“Le risate del mondo” di Arturo Bernava: un romanzo storico che ripercorre le turbolente vicende italiche a cavallo dell’armistizio del 1943

“Le risate del mondo” segna il ritorno di Arturo Bernava alla letteratura: un romanzo corale, costituito da tanti coloriti personaggi che insieme intessono un’avvincente storia, ambientata a Chieti e provincia, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1943. La trama prende avvio dal mancato matrimonio di Italia Michelli, presunta vedova di guerra, con Alfonso Pierantozzi, di classe sociale superiore e con legami nel partito fascista, per opposizione del prete, Don Michele detto “Tiscrocco”. Ignoti sono i motivi, che spingono il cosiddetto parroco “bolscevico” a rifiutare di celebrare questa unione, tanto agognata dalla madre di Italia, Benemerita Carrisi, a caccia di un buon partito per scacciare la fame. Di sollievo è invece la reazione della mancata sposina, che ancora sognava di rivedere suo marito Ottavio, disperso nella campagna di Russia. Nel mentre viene trovata morta l’altra Italia, un’anziana che si occupa di mercato nero, responsabile di aver presentato la più grande delle Michelli a Pierantozzi.

Uccisa per strangolamento, tante sono le ipotesi, ma stupisce l’interesse per quest’indagine dei tedeschi stanziati sul territorio, in primis del “kaiser”. Intanto, arriva l’8 settembre e i bombardamenti degli alleati che colpiscono anche Villamagna. Tra i personaggi principali si annovera anche il dottore, Don Gerardo De Luca, che riceve un avviso di trasferimento presso il distretto di guerra, il cui posto sarà usurpato da un novello, un certo Andrea Mantini, che si scoprirà essere una donna, nata in Germania. Tante le novità in atto in quel piccolo paese in provincia di Chieti, dove intanto i tedeschi mettono in atto la loro ritorsione, sgomberando le città, razziando le case e fucilando i partigiani. Una storia originale, che racconta di un periodo di transizione per l’Italia: la resa, la cosiddetta “perdita della patria” e la resistenza, dei partigiani, nascosti tra le montagne.

 

Note biografiche

Manager, scrittore pluripremitato, docente di scuola di scrittura creativa, Arturo Bernava, attualmente è amministratore del Gruppo Editoriale “Il Viandante – Chiaredizioni”. Nato nel 1970, è stato premiato in oltre cento concorsi letterarii. Nel 2009, per la casa editrice Solfanelli, ha pubblicato il suo primo romanzo dal titolo “Il colore del caffè” (Premio Internazionale Città di Mesagne 2011, Premio Maria Messina 2011, Premio Città di Eboli 2010, Premio Internazionale Golfo di Trieste 2010). Nel 2010 è uscita una sua raccolta di racconti dal titolo “ELEvateMENTI” (Tabula fati, Chieti), che, tra i vari riconoscimenti, ha ottenuto anche la medaglia della Presidenza del Senato al Premio Parco Maiella di Abbateggio. Nel 2013 ha pubblicato “Scarpette Bianche” (Solfanelli Chieti), risultato vittorioso in numerosi certami letterari, tra cui: “Premio città del tricolore (Reggio Emilia)”, “Premio Thesaurus (Albarella, Rovigo)”, “Premio Mario Arpea, città di Rocca di Mezzo”, “Premio per l’editoria abruzzese, città di Roccamorice”, “Premio Internazionale Martucci-Valenzano (Bari)”, “Premio internazionale Marchesato di Ceva 2015”, oltre ad aver conquistato la piazza d’onore in un’altra quindicina di premi letterari. Ha collaborato con alcune riviste periodiche, sia cartacee che online, tra cui “Tuttoabruzzo” e “Arteinsieme” (quest’ultimo con la pubblicazione di alcuni racconti). Una sua biografia è riportata nell’Enciclopedia degli autori italiani, edita dall’Associazione nazionale “Penna d’autore”.

 

Cenni editoriali

La casa editrice Il Viandante nasce nel dicembre del 2015 e vanta al proprio attivo centinaia di pubblicazioni, principalmente di narrativa di genere, gialla e storica. La casa editrice NON chiede alcun contributo agli autori, men che meno l’acquisto obbligatorio di copie. Annovera, tra i propri autori, anche esordienti o scrittori che hanno all’attivo poche pubblicazioni, in coerenza con la propria “mission aziendale” – essere “fucina di talenti” –  che mira a scoprire, promuovere e far crescere talenti letterari del panorama culturale nazionale.

Il marchio viene distribuito in Italia da Messaggerie e fa parte del Gruppo Editoriale Il Viandante – Chiaredizioni.

 

Link di vendita on line

 

https://www.mondadoristore.it/Le-risate-del-mondo-Arturo-Bernava/eai979128033336/

 

https://www.libraccio.it/libro/9791280333360/arturo-bernava/risate-del-mondo.html

 

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Contatti

 

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‘Il mondo di ieri’ di Stephen Zweig, un memorabile affresco dell’Impero austro-ungarico

“Il mondo di ieri” di Stephen Zweig, scrittore austriaco ebreo di successo negli anni ’20 del Novecento, è una autobiografia illuminante, che fa piena luce sia sulla sua vita che sulla sua epoca.

