Piero Bigongiari: “Vetrata”, il tempo che passa

Piero Bigongiari è tra le personalità letterarie più di rilievo del novecento italiano, che ha accompagnato la sua attività di poeta a quella di traduttore, nonché di autore di studi critici, tra i quali spicca Poesia italiana del Novecento (1960). La sua figura gode di grande autorevolezza in quanto è  considerato uno dei più importanti poeti ermetici toscani, insieme a Mario Luzi e Parronchi. Interessato all’arte in ogni sua forma, Bigongiari  include nella sfera delle sue amicizie poeti di grande rilevanza come Leone Traverso, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Vasco Pratolini, Mario Luzi.

Piero Bigongiari pubblica nel corso della sua vita lavori che riguardano la poesia e l’arte, sia moderna che contemporanea come La figlia di Babilonia (1942, prima pubblicazione poetica), Le mura di Pistoia (1958), La torre di Arnolfo (1964), Col dito in terra (1986), Nel delta del poema (1989). Tra le opere critiche ricordiamo Poesia italiana del Novecento (1960), Leopardi (1962), La poesia come funzione simbolica del linguaggio (1972) ed altri lavori. Per quanto riguarda l’arte: Il Seicento fiorentino (1975),  Dal Barocco all’Informale (1980).

La sua poetica va ad incontrare pienamente lo spirito ermetico che si era diffuso per il periodo, infatti essa è intrisa di un misticismo onirico e adornata da un codice di parole sguscianti e di difficile approccio. Per quanto riguarda questa caratteristica, in Bigongiari si possono distinguere due periodi di crescita: il primo periodo, quello maggiormente “astrattista”, dove la parola crea un sentiero di biforcazioni infinite che definisce una realtà mutevole e inarrivabile, (periodo che va dal 1942 ai primi anni 70′) e il periodo più maturo e “realista” dove la parola diventa di per sè legata alla realtà indissolubilmente, divenendo essa stessa parte reale del reale.

I temi trattati da Piero Bigongiari vanno dalla vita di tutti i giorni alle riflessioni più intime e profonde, rivisitate sempre in chiave simbolica, un esempio ne è la poesia Vetrata, contenuta nella selezione antologica Autoritratto poetico del 1985, dove il poeta esprime attraverso un linguaggio semplice ma labirintico, il tema della memoria e del tempo che passa.

Vetrata

O memoria, la terra è il tuo ritorno
negli occhi, le magnolie
in un torno di gridi dai cortili
traboccano, sui lividi ginocchi
spunta l’età più grande come un’alba.
Una febbre rimuove dagli stipiti
la madre dolcemente: là trasporta
simile a luce le vele dal porto:
afosa muove sulle braccia a chi
non scorda. Mentre un lampo rosa inonda
la finestra, l’attesa: una tempesta
di caldo, un bacio che fa vana ressa.
E i cani spenti di una festa delirano
di viola se grappoli di nulla
pendono già a un oriente.

La poesia parla con chiarezza e oscurità nella stesso tempo, l’invito iniziale è diretto, o memoria, come se si parlasse di un carme celebrativo. Di qui in poi la poesia si colora di immagini sfocate di una perduta infanzia: grida dai cortili, ginocchi lividi e spensieratezza, una madre in apprensione, legata allo stipite della porta a sorvegliare. Dopo l’immagine iniziale inizia a prendere forma il presente, che compone la seconda parte dell’opera. La madre scompare dolcemente come la luce viene a mancare poco a poco ” là trasporta simile a luce le vele dal porto” 

Seppur il presente non sia il passato, di esso resta un ricordo che non svanisce e che resta, tanto da desiderare un ritorno, l’attesa di un bacio antico nel riposo della memoria. L’attesa però si consuma senza realizzarsi così il passato svanisce nel delirio tanto che se dall’oriente (il passato) non nasce più nulla, il futuro non ha più speranze.

Di per se è interessante anche analizzare il titolo dell’opera di Piero Bigongiari. La vetrata è quel luogo dal quale si osserva, ed è forse questo il personaggio che maggiormente risalta nella poesia, quella di un osservatore senziente che osserva il passato e il futuro combinarsi in un sogno da cui la realtà è all’oscuro e per cui essa è incompleta. La “visione” della vita viene perciò resa vana e delirante perché insufficiente a vedere se stessa. La vita è nascosta dietro una vetrata.

