si è chiamato ‘umanesimo’; e correlativamente, del ruolo dell’‘umanista’, ovvero del custode e conservatore cui prema la necessità di tramandare i tesori tradizionali del retaggio europeo, salvandoli e trasportandoli dal mondo vecchio in quello nuovo (K, 3 II 1945). Umanesimo è un atteggiamento complessivo verso l’uomo che è fonte insieme di  delusione e di conforto: una «felicità difficile – ma pur sempre felicità».

L’umanesimo secondo Mann e Kerényi

Ma chi  possono essere i padri di questo rinnovato, auspicabile umanesimo? Su questo argomento, le posizioni di Mann e Kerényi si differenziano alquanto. Oggi i maestri, scrive Kerényi nel 1944, «attraversano in pauroso isolamento un mondo di rovine, soli con
la propria ombra, come colui che uscì per tempo dalla casa degli “scienziati” erroneamente trionfanti [il riferimento è a Nietzsche]. Ed è molto se possiedono almeno la loro ombra; se nel loro isolamento non hanno perduto anche le radici dalle quali può forse ancora crescere qualcosa per l’avvenire» (pref. a Romanzo e  mitologia).

A causa di questa esigenza spirituale Kerényi ammette di non poter accettare l’impersonalità del metodo storicistico in filologia, poiché dietro ogni scienza dello spirito si nasconde una più intima vita dello spirito.

All’interno del lavoro spirituale si devono attuare, infatti, i più profondi interessi dell’anima, collegati con la sua stessa libertà: «da quando il consenziente Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff riportò la vittoria scientifica sul tedesco dissenziente, su Nietzsche, il “conoscitore di sé, il carnefice di se stesso”, l’idea umanistica cedette il passo a una res publica doctorum virorum» (pref. a Romanzo e mitologia), alla fallacia di un’indagine filologica all’apparenza spassionata, immune da tratti esistenziali o lirici, in fondo anti-umanistica, pseudoscientifica, tecnicizzata.

Anche Mann coglierà l’occasione di esprimersi al riguardo, osservando come «la non molto buon’anima di Wilamowitz se la cava a malapena […]. Mi sono sempre meravigliato che dopo il suo attacco a Nietzsche abbia ancora osato aprir bocca. Egli era una specie di Kundry maschile, aveva “riso”. Sarà stato un grande erudito sino alla fine; come spirito non era più da prendere in considerazione» (M, 15 VII 1936). Nietzsche, dunque, è il primo ‘padre’ umanistico, il rappresentante dello spirito contra Wilamowitz e la cultura postasi al mediocre servizio della tecnica:

Ho avuto l’impressione di una indicibile sofferenza dello spirito, di un muto aggregarsi dei mediocri, del loro collaborazionismo e della famelica smania di imporsi da parte di tutti quelli che sono peggio che mediocri. Devo confessare che mi preoccuperei ben poco della mediocrità se non avesse dalla sua il peso della massa, sotto la quale lo spirito – coi suoi rappresentanti – rischia di rimanere schiacciato. […]. (K, 13 VIII 1934).

L’aspetto religioso in Mann

Facile vittoria di Apollo, del Geist umanistico? Sarà. Se anche i nomi di riferimento sono qui quelli di Hölderlin e Nietzsche, Kerényi mostra di prediligere nell’opera manniana la figura di umanista più banale, Settembrini, considerandolo «l’incarnazione per me estremamente simpatica dell’atteggiamento umanistico di fronte a una sempre ricorrente situazione umana […]. Intendo la situazione del trovarsi in prossimità della morte».

Umanesimo e morte: la scienza umanistica deve possedere, quindi, un carattere ermetico; questo si esplicherebbe attraverso quel “ritorno alle realtà fondanti, supreme dello spirito”.

Mann tenta un approfondimento dell’umanesimo mediante l’elemento religioso, cioè mitico, del tutto al di là dei dogmatismi non più degni di fede, per conferirgli «la forza impegnante di cui ha bisogno per raccogliere la sbandata umanità intorno a un’autorità nuova». Altrimenti, «il risultato dell’intricato esperimento “uomo” sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi senza speranza» (M, 12 II 1946).

 

Susanna Mati: Thomas Mann l’ermetico

Ernst Jünger, teologo della nuova epoca, pedagogo della libertà, autore di capolavori come “Nelle tempeste d’acciaio” e del profetico “L’operaio”

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 – Riedlingen, Alta Svevia, 1998), fu maestro insuperabile della contemplazione, esempio memorabile di azione, teologo della nuova epoca, platonico moroso, entomologo competente, pedagogo della libertà. Infine amante dell’Italia, dalla Dalmazia irredenta all’assolata Sicilia, da quel di Napoli fino alla più amata di tutte, quella Sardegna dalla terra «rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale». 

«Le isole – insegna Jünger – sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare. Allora il navigante lascia cadere la mano dal timone; si approda volentieri a caso su queste spiagge» (Terra sarda). E la sua opera fu un’isola di luce lontana dalla baruffa letteraria del Novecento, oasi per gli spiriti assetati di libertà.

