Serafín Santibáñez Reigadas a Matera presenta ‘l’Abbraccio fra i popoli’

Lo scultore spagnolo Serafín Santibáñez Reigadas presenterà a Matera la nuova opera sulla pace. Il 19 luglio alle ore 18, presso il centro culturale Casa Cava, nell’ambito di Pax&Lux, sarà presentato il bozzetto dell’Abbraccio fra i popoli, introdotto dal critico Niccolò Lucarelli. Pax&Lux è l’evento dedicato alla pace organizzato dall’Associazione Indipendente Donne Europee (AIDE) in collaborazione con la casa editrice Il Sextante che ne ha curato i rapporti internazionali

Serafin Santibànez Reigadas nasce a Escobedo de Camargo (Cantabria) in Spagna dove consegue vari premi in concorsi di pittura e scultura a livello provinciale e nazionale. Più tardi si trasferisce a Valencia, entra in Accademia B.A, dove ottiene il 1° premio e medaglia d’argento in Scultura.

Dopo 2 anni Abbandona l’Accademia, si trasferisce in Italia e si diploma in scultura presso l’Accademia di Belle Arti Di Roma. Ottiene in Spagna premi civico-sociali per meriti artistici. Le sue opere si trovano soprattutto in piazze pubbliche (monumenti), in collezioni private, centri culturali e religiosi in Europa e in America.

E’ stato invitato per l’Ambasciata d’Egitto in Roma. A rappresentare la Spagna nell’incontro internazionale Di cultura e Arte che si celebrò nel Cairo e in Alessandria D’Egitto. Tra le sue mostre più importanti: Museo Juan B. Castagnino. Rosario (Santafe) Argentina Centro Culturale Cajacantabria Santander (Cantabria) Spagna

L’Abbraccio fra i popoli di Serafín Santibáñez Reigadas in anteprima mondiale a Matera

Dopo L’Eco della Pace nel 2019, e la forzata pausa nel 2020, torna nel capoluogo lucano l’appuntamento dedicato alla tematica della pace, intitolato quest’anno Pax&Lux, che coinvolge personalità italiane ed estere del mondo dell’arte, della letteratura, del cinema, della danza, delle istituzioni.

La manifestazione è nata nel 2019 da un’idea di Mariapia Ciaghi, proprietaria de Il Sextante Edizioni, da sempre attenta all’uguaglianza, all’inclusione sociale, alla legalità, ai diritti umani, alla pace, e che ha in catalogo poeti e scrittori, in particolare donne, che hanno affrontato queste tematiche.

Inoltre, la casa editrice collabora con artisti impegnati sui diritti delle donne, quali la pittrice argentina Ana Erra De Guevara, o lo scultore spagnolo Serafín Santibáñez Reigadas, che presenterà a Matera, introdotto dal critico Niccolò Lucarelli, il bozzetto della sua ultima opera Abbraccio fra i popoli.

Santibáñez è da sempre impegnato nel diffondere la cultura della libertà e della pace con sculture che spaziano dal figurativo all’astratto, contrassegnate da una forza espressiva che non scaturisce dalla sola estetica, ma anche dal messaggio di cui sono portatrici. Santibáñez è un artista con una coscienza civile, preferisce percorrere la scomoda ma dignitosa via dell’onestà intellettuale, anziché sedersi in un comodo salotto e declassare la sua arte a esercizio di stile.

Sue opere si trovano anche a Roma, fra cui una statua in legno di Padre Pio conservata nella chiesa di San Salvatore in Lauro e il Monumento all’Acqua nel Comune di Pisoniano, mentre una versione in scala ridotta è stata esposta nel 2019 nel giardino del Museo Crocetti.