Il mondo di ieri è caratterizzato da riflessioni e ricordi, intesi in senso guicciardiano.  Scritto tra il 1939 ed il 1941 in Brasile, dove l’autore si era rifugiato, Il mondo di ieri, annovera aforismi, massime, avvertimenti, però a differenza del segretario fiorentino Zweig non si impegna nella scrittura breve, non è discontinuo né frammentario, anzi è un accumulatore seriale di aneddoti e ricordi, pur tuttavia sempre racchiusi in una forma organica, lineare e razionale.

Il mondo di ieri: un affresco dell’Impero austro-ungarico

L’opera si legge tutta di un fiato. Lo scrittore riesce sempre a ravvivare e ridestare l’interesse nel lettore, non perdendosi mai in intellettualismi e senza scadere mai in digressioni prolisse.

Zweig fa un affresco memorabile dell’Impero austro-ungarico e della sua caduta; lo fa a pieno diritto, visto e considerato che è stato un rappresentante di alta levatura della cultura mitteleuropea. In Europa infatti fu un autore molto letto.

Il mondo di ieri comincia con la descrizione dell’infanzia dell’autore a Vienna. Egli definisce la scuola una galera, a causa della disciplina ferrea vittoriana che determinava molti “complessi di inferiorità”. In quella Vienna la massima aspirazione delle famiglie borghesi non era che i loro figli si arricchissero ulteriormente ma che diventassero dottori.

Molti bambini ed adolescenti volevano diventare artisti. Allo stesso modo l’educazione era molto rigida ed impostata. I doveri avevano la priorità assoluta sui diritti. I ragazzi avevano come modelli dei maestri di pensiero, prima di tutto rispettabili. La sessualità era un tabù. Era una attività da non mettere in mostra ed un argomento di cui non parlare.

Tematiche

L’erotismo in quella società sessuofobica era tutto nascosto e adulterato o almeno mistificato. Ma allo stesso tempo per un meccanismo di compensazione quella era in Austria anche l’epoca della sicurezza. Era la Felix Austria. Era la Belle Époque.

Era la società del liberalismo e del progresso, delle “magnifiche sorti e progressive”. Zweig proveniva da famiglia agiata ed ebbe la fortuna sia di poter andare all’università che di scegliere la facoltà, cose non affatto scontate a quei tempi. Scelse filosofia, ebbe modo anche di pubblicare le prime poesie e di conoscere Herzl, fondatore del sionismo.

Poi il 28 giugno 1914 Princip, uno studente serbo, assassinò l’erede al trono asburgico. Come scrive Zweig erano stati 40 anni di pace e poi era sopraggiunta all’improvviso la guerra. Molto fuoco covava sotto la cenere. L’equilibrio in Europa era precario. C’erano molte tensioni di varia natura (economica, politica, sociale, ideologica). Iniziarono gli sconvolgimenti, gli eccidi, gli orrori.

La seconda guerra mondiale

Come ancora ci narra Zweig i soldati al fronte morivano, mentre gli altoborghesi imboscati se la spassavano in patria. I superpatrioti ce l’avevano con lui che era pacifista.

Ma lo scrittore era impegnato lo stesso perché aveva la coscienza e l’esatta percezione di quanto fosse importante il parere e la presa di posizione di un letterato o di un artista a quei tempi, mentre come sottolinea molto lucidamente nella seconda guerra mondiale gli intellettuali erano ormai fuorigioco e ininfluenti.

Finita l’università si trasferisce a Parigi. Zweig descrive con nostalgia la capitale francese, una città cosmopolita per eccellenza, e scrive che sulla Senna ognuno si sentiva a casa propria. Racconta anche i suoi viaggi, che lui definisce “pellegrinaggi”.

I grandi intellettuali dell’epoca

Un artista per essere tale deve avere frequentazioni con giganti intellettuali e lui ebbe molti incontri con geni come Rilke, Harden, Richard Strauss, Herzl, Romain Rolland, Pirandello, Freud, Dalì. Riconobbe nella Svizzera un modello per tutti per la civiltà e l’accoglienza, dato che in terra elvetica trovavano rifugio tutti i perseguitati.

Allo stesso modo l’autore ne Il mondo di ieri ci descrive gli Stati Uniti come il paese in cui ci sono più libertà ma anche più opportunità, visto che in pochi giorni gli offrono ben cinque impieghi. Inoltre descrive il periodo londinese, che va dal 1934 al 1940. Zweig dagli anni ’20 era uno scrittore noto al grande pubblico. I suoi libri vendevano molto.

Zweig aveva ottime entrature nell’alta società, anche se tutto ciò non lo interessava granché. Conosceva tutti gli scrittori, gli editori, i direttori di riviste che contavano in Europa.

L’ascesa al potere di Hitler e il suicidio dello scrittore

Eppure fece naufragio perché si suicidò in Brasile insieme alla moglie. Nonostante il suo successo personale aveva vissuto anche troppo orrore per la guerra, la crisi dell’Austria, che non aveva più fabbriche, era povera e la cui banca nazionale era senza più oro, tutti segni di una miseria inenarrabile e della fine di una epoca felice.

Ma non c’è solo questo: Zweig aveva assistito anche all’ascesa di Hitler. Gliene avevano parlato già all’epoca in cui istigava all’odio i bavaresi nelle birrerie.

Aveva avuto modo di constatare la follia di Hitler, che aveva saputo approfittarsi della difficile situazione in cui versava la Germania in quegli anni, obbligata a pagare una indennità di guerra incredibile. Hitler si approfittò di una Germania umiliata e colse la palla al balzo, coniugando necrofilia, imitazione del fascismo, antisemitismo, anticomunismo, sadismo e crudeltà infinita.