L’anno è il 1895. Röntgen era vicino alla scoperta dei raggi X; in Francia esplodeva l’affaire Dreyfus. Amava ricordare questi due avvenimenti, Ernst Jünger. Essi attraversarono tacitamente la sua vita e le sue riflessioni, le quali non sono altro che lo specchio di un secolo: quel Novecento veloce e potente come il fulmine di Eraclito, fulmine che «governa ogni cosa», come era scritto sopra la soglia della baita di Heidegger nella Selva Nera. La scoperta di Röntgen aprì il secolo della tecnica, dando la possibilità all’uomo di “vedere l’invisibile”, di osservare ciò che al microscopio era precluso, di sviluppare la ricerca sull’atomo e sulla fissione nucleare. Cinquanta anni separarono la tanto casuale quanto fortunata scoperta del 1895 da Little Boy, dolce artificio statunitense, che Hiroshima ricorda come fuoco celeste: meno modesto del giottesco bagherino luminoso di San Francesco, più furioso dell’infuocato carro del Libro dei Re, dipinto da Roerich sulle calde tonalità del rosso. L’atomica non lasciò niente; non rimase a terra il mantello che a Elia cadde durante l’ascesa. Chi ha vissuto il Novecento ha timore dell’uomo più che di Dio, le cui distruzioni narrate nell’Antico Testamento sembrano delle grazie in confronto ai massacri di due guerre mondiali.

Il caso Dreyfus inaugurò invece l’arma migliore delle democrazie occidentali: l’opinione pubblica, lama dotata della più affilata critica, aumentò il grado di incertezza politica, incassando una vittoria sulle baffute e polverose forze conservatrici. Il secolo passato è stato mutevole come l’acqua, oltre che terribile come il fulmine. Ernst Jünger è nato così: con l’invito a riflettere sulla tecnica e sulla politica, ma senza cadere nella spirale della sola contemplazione. Il tempo dell’uomo è limitato, l’educazione costosa. Alla contemplazione riunì l’azione, ma lo fece in modo più armonico e costante del giapponese Mishima, altro equilibrista a metà tra la luce notturna del pensiero e quella diurna dell’atto senza scopo. La bellezza, ne siamo suggestionati, è un tramonto: il momento in cui le forze lunari e solari si dividono il campo, e contemplazione e azione diventano Uno, nell’ascesa di un pilota verso la stella più vicina, su un affilata lama dei cieli. Mishima in Sole e acciaio insegna che «corpo e spirito non si fondono mai».

Jünger lottò con l’acciaio, quello dell’artiglieria inglese e francese, sul fronte occidentale. E, checché ne dica un beffardo adagio militare, non bastò la colazione a tenere insieme anima e corpo: ci volle ben altro. Già nel 1913, appena maggiorenne e fuggito dall’ambiente borghese della casa familiare, si arruolò nella Légion étrangère, covo di avventurieri e delinquenti più che di disciplinati soldatini. L’esperienza algerina a Sidi-bel-Abbès, a suo dire «avvenimento bizzarro come la fantasia», fu pubblicata in forma di confessione romanzata nel 1936, con il titolo di Afrikanische Spiele (Ludi africani). Ma Jünger allora era già noto per le sue imprese nella Prima guerra mondiale. Rimpatriato dall’Africa per l’intercessione del padre Ernst Georg Jünger, farmacista confidente più con la vetreria da laboratorio che con le pallottole, accolse con gioia l’invito del 1914, arruolandosi come volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Aveva da poco incontrato su carta ciò che stava per vedere sul fronte. Le letture di Friedrich Nietzsche lo gettarono tra le braccia della guerra come un vitello che, spinto al mattatoio, si sente nel suo palazzo reale. Ma la carne di Jünger non fu tenera come quella di un vitello, e sopravvisse con estremo ardimento a ben quattordici ferite, di cui l’ultima molto grave, passando da semplice fante a Strosstruppfüher (capo di commando d’assalto), fino all’onore di portare al petto due Croci di Ferro, una Croce di cavaliere dell’Ordine di Hohenzollern e una Pour le Mérite, riconoscimento di una volontà dura come il ferro della medaglia, privilegio che ebbero solo dodici ufficiali subalterni dell’esercito imperiale.

In una caserma della Reichswehr (madre della Wehrmacht), tra il 1918 e il 1923, scrisse i suoi primi libri, tra cui un titolo imprescindibile per chi subì (e subisce) il fascino della Grande guerra: In Stehlgewittern (Nelle tempeste d’acciaio), frutto della rielaborazione di appunti dalla trincea sotto forma di memorie belliche, pubblicato nel 1920. Il destino dell’opera fu diverso da quello di altri racconti di guerra. Non è Il fuoco di Barbusse, apparso in pieno conflitto, ma nemmeno il celebre Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque. Se il successo di questi fu lesto e universale, In Stehlgewittern – pubblicato tardi in traduzione italiana (1961) – circolò in ambienti di destra, tra circoli militari, associazioni di reduci, gruppi nazionalisti e conservatori, i quali ne compresero solo in parte lo spirito.