A proposito dell’Abbraccio fra i popoli, nota Lucarelli, “siamo di fronte a un esempio di arte civile, un appello ai popolo intesi come l’insieme delle persone di buona volontà, intellettualmente oneste, al di fuori dei circoli di potere e della dittatura del denaro. Un appello a unirsi per combattere, in maniera critica e pacifica, la schiavitù del denaro e del consumismo, venditore di illusioni a beneficio di pochi, devastatore dell’ambiente e spregiatore della spiritualità dell’individuo. Un abbraccio di giustizia, fraternità e pace”.

L’auspicio è che l’opera possa essere presto realizzata in scala monumentale, magari proprio in Italia e, perché no, a Roma.

 

Per info: https://www.casacava.it/

 

 

‘Rifrazioni dell’Antico. Opere di Sergio Monari’, in mostra dal 5 ottobre a Villa Torlonia di Roma

L’esposizione Sergio Monari. Rifrazioni dell’Antico, a cura di Niccolò Lucarelli e promossa da Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale, sarà ospitata al Casino Nobile dal 5 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020.

Era dal 1993 che Roma non accoglieva una mostra sull’artista Sergio Monari; molto più ampia di quella ospitata a suo tempo al Teatro Argentina, in questa di Villa Torlonia l’artista sceglie di inserire le sue opere non in un luogo asettico ma in un edificio già ricco di storia, di simboli e di significati. Le diciotto sculture allestite nello spazio neoclassico del Casino Nobile sono ispirate a temi e personaggi della mitologia greco-romana, cercano il dialogo con le opere della collezione Torlonia, in un gioco di reciproco arricchimento e reinterpretazione.

L’allestimento si dispiega, opera dopo opera, su capitoli modellati in forma di umane sembianze, pulsioni, aspirazioni, dubbi e timori: la poesia, l’amore, la guerra, il destino, il tempo, la morte. Fisicità e concettualità s’incontrano e compongono una vivace agorà, specchio di una polis complessa e contraddittoria, assai lontana da quella vagheggiata da Platone, in cui l’avidità divora l’essere umano.

L’opera Migrante preda, cuore concettuale della mostra, simbolo della coraggiosa pioniera Medea che lascia la terra natia con la volontà di far incontrare la sapienza di due mondi lontani, suggella metaforicamente l’incontro della scultura di Monari con Villa Torlonia e la collezione di statue antiche, così come quello fra la sua Colchide e la nostra Corinto.

Accompagna la mostra un catalogo in forma di libro d’artista, edito da Montanari di Ravenna, con testi del curatore e della critica Raffaella Salato.

Sergio Monari (Bologna, 1950) ha avviato l’attività artistica nei primi anni ottanta riscuotendo ben presto consenso di critica e di pubblico sia in Italia che nel mondo.

La prima mostra estera di Monari risale al 1986, a Lubiana, e nel corso del tempo si sono aggiunte anche Parigi e New York. Nel 1984 e nel 2011 è invitato a esporre alla Biennale di Venezia, mentre nel 2015 una sua opera è stata scelta per la rassegna “Tesori d’Italia”, all’Expo di Milano.

Si sono occupati della sua opera importanti critici fra i quali Calvesi, Crispolti, Manzoni, Portoghesi e Tomassoni.
Dall’anno accademico 2006/2007 Monari è docente di Tecniche e materiali della scenografia e di Scultura al corso di Scenografia del Melodramma, nella sede cesenate dell’Accademia di Bologna.

Il segno di particolare, forte idealizzazione, cui Sergio Monari sottopone il proprio linguaggio scultoreo, presuppone una identificazione tra scultura e poesia il cui significato non è per niente comune agli usi molteplici che il dizionario odierno ha fatto o non ha fatto dell’ idea di scultura; e soprattutto, in evidente disaccordo con quanto per solito si ascrive alla desinenza Iaocontesca che liquida ogni residua immaginazione ausiliaria all’antica omologia tra arte della parola e arte plastica.