Zweig è stato un intellettuale così lucido da accorgersi del pericolo. Cosí come probabilmente forse si era accorto della “banalità del male” del popolo tedesco.

Probabilmente  il gesto estremo di Zweig e di sua moglie, proprio in quanto ebreo ed austriaco, ha delle profonde giustificazioni, senza fare una sterile retorica del suicidio come è d’uso presso alcuni intellettuali.

 

Do Davide Morelli

Tracciati della memoria nel cinema tedesco di Helma Sanders-Brahms e Margarethe von Trotta

I registi del Nuovo Cinema Tedesco appartengono a quella generazione che, pur non essendo stata direttamente coinvolta nella Seconda Guerra Mondiale, ha subito le conseguenze della sconfitta della Germania ed è stata costretta a sopportare l’onta degli eccidi di
massa compiuti dal Terzo Reich.

Nei loro film, come nelle dichiarazioni di poetica, si manifesta un rapporto contrastato con il passato, sia in relazione alla produzione cinematografica postbellica, legata soprattutto ai melodrammi e agli Heimatfilme, sia nei confronti dei padri, ossia quella generazione che era stata connivente con il progetto nazionalsocialista e la cui eredità aveva sgretolato l’identità tedesca provocando un diffuso e sottaciuto senso di colpa.

Il Nuovo cinema tedesco

Già nel Manifesto di Oberhausen – reso pubblico nel febbraio del 1962, durante la conferenza stampa dell’ottavo Festival del Cortometraggio – le richieste di rinnovamento dei modelli di finanziamento e degli investimenti economici si affiancano alle per un radicale mutamento dell’estetica e del linguaggio cinematografico: «Il futuro del cinema tedesco è in chi ha mostrato di parlare una nuova lingua cinematografica. […] Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo»

Decisi a tracciare una cesura con chi li aveva preceduti per affondare le proprie radici in una tradizione che aveva in Fritz Lang e Friedrich
Wilhelm Murnau i propri maestri, capaci di instaurare un dialogo con le innovazioni narrative ed estetiche introdotte dal neorealismo e dalla Nouvelle Vague, i giovani cineasti tedeschi girano dei film in grado di problematizzare la ricostruzione della Germania e della sua identità, provando a confrontarsi con le colpe dei padri e con le macerie della guerra.

La memoria delle macerie

Sono i resti, le rovine degli edifici nazisti a Norimberga ad essere il soggetto principale di quella che viene considerata una tappa fondamentale verso l’avvento del Giovane Cinema Tedesco, il cortometraggio documentario Brutalität in Stein [1961; Brutalità nella pietra] di Alexander Kluge e Peter Schamoni.

Il montaggio audiovisivo affianca le immagini d’archivio delle macerie di Norimberga dopo i bombardamenti degli anglo-americani, alle memorie di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, in cui sono descritte le tecniche burocratiche della soluzione finale.

A vent’anni di distanza da Brutalität in Stein, le macerie ritornano nel film di Helma Sanders-Brahms Germania, pallida madre, un affresco ispirato alle vicende familiari della regista che attraversa la storia della Germania, dall’avvento del secondo conflitto mondiale alla devastazione delle città tedesche, fino alla loro ricostruzione.

Il titolo del film coincide con il primo verso della poesia Germania scritta da Bertolt Brecht nel 1933, anno in cui il poeta e drammaturgo lascia Berlino. Nei titoli di testa, su sfondo nero, compare la poesia che viene letta dalla voce fuoricampo di Hanne Hiob, la figlia di Brecht.

Nella sua Storia naturale della distruzione, Winfried Sebald spiega l’importanza dell’operazione di recupero di una memoria delle macerie:

La ricostruzione tedesca, divenuta ormai leggendaria e da un certo punto di vista davvero ammirevole, equivalse per la Germania – dopo le devastazioni operate dai nemici durante la guerra – a una seconda liquidazione, per tappe successive, della sua storia precedente: infatti, con il grande lavoro che essa richiese e con la nuova anonima realtà che riuscì a creare, impedì fin da principio che si volgesse lo sguardo al passato e orientando la popolazione esclusivamente verso il futuro la costrinse a tacere su quanto aveva vissuto.

Sanders-Brahms

La prospettiva aerea con cui è stata girata la gran parte delle immagini di repertorio utilizzate da Sanders-Brahms ha consentito la registrazione puntuale di quanto accaduto: il fumo e i lampi delle esplosioni, il disfacimento delle architetture urbane e dei simboli del
potere nazista a Berlino, il brulicare della vita tra le rovine.

Tracce di distruzione

Mentre nei confronti del nazismo e dello sterminio degli ebrei il Nuovo Cinema Tedesco ha lavorato “intempestivamente”, mostrando
le tracce della distruzione o sottolineandone l’assenza, con il dilagare del terrorismo il cinema diventa uno degli strumenti di denuncia e riflessione sulla violenza diffusa, sull’imperversare della paura e, al contempo, sull’applicazione e l’accettazione da parte del corpo sociale di
leggi che limitano la libertà individuale e ledono i principi democratici.