Mario Tobino, lo psichiatra-scrittore

Mario Tobino  (Viareggio, 16 gennaio 1910 – Agrigento, 11 dicembre 1991), è stato uno scrittore molto prolifico, che si è diviso tra poesia e romanzo. Ragazzo esuberante e insofferente agli studi i genitori lo spediscono per un anno in collegio, a Collesalvetti. Ritornato a casa inizia gli studi liceali a Massa, ottendendo la maturità da privatista a Pisa, dimostrando una certa propensione verso gli studi umanistici e nello scrivere, uniti ad una aspirazione di aiutare il prossimo malato, che lo portano ad iscriversi a medicina all’Università di Pisa, per poi proseguire concludere il percorso nel 1936 all’Università di Bologna, laureandosi. Contemporaneamente al periodo universitario, Tobino svolge una limitata attività letteraria, pubblicando alcuni scritti su riviste aperte ai contributi dei giovani letterati, e nel 1934 pubblica Poesie, la sua prima raccolta di versi.

Dopo la laurea, Mario Tobino viene chiamato ad assolvere il servizio di leva in un primo tempo a Firenze poi come ufficiale medico nel Quinto Alpini a Merano; tornato a Bologna si specializza in neurologia, psichiatria e medicina legale, e incomincia a lavorare all’ospedale psichiatrico di Ancona. Durante la sua permanenza in questo luogo di dolore compone delle poesie, pubblicate nel 1939 col titolo Amicizia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale viene nuovamente inviato sul fronte libico dove rimane fino al 1942: tale esperienza è raccontata nel romanzo-memorie di guerra e di amore per la vita, tra diario e racconto, Il deserto della Libia (1952). Ritornato in Italia pubblica la raccolta di poesie Veleno e Amore, il romanzo Il figlio del farmacista e i racconti riuniti sotto il titolo La gelosia del marinaio, e riprende a lavorare in ospedali psichiatrici. Nel 1943 partecipa alla Resistenza contro i nazifascisti in Toscana, e dalle vicende di lotta partigiana prende spunto per scrivere il romanzo Il clandestino. Durante il dopoguerra Tobino si dedica anima e corpo alle sofferenze dei malati di mente, e contemporaneamente prosegue la sua attività di scrittore, raggiungendo una maggiore notorietà e diversi premi letterari.

Nel suo linguaggio di Mario Tobino, sia che fosse nella misura del verso libero, o prosa d’arte tra frammento e racconto, si avverte sempre come un impaccio e a volte un ingorgo che gli impediscono il pieno possesso dell’immagine o di una oggettiva distensione narrativa. Tuttavia si sente che proprio in questo ingorgarsi del linguaggio, c’è una forza originale, una complicata natura di scrittore che quasi certamente deriva da una materia di orgine autobiografica nei modi frequenti negli scrittori della Versilia, da Viani a Pea, che preferiscono attingere alla parlata nativa più che a una consueta lingua comune. Ciò non riguarda solo le parole, frasi e modi di dire di un toscanismo provinciale di estrazione campagnola o marinara, ma soprattutto per la sintassi con quel che di ellittico e di contratto che fa parte di ogni parlata dialettale.

Il legame che Mario Tobino ha con la sua terra è un fatto di umanità, di coerenza con sé stesso, se in lui cresceva lo scrittore è perché era cresciuto anche l’uomo, e risiede qui la sua forza. Quel che tocca più a fondo nella produzione dello scrittore toscano, è la pena umana che si logora inutilmente, in un chiuso e amaro coraggio: più che lo strazio della carne lacerata, è la desolata coscienza di uno spreco di energie morali, di sacrifici e di eroismo che scuote Tobino:

“Eppure ci furono anche in Libia gli eroi, candidi, soldati, umani. Chi non abbandonò l’amico, chi non è morto per nulla, sapendolo. Puro gesto senza ideale, se non quello umano, gentile, nello specchio del destino che lo guardava…Si vide anche cosa poteva dare un uomo senza patria, vilipeso, afflitto per venti anni da una bestiale tirannia, eppure rimanere ancora gentile…Un nobile soldato senza bandiera…”

Con queste dramamtiche parole si chiude il libro Il deserto della Libia. Se poi Mario Tobino si inserisce in un manicomio, in un mondo dove l’umanità è stata folgorata alle sue radici, ecco che lo vediamo frugare nell’abisso di quell’umanità, con l’occhio pietoso di chi intuisce il mistero della vita.

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