Come ha giustamente affermato Luca Cesari, un’implicazione che giustifica tutt’oggi – e non per via di parafrasi – l’angolatura della diversa abilità al disegno e alla pittura che talora esibisce lo scrittore – (nonché alla scultura, se ricordiamo il caso di C. G. Jung). Nel caso di Monari si tratta di un’implicanza non meno esemplare, avvertibile anche all’impronta, osservando le sculture tonde (e gli oggetti che meritano di essere scrutati come altrettante, straordinarie, figure a tondo) le quali non vanno pensate sotto il segno di una tragica speranza di reagire al non senso, al senza nesso della storia attuale mercè l’intonazione al sublime e una neoantichità appena ironica riconnessa a tutto quel che potrebbe riprodurre un segno archeologico di Mancanza e insieme di Castigo.

L’Andromède ritrovata di Rodin in mostra a Milano: l’esaltazione dei valori pittorici della materia

In occasione del centenario della morte di Auguste Rodin (Parigi, 1840- Meudon, 1917), sulla scia delle celebrazioni parigine inauguratesi con un convegno nazionale e una grande mostra dedicati al genio della scultura moderna, l’Italia ricorda l’artista francese con la presentazione di un importante capolavoro, testimone di una affascinante storia della durata di 130 anni. Si tratta della seconda copia tra i tre esemplari attualmente esposti delle cinque di una scultura in marmo bianco che rappresenta la figura mitologica di Andromeda realizzata dall’artista nel 1887 e che dal 4 al 6 maggio è stata presentata in asta per la cura di Artcurial di Milano in via Corso Venezia 22, dopo essere stata ritrovata nel 2017 dai due direttori associati della casa d’asta Stephan Aubert e Bruno Jaubert.

Prima del suo recupero l’opera era stata sempre all’interno della potente famiglia cilena dei Morla a partire dalla coppia formata da Carlos Lynch e da sua moglie Luisa, amici e committenti del talentuoso scultore della naturalezza, i quali entrarono in contatto con l’artista durante il loro soggiorno nella capitale francese. Il grande maestro Rodin creò e donò la scultura – ritrovata e considerata dagli studiosi la rappresentazione di Andromède – alla coppia cilena, come gesto di gratitudine per aver accettato, su richiesta dell’artista, di cedere il busto in marmo della moglie Luisa al Musée du Luxembourg, opera realizzata da Rodin su loro commissione.

L’opera in questione sintetizza la ricerca estetica rodiniana nel mutare dei profili della figura di donna nuda e piegata sulla roccia nel blocco dal quale essa prende forma attraverso gli accurati e studiati punti di vista dell’artista nella fase di modellamento del materiale, in questo caso lapideo. La peculiare lucentezza e mordidezza plastica date alla superficie della figura, la quale emerge in contrasto con la ruvidezza della roccia, è interpretata come un accorgimento espressivo nel chiaro intento dell’artista di conferire alla scultura il senso del dramma di disperazione e rassegnazione umana, per il riferimento al racconto del mito greco di Andromeda. Figlia di Cefeo, re di Etiopia, Andromeda, infatti, sarà legata allo scoglio per essere data in sacrificio al mostro marino, come rispose di agire l’oracolo cui interrogò il padre Cefeo, affinché le coste del suo regno fossero state liberate dalla mareggiata che aveva inflitto Poseidone, come castigo alla superbia della madre Cassiopea che, nel vantarsi di possedere insieme alla figlia la bellezza più grande di tutte le Neredi, le ninfe del dio dei mari, aveva offeso le sue creature. L’infausta vicenda vedrà la luce con l’intervento dell’eroe Perseo che ucciderà il mostro con la sua spada, libererando Andromeda e facendola sua sposa.

Affascinato dall’opera di Michelangelo, Rodin approda ad una scultura che esalta i valori pittorici della materia, dinamica e palpitante. Non a caso l’artista scrisse: “Io vedo tutta la verità, e non solo quella della superficie. Io accentuo le linee che esprimono nel modo migliore lo stato spirituale che interpreto”. All’esecuzione della materia, Rodin fa precedere numerosi disegni, tracciati dal vero, per catturare l’essenza e la vitalità del proprio modello.