Film come Die verlorene Ehre der Katharina Blum (1975; Il caso Katharina Blum) di Volker Schlöndorff e di Margarethe von Trotta – alla prima prova da regista – e Die dritte Generation (1979; La terza generazione) di Rainer Werner Fassbinder hanno saputo raccontare il clima di terrore diffuso – intriso di ironia nel caso del film di Fassbinder – e la “caccia alle streghe” scatenatasi contro i presunti sostenitori del movimento.

Helma Sanders Brahms

Margarethe von Trotta

Ma è attraverso il film collettivo Deutschland im Herbst (1978; Germania in autunno) che i fatti di cronaca dell’autunno del
1977 (il sequestro e l’uccisione dell’ex-ufficiale delle SS e capo della confindustria tedesca Hanns-Martin Schleyer, il dirottamento del Boeing della Lufthansa “Landshut” a Mogadiscio, la successiva liberazione degli ostaggi e, infine, la morte nel carcere di Stammheim) entrano in risonanza con i crimini nazisti, producendo sfasature tra il tempo della storia e quello della memoria e mostrando come il passato possa essere compreso a partire da una sua rielaborazione – che immancabilmente è anche un atto di selezione – nel presente.

A questo proposito, è emblematico l’episodio diretto da Fassbinder e nel quale egli stesso è il protagonista. Girato all’interno di un appartamento, l’episodio narra il difficile confronto con il compagno Armin Meier e i litigi scatenati dalle differenti interpretazioni dell’attualità.

Anni di piombo

Fondato sul rapporto contrastato tra due sorelle, Anni di piombo di von Trotta riprende, a soli due anni da Germania in autunno, la riflessione sui legami tra l’esercizio della violenza terroristica, le misure politiche adottate per reprimerla e il nazismo.

A differenza de Il caso Katharina Blum, in cui Schlöndorff e von Trotta scelgono di raccontare principalmente la nevrosi collettiva, alimentata dai giornali scandalistici e dai metodi di polizia, costruitasi attorno ai terroristi e ai loro presunti fiancheggiatori, Anni di piombo concede poco spazio alla messa in scena della dimensione pubblica e si concentra sul rapporto tra Juliane giornalista presso una rivista femminista, e Marianne (Barbara Sukowa), membro della RAF.

Il film racconta il percorso di Marianne, dall’ingresso nella clandestinità alla morte in carcere, ed è ispirato alla storia della terrorista Gudrun Ensslin. Ma il punto di vista dal quale sono narrate le vicende è principalmente quello di Juliane che, pur non condividendo le scelte della sorella, si ostina a cercare e a denunciare la verità sulla sua morte.

Violenza e non violenza

Le divergenze sulle modalità di attuazione del cambiamento politico – per Marianne occorre agire rapidamente e anche attraverso la violenza
mentre Juliane è convinta che la trasformazione sociale possa avvenire attraverso la sensibilizzazione e la critica non violenta – non affievoliscono il legame affettivo tra le due sorelle e, al contrario, sottolineano la profonda complementarità che le lega17

Fin dalla sequenza iniziale, il montaggio filmico è teso a scandagliare le origini e le trasformazioni di questo legame e, attraverso molteplici flashback, fa in modo che il passato emerga e irrompa nel presente.

All’operazione di rievocazione, fondata sulla raccolta e sulla conservazione del materiale del passato, Juliane affianca la comparazione
che, sottoponendo i documenti del passato ad un’ipotesi interpretativa, permette di esercitare uno sguardo critico sul presente.

I primi piani di fotografie dell’epoca nazista scorrono sullo schermo: il Führer ritratto assieme ai bambini e alle loro madri, il conferimento di medaglie alle madri più prolifiche, lunghe file di ragazze intente a compiere esercizi musicali, ginnici e militari.

 

Fonte

https://www.academia.edu/12112069/Immagini_della_distruzione_Tracciati_della_memoria_nel_cinema_di_Helma_Sanders_Brahms_e_Margarethe_von_Trotta

‘In un battito d’ali’ di Giulia Fagiolino: un romanzo famigliare che evoca una pagina dolorosa della nostra storia

In un battito d’ali, edito da L’Erudita, Giulio Perrone, è l’ultimo romanzo di Giulia Fagiolino. L’autrice senese, nata il 23/09/ 1986, vive in provincia di Viterbo, proviene da studi classici ed è laureata in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Siena. Attualmente è Avvocato presso uno studio di Orvieto. Nel giugno del 2018 esce la sua opera prima Quel Giorno edito da Capponi Editore ed esordisce al Caffeina Festival di Viterbo . Nello stesso anno, a dicembre partecipa a Più libri più liberi al Roma convention Center La Nuvola a Roma  e nel 2019 al Salone internazionale del Libro di Torino.

Giulia si aggiudica quattro premi internazionali: Premio speciale circoli culturali il Porticciolo al Premio letterario internazionale Montefiore 2018; Segnalazione al merito al premio internazionale Michelangelo Buonarroti 2018 a Forte dei Marmi; menzione al merito al Premio letterario residenze gregoriane a Tivoli 2019; menzione al merito al premio internazionale Giglio Blu di Firenze, dove nelle motivazioni l’hanno paragonata al fanciullino di Pascoli. Fa anche parte di un laboratorio di scrittura creativa nell’alto Lazio, con il quale ha partecipato alla raccolta dei racconti Le case narranti. Rapsodie sui luoghi del silenzio, vagabondaggi nella Tuscia edito da edizioni Sette città.