L’esperienza bellica – descritta poi in altre memorie quali La battaglia come esperienza interiore (recentemente pubblicato per i tipi di Piano B), Il tenente Sturm, Boschetto 125, Fuoco e sangue – non solo aveva catturato la gioventù «come un’ubriacatura» ed emancipato le nuove generazioni di tedeschi dal «minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità», ma aveva il sapore dell’«iniziazione che non apriva soltanto le incandescenti camere del terrore, ma anche le attraversava». Le incessanti esplosioni degli shrapnels, angeli del cielo che più che nuove portano palle di piombo a lacerare la carne, furono soltanto uno degli aspetti più terribili di quella guerra tecnica, di materiali. Non è la Francia dipinta dagli impressionisti, quella di macchie e pennellate giustapposte, ma è terreno di mutilazioni, di corpi insanguinati e ricoperti di fanghiglia, di un cielo di pallottole. È la guerra di trincea. È il soldato «che canta spensierato sotto una volta ininterrotta di shrapnels», come immaginato con futuristica eccitazione da Marinetti.

E il giovane Jünger coglie tutto ciò con un nichilismo estetizzante, cristallizzato in una prosa magistrale. Il soldato e l’artista qui celebrano la loro intima parentela, giacché la guerra è un’arte e viceversa. Valgono le parole riferite ad Aschenbach, protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann: «Anche lui era stato soldato e uomo di guerra come alcuni dei suoi maggiori; poiché l’arte è una guerra, è logorante battaglia». In Stehlgewittern, libro ora dimenticato, ma tra i migliori romanzi sulla guerra, privo di enfasi e di retorica, è una splendida glossa a Novalis, spirito europeo e cristiano, nella sua esaltazione del dinamismo poetico della guerra. La notorietà procuratagli dal libro permise a Jünger un’attiva partecipazione a movimenti nazionalistici e antidemocratici e la collaborazione a giornali come «Arminius», «Der Vormarsch» e «Widerstand», rivista dell’amico nazionalbolscevico Ernst Niekisch. Fu nel primo dopoguerra che cominciò la sua produzione saggistica, incisa ne La mobilitazione totale, Il dolore, L’operaio. Hans Blumenberg non aveva torto quando affermava che Jünger è l’unico autore tedesco ad aver lasciato testimonianze di un confronto pluridecennale con il nichilismo.

Nella sua opera sono forti l’inevitabilità del suddetto confronto e la sfida a tale problema. Egli ha cercato il nulla, l’annientamento del vecchio mondo di borghesi, scienziati e parrucconi; lo ha inseguito, infaticabile, nel deserto (Ludi africani), nello sprezzo della vita di fronte alla guerra raccontato con uno stile secco e crudo, a tratti notarile (Nelle tempeste d’acciaio), nell’ebbrezza (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), nel dolore (Sul dolore), «equivalente metafisico del mondo illuminato-igienico del benessere» (Blumenberg, L’uomo della luna). L’annientamento dell’uomo passa per il suo innalzamento, per la pianificazione totale della società “mobilizzata” nel lavoro e nello studio, per la riduzione finale della persona nella monade tecnico-biologica prospettata nella metafisica de L’operaio, libro fondamentale, per nulla ideologico (anche in questo sta la sua grandezza) e tra i più crudeli e profetici del Novecento nelle tappe dell’evoluzione intellettuale del pensatore tedesco, testo oggetto di studio per due grandi filosofi come Martin Heidegger, che negli anni Trenta organizzò sul tema dei seminari privati, e Julius Evola, che ne fece un commento (L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger).

Ma c’è un evento nel mezzo della vita del nostro, luminoso come quella cometa di Halley che Jünger contemplò due volte (Due volte la cometa). Mentre lo Stato totale del lavoro da lui immaginato andava realizzandosi, ecco una «svolta imprevista, che va annoverata tra gli eventi più importanti della storia spirituale tedesca» (ancora Blumenberg): Sulle scogliere di marmo, il diamante prezioso tra i piccoli vetrini luccicanti nell’asfalto. Soffermarvisi è d’obbligo. I precedenti biografici del libro chiariscono meglio la svolta. Come ebbe a dire Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich, «abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare». L’insofferenza dello scrittore per i modi pacchiani e volgari del Partito Nazionalsocialista gli procurò antipatie tra i gerarchi: la stampa smise di parlare dei suoi libri e la Gestapo gli perquisì la casa. Nel romanzo decisivo per la sua vita, egli descrive un Paese – la Marina, in cui ogni elemento sociale e politico è in armonia – minacciato da un pericoloso popolo di confine, barbaro, portatore di violenza e distruzione, dallo stile terribile e plebeo, guidato dal Forestaro (figura che molti identificarono con Hitler, altri con Stalin).

La canaglia del bosco si muove contro la civiltà, l’anarchia nichilistica contro le forze della Tradizione. I due protagonisti, due fratelli (allusione all’autore stesso e a suo fratello, Friedrich Georg), sono supportati da quattro personaggi: Padre Lampro, dietro cui si può scorgere la Chiesa, o almeno la forza spirituale della religione; Belovar, vecchio e coraggioso barbuto a rappresentanza del vecchio mondo rurale; di nobile stirpe, invece, il principe Sunmyra, la cui testa mozzata dopo un’eroica impresa è recuperata dal protagonista e diventa oggetto di rituali; infine Braquemart, bellicoso sodale del principe ed effigie del nobile intellettuale nichilista, che interpreta la vita come meccanismo le cui ruote motrici sono la violenza e il terrore, uomo di «fredda intelligenza, sradicata e incline all’utopia». Chiunque abbia confidenza con la letteratura jüngeriana ricorderà le parole che aprono Sulle scogliere di marmo: «Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrimediabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi». La ricerca della bella morte in guerra fa spazio alla «vita nelle nostre piccole comunità, in una casa ove la pace regni, fra buoni conversari, accolti da un saluto affettuoso a mattina e a sera». A chi vive l’esistente come poesia non resta altro che chiedere asilo ai manieri della propria interiorità, confidando nella resistenza dei nobili contro il nulla, nella sublimazione di tutto nel fuoco catartico dello specchio di Nigromontanus.