Le opere di Rodin, sin dai suoi esordi, riproducono il vero con tale veridicità da scatenare il dubbio nella giuria del Salon che egli eseguisse le proprie sculture mediante calchi dei modelli. Per sfuggire all’accusa, Rodin si vide costretto a modificare le dimensioni delle proprie statue. allontanandosi dalle misure naturali, ma che sempre mostrano la sua modernità che media con equilibrio il naturalismo della forma, la memoria della tradizione classica, la dinamicità delle pose e la complessità del simbolo.

La Tomba di Giulio II di Michelangelo Buonarroti ritrova la sua luce “naturale”

Da qualche giorno il celeberrimo Mosè di Michelangelo, che fa parte della Tomba di Giulio II, custodita nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma, si è illuminato di nuova luce alla stregua della luce naturale cinquecentesca creata dal genio rivoluzionario, grazie al nuovo progetto d’illuminazione realizzato da Mario Nanni, uno dei più importanti light designer italiani, nonché il terminato intervento di manutenzione e restauro condotto da Antonio Forcellino.

Il progetto, promosso dalla Soprintendenza per il Colosseo e l’area archeologica centrale di Roma con il sostegno del Gioco del Lotto, è nato grazie alla riscoperta della personalissima tecnica scultorea del grande artista, sulla base dei dati emersi dall’esame delle superfici marmoree eseguito da Forcellino in fase di pulitura sul momento visitato da milioni di visitatori ogni anno. Come spesso accade nell’ambito del restauro infatti, l’attuale intervento (luglio 2016) – dopo cinquindici anni dall’ultimo (2001) affidato alle mani dello stesso esperto- ha evidenziato dalla lettura del Mosè, ma non è la sola figura del complesso scultoreo, il raffinato gioco di luci e ombre che nel Cinquecento Michelangelo realizzò lavorando le superfici del marmo di Carrara con diverse difficoltà, per consentire di differenziarne l’aspetto: dalla lucentezza e levigatezza alla massima opacità e ruvidità; riuscendo a controllare la rifrazione della luce nelle sculture, partendo da una finestra che in quel tempo era aperta sul lato destro del monumento.

Come procedeva Michelangelo nella lavorazione del marmo?

Prima di tutto è bene evidenziare che il marmo adottato era quello di Carrara che l’artista stesso andava a scegliere nella cava. Le catteristiche di questo materiale quali l’omogeneità della struttura cristallina e la leggera trasparenza  del colore bianco e uniforme del marmo consentono  di valorizzare al massimo il gioco della luce e delle ombre. Soprattutto, ha spiegato Forcellino: “Michelangelo lustra con il piombo e quindi rende più brillanti e scintillanti quelle parti che voleva far venire avanti e lascia più scabre le parti destinate a rimanere in secondo piano”.

Molti artisti contemporanei a Michelangelo fra cui lo storico aretino Giorgio Vasari, nella biografia dell’artista inclusa nella prima edizione de “Le Vite” (1550), usò queste parole per descrivere la sua rivoluzionaria tecnica scultorea: “far emergere la figura dalla pietra come se la vedesse affiorare da uno specchio d’acqua”.

Questo eccezionale virtuosismo pittorico si vede bene anche nelle quattro “Prigioni” (1530-34) attualmente conservati presso la Galleria dell’Accademia di Firenze ma anche in altre opere dello scultore lasciate incompiute, come il “San Matteo” (1506 ca.) e l’estrema “Pietà Rondanini” (1564).

Nella Tomba di Giulio II la percezione di questo chiaroscuro scultoreo era andata perduta per secoli per la chiusura della finestra con la costruzione della Facoltà di Ingegneria, quindi dal 1865. L’obiettivo del nuovo progetto, dunque, è stato quello di riportare all’antico splendore tutto il complesso monumentale nelle condizioni di luce in cui Michelangelo progettò l’intera opera, uno dei monumenti più famosi e anche più difficili, commissionata all’artista nel 1505 da Papa Giulio II della Rovere, la cui costruzione è durata fino al 1545.