Reduce dalla vittoria di importanti riconoscimenti, la scrittrice Giulia Fagiolino torna in libreria con la sua nuova opera edita dalla casa editrice romana.

L’Erudita è un marchio della Giulio Perrone editore. L’Erudita è una casa editrice indipendente rivolta a tutti, esordienti e non, giovani e meno giovani. Il catalogo spazia dalla narrativa alla saggistica, dalla poesia ai racconti. La Giulio Perrone Editore viene fondata a Roma il 19 marzo 2005 da Giulio Perrone e Mariacarmela Leto con lo scopo di creare una nuova realtà letteraria e culturale, sulla scia delle case editrici indipendenti romane. Punti cardine del progetto sono l’attenzione estrema per la qualità dei testi proposti, la cura per la veste grafica e una contaminazione fra arti e linguaggi che esplori le molteplici possibilità del fare cultura.

Obiettivi ambiziosi che la Giulio Perrone Editore si è impegnata a raggiungere con passione e competenza in questi anni di lavoro, supportata ed approvata da grandi personalità come Rossana Campo, Lidia Ravera, Walter Mauro, Dacia Maraini, Paolo Poli, Ugo Riccarelli, Antonio Tabucchi e altri grandi scrittori.

 

In un battito d’ali: Sinossi

 

In un battito d’ali, uscito nell’ottobre di quest’anno, è un romanzo famigliare e storico.

Agnese non aveva mai avuto una famiglia. Era chiamata “figlia di N.N.”, così si diceva di coloro dei quali non si conoscevano i genitori. Era cresciuta in orfanatrofio, in quelle camerate fredde prive di calore e di affetto. Intorno ai diciassette anni fu adottata da una famiglia. Cercavano una ragazza robusta che li aiutasse a guadagnare per vivere, così la mandarono a lavorare nelle ferrovie, dove si caricava grosse balle piene di ghiaia da versare fra i binari. Di quegli anni non parlava, era come se si fosse dimenticata di quella vita dove la fatica e lo sfinimento facevano da padroni. Di una cosa però era certa. Anche se non era stata riconosciuta come figlia, lei sapeva chi fosse il suo vero padre, che era deceduto in guerra. E lo sapevano anche i parenti, che non avendo avuto figli propri anni dopo decisero di riprenderla con sé, ma senza riconoscerla.

L’esistenza scorre faticosa ma dolce a Castelfosso in Toscana, dove la comunità vive e lavora in armonia come una grande famiglia. Agnese, donna forte e solida, conduce la sua casa con amore e prendendosi cura del marito Pietro e dei figli Ginevra e Tommaso. Intorno a loro si muovono tutti gli altri abitanti del paese, con le loro storie, i loro dolori e le loro gioie: Giulio, l’amato di Ginevra, sospettato da Agnese di voler usare la ragazza per i suoi possedimenti, il vecchio Gino, impazzito dopo la morte del figlio e la malattia della moglie, Gina, Bruna e tutte le altre donne che, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, sono costrette a vedere i propri mariti, figli, cari partire al fronte, mentre la Resistenza combatte contro l’occupazione tedesca coinvolgendo anche Ginevra, che mette a rischio la propria vita per amore.

“Questo libro – ha dichiarato l’autrice – è nato negli anni, quando attenta ascoltavo i racconti della mia famiglia, che mi ha così liberamente ispirato con fatti accaduti in un tempo ora lontano, ma sempre vivi nelle nostre memorie. Ho ricordato volti e paesaggi a me noti e ho immaginato di vivere realmente quei momenti con loro; dove la realtà mi sfuggiva, è subentrata la fantasia, che mi ha aiutato a tessere la trama del romanzo”.

La scrittrice ripercorre una pagina molto dolorosa del nostro passato storico. Attraverso la sua penna il lettore da spettatore delle vicende diventa quasi il protagonista condividendo con i personaggi del libro gli aspetti emozionali.

In un battito d’ali è un romanzo storico e corale che racconta l’intimità, le speranze e le miserie di un pezzo di storia d’Italia in un susseguirsi di eventi ed emozioni.

 

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‘La svastica sul sole’: il romanzo ucronico di Philip K. Dick

La svastica sul sole (L’uomo nell’alto castello) è un classico di un genere di nicchia: il celebre romanzo ucronico, o fantastorico di Philip K. Dick, il quale immagina come sarebbe il mondo se l’Asse avesse vinto la seconda guerra mondiale, con gli USA divisi in sfere d’influenza tedesca (costa atlantica) e giapponese (costa pacifica) e una zona centrale più autonoma ma politicamente ininfluente denominata “Stati delle Montagne Rocciose”, la Russia ridotta ad un’area ancor più marginale e subalterna, devastata dalle deportazioni naziste e sfruttata per la manodopera a basso costo, un’Asia (Cina, India, Indocina) e un’Oceania dominate dal Sol Levante.

La Svastica sul sole: trama

Sul resto del mondo incombe una realtà da incubo: il credo della superiorità razziale ariana è dilagato a tal punto da togliere ogni volontà o possibilità di riscatto. L’Africa è ridotta a un deserto, vittima di una soluzione radicale di sterminio, mentre in Europa l’Italia ha preso le briciole e i Nazisti dalle loro rampe di lancio si preparano a inviare razzi su Marte e bombe atomiche sul Giappone. Sulla costa occidentale degli Stati Uniti i Giapponesi sono ossessionati dagli oggetti del folklore e della cultura americana, mentre gli sconfitti sono protagonisti di piccoli e grandi eventi. E l’intera situazione è orchestrata da due libri: il millenario I Ching, l’oracolo della saggezza cinese, e il best-seller
del momento, vietato in tutti i paesi del Reich, un testo secondo il quale l’Asse sarebbe stato sconfitto dagli Alleati.