Fu Hitler a salvare Jünger da morte certa. Il Forestaro apprezzava la penna che lo tratteggiò. Lo salvò anche dopo il 20 luglio del 1944, data del celebre attentato al Führer. Se è vero che non furono trovate prove della collaborazione tra gli attentatori e Jünger (che durante la Seconda guerra mondiale si occupava dell’ufficio di censura a Parigi, come ufficiale dello Stato Maggiore), lo è altrettanto il fatto che i sospetti su di lui erano più che forti, tanto da fargli recapitare un’espulsione dall’esercito per Wehrunwürdigkeit (indegnità militare). Era definitivamente finito il tempo dell’eroe di guerra, cominciava quello del contemplatore solitario. Sottoposto a censura durante l’occupazione alleata, sorte condivisa con gli amici Martin Heidegger e Carl Schmitt (il quale era, tra le altre cose, padrino del secondo figlio di Ernst, Alexander Jünger), si ritirò nel paesino di Wilflingen, prima nel castello degli Stauffenberg (famiglia da cui proveniva Claus Schenk von Stauffenberg, organizzatore del fallito attentato a Hitler), poi nella foresteria del conservatore delle acque e delle foreste della stessa famiglia, edificio che fu sua abitazione fino alla morte.

Vasta è l’opera di questo grande scrittore tedesco. Fu il diarista del Novecento, interprete del suo spirito. La costanza con cui annotò fatti e riflessioni sui suoi diari è nota. Anche nella scrittura, Ernst Jünger mostrò coraggio: il diario è più di altre la forma stilistica attraverso la quale un pensatore o un letterato si mostra nella sua intima debolezza di uomo, sottoponendosi a una dilapidazione di credibilità; l’estrema rinuncia alla plasticità dell’artista in cambio dell’autenticità dell’origine dei propri pensieri. I diari completano gli altri scritti, dimostrando che Jünger non offrì prodotti, ma indicò vie. Lo fece in tutta la letteratura successiva a Sulle scogliere di marmo, da Heliopolis a Eumeswil, da Il libro dell’orologio a polvere a Al muro del tempo, da Il nodo di Gordio (dialogo a due voci con Carl Schmitt) a Oltre la linea (con Martin Heidegger). Proprio in quest’ultimo testo, composto da due scritti che omaggiano il sessantesimo giorno genetliaco del rispettivo interlocutore, avviene il confronto sul tema del nichilismo tra due dioscuri simbolici del tramonto vivo di un’epoca, un duello a colpi diretti nel quale ognuno, ça va sans dire, si compiace della maestria dell’altro. Interrogarsi sul nichilismo è, nel secondo dopoguerra, cercare una risposta alla domanda: quale poesia dopo Auschwitz?

Difficile condividere il giudizio di Evola sul secondo Jünger. Non fu un pluridecorato «normalizzato e rieducato», come ebbe a mugugnare il filosofo romano durante un colloquio con Gianfranco de Turris, ma un pensatore capace di profonde riflessioni, di analisi e previsioni rivelatesi tanto esatte quanto inquietanti. Fu uno dei pochi che riuscì a disvelare, con tormentata quiete, la patina ideologica che copre la realtà. Ecco, le ideologie. Egli non le amava, perché «un errore diviene colpa soltanto quando si persevera» (Sulle scogliere di marmo); rifuggì tutti gli ismi, ma si arrogò il diritto di vivere la vita come un esperimento, non come un processo soggetto a logiche limitative. «Il suffisso ismo ha un significato restrittivo: accresce la volontà a spese della sostanza» (Eumeswil). La sua scrittura è «espressione di ciò che è problematico, del qui e del là, del sì e del no», come si espresse Thomas Mann pensando a se stesso nelle Considerazioni di un impolitico.

 

L’intellettuale dissidente

 

Ernst von Salomon l’aristocratico membro dei Corpi Franchi: l’esiliato, il proscritto distruttore di tutto, nemico della civiltà moderna

Ernst von Salomon è stato il proscritto, questo esiliato, distruttore di tutto, votato all’emarginazione, camminava sulle macerie di battaglia in battaglia, disposto a distruggere anche sé stesso pur di lapidare la civiltà moderna. Sospeso nel grembo di una Kultur irrazionale, distruttrice, virile, estetizzante, eroica, von Salomon doveva confrontarsi con la Zivilisation, con la decadenza dell’ordine borghese securitario, razionale, egoista, incentrato sull’interesse del singolo declinato come società di diritto e di felicità individuale.

