‘To the Wonder’ e ‘The tree of life’ di Malick, due film complementari sull’individuo costantemente contrapposto alla storia

Indubbiamente con To The Wonder, la matrice del cinema di Terrence Malick è definitivamente venuta allo scoperto, confermando quanto già si poteva intuire nel precedente The Tree of Life. Con quest’ultimo, contestatissima Palma d’oro a Cannes 64, il regista texano aveva mostrato inequivocabili segnali di una profonda crisi mistica, aprendo ad un nuovo corso del suo esercizio cinematografico. “Neonata. Apro gli occhi. Fondo. Nella notte eterna. Una scintilla”: questo l’incipit, le prime parole off pronunciate dalla voce interiore di Marina in To the Wonder (Olga Kurylenko). Parole che fanno da eco a quelle dolenti di Jack (Sean Penn) in The Tree of Life (“Come ti ho perduto? Mi sono allontanato, ti ho dimenticato”), riattivandone in un battito di ciglia il substrato gnostico. Secondo la gnosi, dottrina antichissima dalle ramificazioni straordinariamente estese, l’essere umano è caduto nel mondo, gettato nella prigione terrestre, addormentato, ignaro della propria reclusione nella vita mortale e dimentico della scintilla divina che, sopita, dimora in lui. Venire al mondo significa dunque precipitare nell’oscurità della materia, nell’inconsapevolezza della propria origine, nella perdizione. La creazione non è opera della bontà divina, ma il prodotto di una divinità malvagia (Demiurgo): è tenebra, divisione, incompletezza, corruzione del Pleroma (la luminosa pienezza originaria). Creazione sta per catastrofe, in una parola. Si tratta di un dramma immane e incontrollabile di fronte al quale non si può che piangere (è forse un caso che in The Tree of Life la cosmogenesi sia accompagnata dalla Lacrimosa di Zbigniew Presner?).

Ma se The Tree of Life lasciava una via di liberazione e risveglio, benché minima, dall’agnosia tramite la figura del fratello prematuramente scomparso (“Seguimi”, sussurrava la voce over del piccolo L.R. a Jack poco prima di condurlo alla spiaggia spirituale del finale), To the Wonder esibisce con beffarda ampollosità gli ostacoli che si frappongono tra l’uomo e la salvezza. Che cos’è l’amore per un altro essere umano se non l’ennesimo illusione di felicità terrena? Che cosa se non l’ingannevole abbaglio di un senso della meraviglia irrimediabilmente compromesso con la materia? Credere nell’incorruttibilità della relazione sentimentale significa consacrarsi alla menzogna, scambiare l’ignoranza per conoscenza, l’apparenza per verità: “Questa certezza è così forte che ti appartengo”, mormora enfaticamente quella stessa Marina che presto tradirà il marito Neil (Ben Affleck), scoprendo dentro di sé l’esistenza di nature conflittuali (“Dio mio, che guerra crudele. Ci sono due donne dentro di me. Una piena di amore per te, l’altra mi tira verso la terra”). Oppure equivale consegnarsi all’arbitrio dell’amato con un’ingenuità tanto vulnerabile quanto sconsiderata: “Ragazza. Ragazzina. Pazza. Eccomi qui. Sì”, bisbiglia Jane (Rachel McAdams) nella gioia transitoria del sentimento per Neil, salvo poi trovarsi costretta a pentirsene amaramente (“Pensavo di conoscerti. Ora non credo che tu sia mai stato chi credevo che tu fossi. Tutto quello che avevamo era niente. Tu l’hai reso niente”).

Volubile e puerile, in breve umano, l’amor profano rappresentato in To the Wonder attrae e distrae, lusinga e assoggetta a questo mondo, destinando gli individui allo spaesamento e all’angoscia (Marina a Parigi: “Mi sento messa a nudo. Non so dove vado. Torno al mio appartamento e crollo”). E analogamente all’amor profano, l’amor sacro raffigurato in To the Wonder persevera nell’errore inconsapevole: pur striato di venature gnostiche (“Risvegliate l’amore, la presenza divina che dorme in ogni uomo e in ogni donna”), il cristianesimo di Padre Quintana (Javier Bardem) è pesantemente condizionato dall‘appartenenza al clero, vincolato ai suoi vuoti cerimoniali, guidato dalle sue dislocanti esigenze logistiche (il trasferimento nel Kansas occidentale). Il dissidio interiore di Quintana nasce insomma dallo stesso ammonimento che il sacerdote indirizza ai fedeli (“Vogliamo vivere dentro la sicurezza delle leggi. Abbiamo paura di scegliere”): una rassicurante prudenza che lo conduce all’insensibilità spirituale (“Sei presente ovunque, eppure non riesco a vederti. Sei dentro di me, attorno a me e non ho alcuna esperienza di te”) e lo dirotta verso una concezione coercitiva del sentimento amoroso (“L’amore non è solo un sentimento. L’amore è un dovere”).

La ragione di questo incessante errare è piuttosto palese: diversamente da The Tree of Life, in To the Wonder è assente una figura salvifica in grado di trasformare lo spaesamento in occasione di risveglio, l’angoscia in opportunità di conoscenza. Eppure, in assenza di un salvatore che porti con sé il messaggio di risveglio e liberazione, i personaggi di To the Wonder sono costretti varcare la soglia del cristianesimo. Se il dilemma esistenziale in padre Quintana, costretto a dibattersi tra crisi spirituale e disperazione, può avere un senso, è in personaggi Marina, talvolta proiettata in celestiali afflati panteistici (“Che cos’è questo amore che ci ama? Che viene dal nulla. Da tutt’intorno. Il cielo. Tu, nuvola, anche tu mi ami”), che casca l’asino. Sì, perché al fondo, le risposte a queste miriadi di domande, dove stanno? In che ambito, Malick, le va a cercare? Nella fede, nel trascendente, nel mantra heideggeriano del «Solo un Dio ci può salvare», quella dell’Heidegger (“corretto” con un goccio di Emerson) studiato e tradotto da Malick in gioventù.