Pubblicato nel 1962 dalla Putnam, il libro approdò nello stesso anno al Science Fiction Book Club e fu premiato l’anno successivo con il premio Hugo. Sebbene con maggiore umiltà rispetto ad alcuni contemporanei più fortunati come Vonnegut, anche Dick si colloca pienamente nell’area del postmoderno, approfondendo un discorso che non riguarda solo il rapporto ambiguo che si istituisce tra la realtà e l’illusione, ma ancora di più la relazione che intercorre tra la realtà e quel sistema codificato di menzogne che è una qualunque forma di comunicazione, in primis l’arte, ovvero la scrittura, nel momento in cui la verità diviene processo immaginativo, la cronaca ricostruzione fantastica, il Verbo divino un sistema di segni arbitrari, sempre e comunque soggettivamente interpretabili. Dick è sempre consapevole di essere parte e testimone del fenomeno di disintegrazione delle categoria conoscitive del reale di fronte all’avanzate degli strumenti della comunicazione di massa, sia come individuo che come scrittore.

Nella Svastica sul sole Dick trasferisce tutta la sua carica di scrittore sovversivo, sviluppando un modo di narrare in cui lo spazio caotico della realtà, che parte dall’autobiografia dello scrittore e si allarga ad abbracciare una serie di eventi storici dalle proporzioni immense; ne viene fuori un romanzo fantascientifico anomalo che non si risolve in un banale gioco di oziose fantasticherie pseudo-storiche. L’atto di fede compiuto da Dick riguarda il potere della scrittura che trasforma in una favola terribile, avvalendosi di un linguaggio lucido e tagliente , i processi e le mitologie attraverso cui si è istituita l’identità contemporanea americana. Infatti l’autore mette alla prova una serie di ricostruzioni storiche degli Stati Uniti legate alle vicende della seconda guerra mondiale che vanno dall’aggressione a Pearl Harbor del 1941 all’intervento alleato in Europa, con lo sbarco in Normandia fino al periodo post-bellico del confronto con l’Unione Sovietica, e le rovescia come un calzino. Adesso è la fiera America ad essere sottomessa a due nemici in disaccordo tra di loro: la Germania hitleriana e il Giappone imperiale.

Stile, linguaggio e l’arte come metafora

Con un procedimento terapeutico per cui il passaggio attraverso la follia della Storia è condizione ineludibile per recuperare una sanità sconvolgente, il lettore della Svastica sul sole, scopre non quello che già conosce, ma che l’America degli anni sessanta è inquinata dalla violenza, dall’autoritarismo e dall’ipocrisia delle istituzioni.

Dick non offre al lettore un’interpretazione celebrativa e conformista della realtà: l’artista può tranquillamente trasformarsi in una ridicola pedina del potere costituito, come accade al giovane tedesco Lotze in viaggio per San Francisco, pomposo sostenitore di un ‘arte spirituale che dovrebbe sconfiggere ogni traccia di materialismo, per mettersi al servizio degli ideale nazisti, con una forma di falsificazione ancora peggiore di quella attuata dai trafficanti americani di reliquie. L’unica risposta a tale infamia è quella che Dick fa pronunciare a Baynes, maestro di travestimenti che recita la parte del neutrale scandinavo, pur di rifiutare ogni affinità con la razza eletta, cui pure appartiene e che, di fronte all’antisemitismo di Lotze, si proclama ebreo, rivendicando simbolicamente la sua appartenenza a quell’universo alternativo che fa capolino tra le pagine di Abendsen, La cavalletta non si alzerà più (in cui il mondo immaginario è quello reale, dove gli sconfitti sono Germania e Giappone). In questo caso la menzogna fi Baynes acquista una sostanza etica è che la stessa di un genuino prodotto estetico.

L’America di Dick

Nell’America germanizzata di Dick la persecuzione antisemita avviene alla luce del sole anche se viene ostacolata dall’atteggiamento tollerante dei giapponesi. Nazismo storico e nazismo immaginario possono differire per alcuni dettagli ma la ferocia dell’Olocausto resta la stessa, a scanso di equivoci e di chi magari pensa che lo scrittore sia negazionista.

La grandezza di Dick sta proprio nel suo modo di utilizzare l’idea base del romanzo. Non ha l’ambizione di dare al lettore un quadro onnicomprensivo di un mondo ucronico dominato dai nazisti e dai loro alleati giapponesi. Nelle pagine iniziali viene rovesciato in modo geniale, lo stereotipo del turista americano, forte del suo dollaro, ma ignorante, che visita paesi stranieri acquistando souvenir e oggetti d’arte che spesso sono volgari patacche, Nella Svastica sul sole sono i giapponesi a collezionare oggetti americani per i quali, guarda caso, è nata un’industria del falso. Non si tratta solo di un appunto sarcastico, ma di una questione di identità culturale, ed è proprio riscoprendola che uno dei protagonisti, il mercante d’arte Robert Childan ritrova dignità umana e speranza di riscatto:

[…] L’ammiraglio è un collezionista? chiese Childan, con la mente che lavorava a tutta velocità.
Da un amante delle opere d’arte. E’ intenditore ma non è un collezionista. Ciò che desidera è acquistare qualcosa per fare un dono: vuole donare a ciascuno degli ufficiali della sua nave un prezioso cimelio storico, una pistola dell’epica guerra Civile americana. E L’uomo fece una pausa. In tutto ci sono dodici ufficiali. Dodici pistole della guerra civile, pensò Childan. Prezzo al cliente: quasi diecimila dollari. Fu scosso da un tremito. E’ risaputo, continuò l’uomo, che il suo negozio vende questi inestimabili oggetti d’arte della storia americana. Oggetti che, ahimè, scompaiono troppo rapidamente nel limbo del tempo.