Ernst von Salomon nacque a Kiel in Germania, nel 1902, da una famiglia di lontane origini aristocratiche franco-tedesche. Dopo diversi insuccessi scolastici, il padre lo introdusse alla carriera militare. Il giovane von Salomon guardò alla prima guerra mondiale con stupore, per entrare nel 1919 a far parte dei Freikorps. Come Junger, anch’egli interpretò la figura dall’”atteggiamento inflessibile” del miles novecentesco. Contro la repubblica affaristica di Weimar, i patti di Versailles e i valori della Gestalt borghese (securitarsimo, controllo sociale, spirito mercantile, opportunismo) la vita di von Salomon è tutta improntata ad una concezione gerarchico-militare, sempre politicizzata, tesa allo scontro, al conflitto contro l’hostis schmittiano, colui che nega l’identità dell’altro. Nei Corpi Franchi von Salomon subì il fascino della violenza, intesa come pulsione erotica ed estetizzante, e in queste milizie paramilitari e irregolari cercava il suo riscatto, la rivalsa dello spirito tedesco contro la repubblica “traditrice”. Nel 1922 fu condannato a 5 anni di carcere per l’omicidio dell’allora Ministro degli Esteri Walter Rathenau, ma scontò solo pochi mesi della pena. L’esperienza dei corpi franchi venne narrata nei Proscritti, epopea storica ed esistenziale dei “soldati di ventura” che prestarono la loro ferocia alla guerra civile che segnò l’origine della Repubblica di Weimar, protagonisti prima della crudele repressione in cui furono assassinati Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, infine della lunga vicenda terroristica che culmina con l’assassinio del ministro Rathenau. Si tratta di un prezioso documento per comprendere la storia europea che preparò il nazismo e, allo stesso tempo, un romanzo, paurosamente attuale, di quell’estetica della violenza che è alla base di ogni rivoluzione. Dai Proscritti, dunque, emerge, in chiave autobiografica, la visione tremendamente violenta della politica e della guerra. Queste sembrano essere le sole istanze in grado di destituire l’uomo moderno dall’ordine borghese, per metterlo di fronte all’atto estremo, al sacrificio totale di sé, dal quale si evince una gerarchizzazione della società in base ad un criterio aristocratico, superiore rispetto alla ratio economica borghese che ordina la realtà secondo il principio monetario.

Il proscritto disprezza il borghese, la sua piccolezza, le sue meschinità, il valore economico come forza omologante capace di sussumere tutta la realtà nella sua forma. Nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann sono proposte le stesse dinamiche del conflitto cui partecipa il nostro eretico: “profonda cultura contro civilizzazione superficiale; comunità organica contro società meccanicistica; eroi contro mercanti; il sentire contro il sentimentalismo; la virtù contro il calcolo”.

In breve von Salomon comprese che la guerra condotta dai Freikorps (spesso strumentalizzata ai fini repubblicani) e gli scontri tra nazionalisti e comunisti, tra destra e sinistra, si rivelarono funzionali alla cristallizzazione dell’ordine borghese, ora totalizzante, compenetrato nei recessi marginali, inconsci della folla anonima, commerciale. Ugualmente si discostò dall’ascesa di Hitler a cancelliere nel 1933 e del nazionalsocialismo, che il proscritto guardava come emanazione compromissoria dell’ideologia borghese. Von Salomon finì tra le liste dei ribelli che si opponevano al Terzo Reich.

Intanto però la sua l’attenzione si volgeva da tempo al mondo contadino, visto in tutto il suo potenziale anti-liberale, per l’antropologia pre-moderna, pre-capitalistica di cui era portatore. I legami di suolo e di sangue sostituivano i legami commerciali urbani. Il mondo contadino era un contenitore di storie, tradizioni, riti, usi, costumi, e si contrapponeva ontologicamente alla città, investita dai miti del progresso, della tecnica, sede di corruzione.

L’universo rurale era il punto di contatto verso tra le avanguardie nazionaliste e i comunisti, tuttavia, inevitabilmente, ad adulare i sentimenti anti-capitalisti dei contadini, in conflitto con lo Stato borghese e la sua burocraticizzazione, fu più abile lo NSDAP che propose riforme chiare e semplificate. L’anarchismo del movimento contadino (Landvolkbewegung) strutturatosi tra il 1928 e il 1933, dacché sembrava essere la sua forza fu effettivamente la causa dell’adesione di molti al nazionalsocialismo. Von Salomon, dopo essersi schierato a fianco del movimento, lo guardò compromettersi disincantatamente, sostenendo l’incompatibilità tra le aspirazioni rivoluzionarie e l’essenza contadina.

Rientrato a Berlino von Salomon fu arrestato per le sue attività sovversive nelle campagne tedesche, e cominciò ad interessarsi alle tesi nazionalbolsceviche. Una volta scarcerato si ritagliò uno spazio indipendente durante tutto il tempo del Nazismo, dedicandosi alle lettere e al cinema: scrisse saggi, romanzi e sceneggiature. Perenne oppositore e perenne sconfitto, cresciuto nella carriera militare poi finito a scrivere sceneggiature di film anti-militaristi, sostenitore di Hilter quando questi era uno sconosciuto e poi anti-nazista una volta che il Furher arrivò al potere, riuscì a proteggere la moglie ebrea durante tutto il Terzo Reich e poi fu arrestato e maltratto dalle truppe americane nel 1945, von Salomon chiuse così un’intervista lasciata poco prima di morire, nel 1972: “Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca terribilmente folle e appassionante, ma non chiedetemi di vedere la vita per altra cosa di quello che è realmente: una farsa”.