Mai e poi mai il regista di Waco si sogna di indagare l’esistente, i suoi rapporti intersoggettivi, le sue tensioni sociali. Da questo punto di vista, The Tree of Life e To the Wonder sono davvero film complementari: non tanto nel senso di una banale e generica consequenzialità/ anteriorità (sequel/prequel a seconda dei gusti), quanto e più precisamente nel senso che le due pellicole dichiarano apertamente che quello di Malick, nonostante non vi sia in lui l’indifferenza della natura secondo l’ottica senza Dio di Nietzsche e soprattutto di Leopardi, è un cinema dell’Essere, dell’individuo costantemente contrapposto alla storia. In altri termini, Malick, uno dei più grandi registi americani (non di genere) viventi, ci conferma che l’ideologia, o più esattamente la produzione ideologica, è una dimensione strutturale permanente, e quindi antropologicamente e socialmente ineliminabile, dell’attività umana. Non esiste, ed ovviamente non può esistere, nessuna presunta “fine delle ideologie”. Ed è solo dopo essere rimasti estasiati dalla magnificente rapsodia visiva dell’autore texano, che ci “consoliamo” guardando Iron Man e The Avengers.

 

Di Marcello Rossi-L’intellettuale dissidente

“Nebraska” di Bruce Springsteen: Il Boss è nudo!

Bruce Springsteen nel 1988

Si sarebbe potuto scrivere un articolo su Born To Run….certo; su Human Touch o su The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle ma perché scegliere un disco di minor prestigio come “Nebraska” per omaggiare Bruce Springsteen? Il perché è presto detto. “Nebraska” è puro Springsteen. Inciso in perfetta solitudine e con strumenti acustici, quest’album presenta il lato più vulnerabile, poetico e malinconico del Boss. C’è tanto dolore e tanta speranza, sogni infranti e ricordi traslucidi scovati tra le pieghe di un’America in bianco e nero.

In fondo basta poco, una chitarra, un’armonica a bocca, un mandolino, un tamburello, un registratore a quattro piste ed una manciata di brani splendenti come diamanti per dare vita ad un capolavoro. Nato come semplice demo di inediti da incidere successivamente con la mitica E-Street Band, “Nebraska” è uscito esattamente come era stato registrato. Lo stesso Springsteen, dopo innumerevoli ed insoddisfacenti tentativi di arrangiamento per gruppo rock, ha preferito mantenere le versioni originali.
“Stava per essere una demo. Poi avevo un piccolo Echoplex, ho mixato i brani e questo è tutto. E quello era il nastro che poi sarebbe diventato il disco. Era fantastico quello che avevo fatto, perche portavo quella cassetta con me nella mia tasca senza un motivo per un paio di settimane, solo per portarla in giro. Infine, ci siamo resi conto, “Uh-oh, abbiamo l’album” (Bruce Springsteen-Rolling Stone-1984)
Pubblicato nel 1982, classico vaso di terracotta tra due vasi di ferro quali The River e Born In The USA, questo lavoro inizialmente spiazzò sia fan che addetti ai lavori a causa della sua lentezza e semplicità.
Mancano il rock muscolare e gli inni da stadio tipici dello stile springsteeniano, a favore di atmosfere più rarefatte “casalinghe”, un cantato più sussurrato e suoni decisamente unplugged. Il favore del pubblico e della critica però non tarda ad arrivare grazie all’indiscutibile bellezza di brani come Mansion On The Hill, Atlantic City, Reason To Believe e l’incredibile Highway Patrolman, forse una delle poche canzoni ad aver ispirato un film (“The Indian Runner” di Sean Penn). “Nebraska” non è che l’apice di un mutamento nella musica di Springsteen cominciato con Darkness On The Edge Of Town e confermato, poi, nei lavori successivi. L’entusiasmo giovanile, la spensieratezza, l’amore cedono il passo alla disillusione, al disincanto, all’amarezza sullo sfondo di un’America che smette di essere the promised land per trasformarsi in un luogo pieno di contraddizioni, violenza e dolore. Uno dei primi ad apprezzare quest’album è stato un monumento della musica mondiale: Johnny Cash che ha inciso sentite versioni di Higway Patrolman e Johnny 99.

 

 

Nebraska-Columbia Records-1982

Numerosi altri artisti, nel tempo, hanno seguito la scia del Man In Black. Nel 2000 esce addirittura un album, intitolato Badlands: A Tribute To Bruce Springsteen’s Nebraska, in cui musicisti del calibro di Ben Harper, Steve Earle, Ani Di Franco, Hank Williams II, ripropongono integralmente questo oscuro capolavoro (chiaramente riveduto e corretto). L’impatto di “Nebraska” sulla cultura musicale, americana e non, è stata e continua ad essere più forte del previsto. Probabilmente le tematiche altamente evocative ed una miscela particolarmente riuscita tra parole dalla forte valenza poetica e note straordinariamente suggestive hanno reso questo disco un classico imperdibile; è Springsteen che canta sé stesso e per sé stesso.

Non ci è stato un lungo tour promozionale, non ci sono stati estratti singoli spacca-classifiche; “Nebraska” è la testimonianza di un artista che ha il coraggio di guardarsi dentro, affrontare i suoi demoni e sconfiggerli imprigionandoli su nastro. Il resto non conta. Segno evidente che il Boss era cambiato, che il mondo era cambiato, forse in maniera irreversibile.

 

Di Gabriele Gambardella.

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