L’autore si fa influenzare dal suo amore per la cultura orientale e al contempo dalla sua repulsione per il Nazismo, dando un’immagine dei giapponesi che contrasta con tutta la politica bellica del Giappone a partire dagli anni trenta e in particolare con il trattamento riservato ai cinesi durante l’occupazione, distinguendo però il militarismo nipponico dal nazismo, senza trascurare i rapporti tra l’America e L’Unione Sovietica in riferimento alla Germania nazista.

 

Fonte: prefazione al romanzo a cura di C. Pagetti, La svastica sul sole, Fanucci narrativa

Femministe d’assalto, prendete esempio da Maria Maddalena Rossi e dedicatele la festa della donna!

Femministe di lotta e di denuncia, compagne di piazza e di corteo, parlamentari progressiste e radicali, combattenti antifasciste, antisessiste e attrici che considerate gli uomini “pezzi di merda” (senza porvi il problema che le loro madri dovrebbe essere della stessa materia di cui sono composti i loro figli), vi invito a fare una piccola ricerca in occasione dll’8 marzo. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi e dedicate a lei la festa della donna. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, Presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha tutti i titoli per essere celebrata da voi.

Perché vi parlo di lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare un capitolo scabroso e rimosso della Seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le 25mila o forse più donne italiane, soprattutto nel basso Lazio, stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.

Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini andava dalla Sicilia alla Toscana, il numero di 60mila marocchinate è considerato plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha perfino ridotto la portata: si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità di quelle donne, e non sottoporle anche a una gogna umiliante. La responsabilità oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale bottino di guerra con diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, in questa barbarie. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe, genera raccapriccio per la ferocia animalesca, più una scia di aborti coatti, nascite segnate, famiglie distrutte. Una pagina rimasta in larga parte impunita e rimossa.

Vi risparmio le migliaia di storie strazianti e di interi paesi violentati, quando ormai il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì alcuni mesi fa sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.

Ma volevo sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’onestà di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da branchi di migranti. Come dimostra lo strazio di Pamela a Macerata, c’è la sordina sul femminicidio se a compierlo sono migranti, per giunta neri. O dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale o seviziate e uccise nelle foibe solo perché italiane.

Magari scoprirete che persino il Pci sessista di quegli anni aveva più donne rappresentative nei suoi ranghi rispetto al Pd femminista di oggi che non ha neanche mezza donna ai suoi vertici: non una tra i candidati alle primarie, non una tra i suoi premier e i suoi presidenti, non una tra i capi e capetti di questi ultimi anni, non un sindaco di una grande città. Il partito più maschilista d’Italia.

Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà storica e ideologica sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso. Ma noi volevamo indicare per l’8 marzo alle boldrini d’oggi e alle femministe d’assalto o in odore di mimosa, una femminista verace, comunista e antifascista, che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione.

 

Femministe, prendete esempio

‘Belka’: la storia dei cani soldato delle Aleutine di Furukawa

Un romanzo davvero particolare e unico quello dello scrittore Furukawa intitolato Belka. I protagonisti indiscussi di questa vicenda sono cani, con qualche debita comparsa umana che lega i vari frammenti della trama. Tutto ha iniziato durante la Seconda guerra mondiale, quando un contingente giapponese conquista e prende possesso di un’isola americana. Trattasi di un isolotto appartenente alle Aleutine, nell’Oceano Pacifico. Le truppe nipponiche portano con sé tre cani da guerra, Katsu, Kita e Seiyu, mentre un quarto lo adotteranno sul posto, Explosion. Questi quattro animali saranno i capostipiti di una lunghissima genealogia di cani straordinari, militari e non. Veniamo così a scoprire che durante i conflitti del XX secolo i cani furono usati moltissimi dalle varie nazioni e per i più svariati compiti, durante la guerra in Vietnam, in Corea, in Afghanistan ecc. In questo libro è difficile ricostruire i confini precisi della finzione e quelli della veridicità storica, fantasia e realtà si confondono a piacimento dell’autore e per il lettore tutto questo si trasforma in un viaggio a dir poco avventuroso nella storia della seconda metà del ‘900.

Alla vicenda dei figli dei figli di questi quattro primi cani soldato si intreccia la storia particolare di un russo, un killer soprannominato l’Arcivescovo, ricercato e braccato dalle mafie di diversi paesi. L’esistenza dell’uomo è fittamente legata a quella dei cani e la loro vita insieme è destinata ad essere stravolta da una giovanissima ragazza giapponese, figlia di un capo yakuza in visita a Mosca.