 

L’intellettuale dissidente

Stefan Zweig, raffinato scrittore appartenente all’età d’oro della ragione, in cui è la psicoanalisi il motore delle sue opere

Scrittore, poeta, giornalista, biografo, drammaturgo e traduttore; Stefan Zweig, appartenente ad un’agiata famiglia ebrea, nacque a Vienna nel 1881 e morì suicida a Petrópolis, in Brasile, nel 1942. Famoso soprattutto per le sue novelle e le innovative biografie, Zweig è stato il primo scrittore ad inserire la psicanalisi nella narrativa. Negli anni Venti e Trenta fu uno dei massimi successi letterari, tra gli scrittori più letti e tradotti al mondo. Giorgio Kurschinski ci rivela che in Francia è oggi “uno dei due o tre scrittori di lingua tedesca mai dimenticati”, tanto da aver meritato nel 2003 un busto commissionato dalla presidenza del senato, collocato accanto a quelli di Verlaine e Stendhal nei giardini del Luxembourg. Dalle sue opere sono stati recentemente tratti i film Una promessa (2014), Grand Budapest Hotel (nomiantion agli Oscar 2015) e Stefan Zweig: Farrel to Europe, in corsa per gli Awards del 2016.

Zweig è considerato un epigono della Jungwien ed è noto soprattutto per l’opera autobiografica Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, libro apprezzato in Italia da scrittori e giornalisti come Piero Buscaroli, Giano Accame e Massimo Fini. Quest’opera sterminata – almeno per i contenuti – è, allo stesso tempo un romanzo storico, una biografia, una raccolta di ritratti, un romanzo generazionale, un libro sulla giovinezza, il racconto di un ebreo errante, la testimonianza dell’uomo di fronte alla Tecnica e alla modernità. Perché Zweig è come Jünger: scrive romanzi come fossero saggi e saggi come fossero romanzi. Ma Il mondo di ieri segna soprattutto il passaggio dalla pacifica Belle Époque al trauma della Grande guerra, che porterà alla nascita dei totalitarismi.

La sua infanzia fu agiata, cosa che gli permise di respirare appieno il clima artistico e letterario che si viveva allora nella capitale austriaca. Ma nonostante il dilagare della cultura nella città, la scuola fu da lui percepita come “una fredda macchina per apprendere, non regolata mai sull’individuo […] il carcere della nostra gioventù”. Costretto ogni giorno a varcare “l’odiata soglia”, il giovane Stefan trascorreva le ore di lezione leggendo poesie di Rilke o versi di Nietzsche (allora avanguardie culturali) di nascosto sotto il banco, mentre il professore recitava poesie arcinote. Tra la sua generazione e quella dei padri vi era un abisso. Tutto ciò che era nuovo era visto con estrema diffidenza. E il “largo ai giovani!” era ancora di là da venire.

“Accadde così quel che oggi sembra quasi inconcepibile, che la gioventù era ostacolo di ogni cammino, la vecchiezza un vantaggio”.

Quella appena descritta è invece, almeno per i giovani italiani, una condizione oggi assai nota. Per questo i classici non tramontano mai e vanno sempre riletti. Il mondo dei padri era lontano anni luce dal mondo nuovo in cui i figli si trovarono scaraventati come palle di cannone dalla Storia:

”Come erano lillipuziane le nostre preoccupazioni, che bonaccia regnava in quel tempo! Ha avuto fortuna la generazione dei miei genitori […] Essi infatti hanno vissuto al di là di ogni vera amarezza, delle perfidie e delle forze del destino, sono passati quasi dormendo accanto a quelle crisi e a quei problemi che torturano, ma insieme grandiosamente allargano il cuore. Hanno ignorato, adagiati nella sicurezza, nell’agiatezza […] che ogni giorno che albeggia alla finestra può sconvolgere la nostra vita”.

Cosa poteva saperne una generazione vissuta all’ombra della vita, sorda alle profezie di Zarathustra, delle scintille con cui la nuova epoca illuminava il mondo davanti ai loro occhi stanchi? Mentre per Zweig e i suoi compagni “ogni ora […] fu legata alla sorte del mondo”. Ogni novità nel campo delle arti, della letteratura e della musica passava tra le loro mani, che nulla si lasciavano sfuggire:

“D’un tratto l’antico ordine fu turbato [..] Noi giovani ci gettavamo con entusiasmo nelle onde, là dove si infrangevano più impetuose”.

Nuovi nomi e nuove idee si affacciano sul mondo: filosofi, politici e poeti si esprimono urlando. “Il nuovo secolo voleva un nuovo ordine, un clima nuovo”. È il tumulto dell’epoca: il Novecento ha avuto inizio.