“Per realizzare l’impianto sono stati analizzati i momenti della giornata”– ha raccontato Nanni- “quanta luce entrasse all’interno della chiesa, quanta luce entrasse vicino a Mosè, nei quattro grandi momenti dell’alba, del giorno, del tramonto e del crepuscolo, in cui la luce naturale ha una grande capacità di mutare la colorazione”; anche se Michelangelo aveva studiato l’opera per essere vista con altra luce, ovvero proveniente da una finestra oramai chiusa da secoli.

Michelangelo: scultore di luce

Quest’arte di cavare la forma umana dal marmo, “per via di levare e non per via di porre”, così diceva Michelangelo, cioè modellando una materia duttile, interessava più al mondo che al grande artista. Nato a Caprese nel 1465 e cresciuto alla corte di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti fu scultore per vocazione, pittore, architetto, ma non solo, scrittore di lettere e maestro delle “Rime”, grazie anche all’amore spirituale legato al rapporto ideale con Vittoria Colonna. La sua poesia è una poesia autobiografica legata strettamente alle fasi della vita dell’artista – uomo che, di fronte alle monumentali e sofferte creazioni, ha sempre vissuto un eterno conflitto tra corpo e spirito, dello spirito che vuole liberarsi dal corpo, per l’implacabile forza che ha reso la sua arte universale e irripetibile.

Michelangelo tornò nella Roma rinascimentale, quando era già noto per aver realizzato all’età di ventitré anni la Pietà Vaticana (1499) e i capolavori fiorentini rappresentati dalla fierezza del colossale David (1501-4), per ricevere l’incarico di grossissimo impegno che lo portò a un eterno conflitto interiore per le continue interruzioni ai lavori della tomba di Giulio II, in cui le forme gigantesche richieste dal Papa stimolarono la fantasia dello scultore già incline verso forme gigantesche. Fino alla ben nota fuga dalla corte papale, durante i lavori che lo vedevano legato ai ponteggi della volta della Cappella Sistina come pittore,per lo stesso papa, mentre Michelangelo avrebbe voluto impugnare lo scalpello e proseguire l’arte che più sentiva propria. Intorno alla Tomba, quindi, si intrecciano e si colorano tutti i cambiamenti artistici del grande artista che andrà oltre quel perfezionismo naturalistico – in cui si era calato nella Pietà e nel Bacco, ad esempio – a partire dal 1505.

La superiorità di Mosè, come nel gigantesco gruppo scultoreo del Laocoonte– venuto alla luce nel 1506 nella zona delle terme di Tito, scoperta che gli confermò quello che lui stava progettando e pensando già da tempo, e cioè di aver superato gli antichi –  è resa dalla muscolatura così perfetta che doveva esprimere il mondo interiore, la superiorità divina. Michelangelo ha superato gli antichi con le stesse armi, le anatomie perfette, ponendosi nella ricostruzione storica di Vasari, il quale con “Le Vite” offre la prima periodizzazione della storia dell’arte attraverso le biografie degli artisti, soprattutto fiorentini, come il termine assoluto della rinascita dell’arte, come colui che supera tutti gli artisti, viventi e non, nella parabola evoluzionistica che ha inizio con Giotto e termina con il “divino” Michelangelo.

Oggi lo sguardo assennato del Mosè dal santissimo volto ritratto dal marmo con la torsione del capo verso destra, motivata verso la fonte luminosa della finestra che per secoli ha privato il pubblico dell’eccezionale tecnica scultorea, ha riconquistato la sua luce originale nella percezione degli effetti chiaroscurali per il riflesso creato da un sistema di luci a led sulle superfici dei bellissimi panni straforati sulla muscolatura di braccia e gambe condotte a perfezione, in maniera del tutto gratis, eliminando l’odioso sistema alimentato con le monetine del visitatore di turno.

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