A soli diciannove anni Zweig comincia a scrivere per il “Feuilleton” della Neue Free Presse diretta da Theodor Herzl, il grande teorico sionista autore de Lo stato ebraico, teoria che lo scrittore, da ebreo laico, considerava errata. Traduce in tedesco romanzi e poesie straniere, si iscrive a filosofia all’Università di Vienna, poi viaggia a Berlino dove continua i suoi studi, venendo a contatto con “il servilismo volontario della Germania” che prenderà forma vent’anni più tardi. Viaggia ancora per “far scorta di impressioni e di esperienze, quante ne poteva accogliere il cuore”. A Parigi fa conoscenza con Paul Valéry, suo “venerato amico”, mentre a Londra conosce W.B. Yeates e Arthur Symons. Scrive opere teatrali di immediato successo, soprattutto in Germania, ma è noto anche a sud delle Alpi. In Italia, Benito Mussolini è uno dei suoi primi e attenti lettori. E fu forse per questo che appoggiò la richiesta di Zweig quando questi – mosso dal dolore della moglie del condannato – inviò una lettera al “Duce” affinché all’uomo che portò in spalla la bara di Matteotti fosse alleviata la pena, tramutatasi poi in grazia.

Luigi Pirandello, ammaliato dalla prosa di Zweig, chiederà proprio a lui di tradurre in tedesco la sua nuova opera teatrale “Non si sa come”, prima ancora che esca in patria. Poi, in seguito alla morte di tre grandi attori (Matkowsky, Kainz e Moissi) che vollero via via portare in scena le sue opere, convinto che una sorta di maledizione o scarogna penda su di lui, rinuncia per anni a scrivere altri testi per il teatro. Ma i suoi romanzi hanno successo pressoché immediato e vendono milioni di copie. Conosce intellettuali e scrittori come Sigmund Freud, Arthur von Hofmansthal, Romain Rolland, Rainer Maria Rilke, Émile Verahaeven, Herman Hesse, James Joyce, Thomas Mann, Richard Strauss e Benedetto Croce. Colleziona autografi e manoscritti originali di opere in prosa e in musica: Mozart, Bach, Beethoven, Goethe, Balzac…Poi, arrivato in America, contempla New York ammirando “il fantastico firmamento della città, che la notte sfida con miliardi di stelle artificiali gli autentici astri del cielo”. È l’uomo nuovo che sfida la natura: l’era della Tecnica è cominciata. Poi il tumulto:

”Ed ecco che il 28 giugno 1914 echeggiò la rivoltella di Sarajevo, la quale in un attimo solo mandò in frantumi, quasi fosse un vaso di coccio, il mondo della sicurezza e della ragione creatrice, in cui noi avevamo avuto educazione e dimora”.

L’attentato di Sarajevo lascia il mondo intero col fiato sospeso… E così dal “mondo di ieri” si passa al mondo senza sonno (titolo di una sua raccolta di racconti): “Più breve ora è il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni”. Così recita l’introduzione al racconto che dà il titolo all’opera. La Prima guerra mondiale fu una ferita troppo profonda affinché si potesse rimarginare. Seppure non vi abbia preso parte, per Zweig pare essere una vera e propria ossessione: ve ne è traccia in diverse opere. È il sottofondo tragico del breve e significativo racconto Mendel dei libri, o del romanzo amoroso L’impazienza del cuore, la cui vera protagonista n realtà è la compassione e la sua retorica, oltre che ai già citati Il mondo di ieri e Il mondo senza sonno. Mentre è la Seconda guerra mondiale il vero trauma che muove le fila della Novella degli scacchi, metafora della barbarie nazista. Maestro del genere biografico, i suoi ritratti non si contano: Balzac, Dickens, Hölderlin, Dostoevskij, Tolstoj, Nietzsche, Fouché, Montaigne, Maria Stuarda, Magellano, Maria Antonietta… tutte opere di successo stampate ancora oggi. E per un uomo che mise nero su bianco le fissazioni, le passioni, le paure e i traumi che hanno segnato la propria vita, non stupisce certo saperlo amico personale di Freud, a cui un giorno presentò Salvador Dalì. E la psicanalisi è infatti il tema portante di molte altre opere narrative. È il caso di Sovvertimento dei sensi, di Bruciante segreto, storia della crescita di Edgar e del suo amore viscerale per la madre, di Amok, o del racconto intitolato, non a caso, Paura. E, in maniera minore, tracce degli studi freudiani si trovano in Ventiquattr’ore nella vita di una donna o in Tramonto di un cuore. Da non dimenticare sono invece le “quattordici miniature storiche” contenute in Momenti fatali, opera in cui l’autore ritrae alcuni dei momenti più cruciali per la storia del mondo, dall’antichità alla trattato di Versailles.

Zweig, il cui stile elegante, denso e coinvolgente lo ha reso un autore raffinato e a tratti solenne ma mai pesante e non per pochi eletti,  è stato sì un giovane uomo pieno di vitalità e inquietudine, (tanto che molto spesso nei suoi libri luce e baratro coincidono), ma il militarismo non gli appartiene: aborrisce tutto ciò che è dogmatico e politico, tutto ciò che divide gl’uomini. Egli fu un cosmopolita, un pacifista che considerò “un anacronismo delittuoso essere addestrato nel ventesimo secolo all’uso di armi omicide”. L’unica sua guerra fu quella “contro il tradimento della ragione”. La Prima guerra mondiale pose fine alla primato dell’Europa sul mondo. Ma a essa seguirono nuovi tumulti: Lenin in Russia, Mussolini in Italia, Hitler in Germania. È il mondo dei totalitarismi.

Con Hitler al potere, l’autore ebreo così tanto letto in Germania, vide bruciare i suoi libri e il popolo ridere davanti alla locandina dell’omonimo film tratto dal suo racconto Bruciante segreto. I nazisti, da sempre privi di umorismo, ritennero la cosa un atto di lesa maestà nei confronti del Führer. Vietarono il film, sequestrando locandine e bobine. Poi, nel ’36, i suoi libri “roventi” furono vietati in Germania. Ma il nazismo arriverà anche in Austria, deturpando per sempre il volto di Vienna, mettendo fine a quella “supernazionalità spirituale” che tanto aveva caratterizzato la capitale europea: “In nessun altro posto del mondo era più facile essere un europeo”, ricorda Zweig. Davanti alla barbarie nazista e alla seconda grande guerra dovette fuggire nuovamente, dire addio alla sua casa, alla sua patria, ai suoi amici. Poi, smarrito il passaporto, divenne apolide. E fu straniero ovunque.

“Come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono volta a volta trovato là dove le scosse erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformato la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel ‘dove andrò?’ a me già ben noto. […] Spesso mi accade, se dico distrattamente ‘la mia vita’, e di domandarmi poi: ‘Quale vita?’ […] Poi mi sorprendo a dire: ‘La mia casa’, e non so a quale delle mie case di un tempo alludo […] Oppure dico: ‘Da noi’, e mi accorgo spaventato che non faccio più parte della gente della mia patria”.

Il “mondo di ieri” è l’unico mondo a cui sentì di poter appartenere. Perché era un mondo estinto, tutto ideale: il mondo della Belle Époque in cui Vienna brillava ancora per la sua tolleranza e il suo spirito cosmopolita, che ne fecero per un secolo intero la capitale della cultura europea. Quel mondo ordinato e senza fretta, fu per Zweig “l’età dell’oro della sicurezza…l’età della ragione”. Ma “oggi, dopo che la bufera lo ha frantumato, sappiamo che quel mondo della sicurezza è stato un castello di sogni”. Di fronte al nuovo trauma bellico, “un miracolo” gli parrà ormai vedere “un essere umano capace di bontà”. Troppa differenza tra il mondo di allora e quello in cui era nato. Un trauma troppo grande da sopportare.

Se molti tedeschi, davanti alla capitolazione di Berlino, si uccisero per non saper immaginare di vivere in un mondo senza nazional-socialismo, Zweig scelse il suicidio perché non poteva immaginare di vivere in un mondo senza Europa. È uno di quei suicidi storici, come quello di Drieu La Rochelle o di Yukio Mishima, immolatisi per motivi differenti, ma tutti suicidi letterari. Per Zweig la cultura doveva fungere da ponte tra gli uomini, avrebbe potuto unirli, anziché farli scontrare su un campo di battaglia. Ed egli scelse proprio un’opera letteraria come testamento, come ponte tra la vita terrena e l’aldilà. Il mondo di ieri, uscì infatti nel 1942, anno del suicidio del suo autore. Nella prefazione alla sua grande opera, egli si presenta con una sorta di epitaffio, un addio più che una presentazione:

“Sono nato nel 1881 in un grande e possente impero, nella monarchia degli Asburgo, ma non si vada a cercarla sulla carta geografica: essa è sparita senza traccia. Sono cresciuto a Vienna, metropoli supernazionale bimillenaria, e l’ho dovuta lasciare come un delinquente prima che venisse degradata a città provinciale tedesca. La mia opera letteraria nella lingua in cui fu scritta è ridotta in cenere, e proprio nel paese dove i miei libri si erano resi amici di milioni di lettori. Io ora non appartengo ad alcun luogo, sono dovunque uno straniero e tutt’al più un ospite; anche la vera patria che il mio cuore si era eletto, l’Europa, è perduta per me da quando per la seconda volta, con furia suicida, si dilania in una guerra fratricida. Contro lo mia volontà ho dovuto assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità. Mai una generazione – non lo affermo certo con orgoglio bensì con vergogna – ha subito un siffatto regresso morale da così nobile altezza spirituale”.

Romantico, delicato, col viso rivolto a un passato che non può ripetersi e col cuore pieno di nostalgia, Stefan Zweig trovò rifugio in Brasile: ultima tappa. Stanco di scappare e di essere straniero ovunque, davanti al suicidio d’Europa, decise di porre fine alla sua esistenza tramite un’overdose di Veronal, insieme alla seconda moglie. Il 22 febbraio 1942, giorno precedente il suicidio, scrisse in una lettera ad Alfred Altmann quanto segue:

“Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai”.

C’è però chi non crede a questa versione, pensando che si tratti di omicidio. Ma affianco ai corpi sdraiati sul letto si trovò un biglietto:

“Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo impaziente, li precedo”.

L’ultimo saluto di un uomo di ieri. Sdraiato sul letto, insieme alla donna amata, tramonta un cuore d’Europa, avvelenato dalla guerra.

 

 

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