Belka è fitta di intrecci narrativi, sorprese e personaggi dalle indubbie doti. I cani, però, rimangono i fili conduttori di queste vicende. I protagonisti a quattro zampe saranno moltissimi e ci accompagneranno in un giro infinito intorno al mondo: Belka e Strelka (cani astronauti sovietici), Ice (una mamma selvatica), Sumer (pastore tedesco di immemore bellezza), Anubi (mezzo cane mezzo lupo), Guitar (un cucciolo dai sensi acuti), Good Night (cane navigatore) e tantissimi altri discendenti. I due umani della storia presenti nel romanzo sono: il vecchio, addestratore di cani d’elitè, ex dei servizi segreti russi, ora disertore e deciso a mettere a ferro e fuoco la scala gerarchica mafiosa della Russia. L’uomo dichiara guerra al capo yakuza e gli rapisce la figlia, una ragazzina dalla strana fisicità e i modi burberi tipici di un’adolescente. Sarà lei la vera e ultima chiave per il successo della straordinaria, e pazza, impresa dell’uomo. Soprannominata Belka, come la mitica cagnolina sovietica a cui il ricordo del vecchio è ancora molto legato, si affezionerà con empatia e indipendenza ai cani. Tutti rinchiusi in una vecchia città abbandonata della Siberia, la bambina e gli ultimi nati della grandiosa genealogia canina, diventeranno una cosa sola, pronti a conquistare il mondo.

Lo stile di Furukawa è molto particolare, non disdegna né ha timore di dilungarsi in ampi capitoli dedicati a spiegazioni e fatti storici. Il tutto, naturalmente, utile allo scopo di raccontarci cosa accade ai discendenti dei cani soldato delle Aleutine. Il linguaggio, come si addice agli ambienti che descrive, è crudo e grezzo, non lascia spazio all’immaginazione. I personaggi sono fittamente delineati e nelle loro vite non c’è spazio per buonismo, sorrisi di troppo o perdite di tempo. La scrittura di questo autore è diretta, veloce, analitica, molto descrittiva.

Kita non lo sa, ma un giovane uomo ha deciso di occuparsi di lui. Ha ventidue anni e appartiene al personale di terra dell’aviazione americana. E’ stato reclutato ne 1942. E’ un grande amante dei cani. L’aspetto di Kita, in particolare, ha destato la sua attenzione. Nella sua terra d’origine non ha mai visto cani di questa specie. Kita non è un esemplare delle razze nordiche che lui conosce, non è un samoiedo, né tanto meno un alaskan malamute. E’ la prima volta che si imbatte in un cane di razza giapponese. Orecchie dritte e coda attorcigliata come quelle di uno spitz. In particolare, i cani di razza Hokkaido sono dotati di coraggio e un’energia davvero formidabili, e non a caso sono utilizzati nella caccia all’orso. Si tratta di un animale decisamente fuori dal comune. Di che cane si tratterà mai?, si chiede il giovane soldato ogniqualvolta rende visita a Kita, due volte al giorno. 

The exception-L’amore oltre la guerra: un inno alla lotta contro il male

The exception- L’amore oltre la guerra è un film del 2016 di David Leveaux, un regista teatrale inglese al suo debutto nel mondo del cinema. Il cast della pellicola vanta Lily James nel ruolo di Mieke (già conosciuta per la versione di Cenerentola del 2015 e per il suo ruolo nella serie tv Downton Abbey), Jay Courtney nei panni del soldato Brandt (famoso per la saga di Divergent), Christopher Plummer (il capitano Von Trapp di Tutti insieme appassionatamente) e Janet McTeer (Insurgent, Io prima di te).

La trama comincia all’inizio della seconda guerra mondiale in Olanda. Il Kaiser Guglielmo II vive esiliato insieme alla moglie, Erminia di Reuss-Greisz, e va avanti grazie alla rendita concessagli dal Fuhrer. Il suo rapporto con il Terzo Reich è contraddittorio, deve appoggiarlo in pubblico, incentivato soprattutto dalla moglie, ma appena può esprime il suo sconcerto per ciò che la Germania è diventata sotto il potere di Hitler. Incaricato della sua protezione, ma ufficiosamente alla ricerca di spie inglesi infiltrate nel palazzo del Kaiser, è il soldato Stefan Brandt. L’uomo è reduce da una brutta ferita di guerra e da uno scontro in Polonia con un suo superiore che gli ha valso questo esilio forzato in Olanda, visto che Brandt non comprende le azioni delle SS, che non coincidono con l’etica militare che ha sempre seguito.

Mieke De Jong, una giovane ebrea olandese, cova in sé un odio profondo verso l’esercito nazista, che ha ucciso suo padre e suo marito, e accetta così un impiego da domestica a casa del Kaiser Guglielmo solo per poter avere contatti con i vertici e inviare informazioni in Inghilterra. La sua attività di spia non passa del tutto inosservata e dei sospetti cominciano ad arrivare al comando tedesco. Stefan Brandt nel frattempo inizia una relazione con Mieke senza sapere chi sia in realtà, ma anche scoperta la sua identità farà di tutto per aiutarla a fuggire e a mettersi in salvo. Stefan non è l’unico a subire il fascino della giovane ebrea, il Kaiser la prende così sotto la sua ala protettiva e aiuterà il soldato a nascondere Mieke e a farla passare indenne al posto di blocco tedesco.

The exception: un prodotto ibrido tra il dramma e il thriller

Il film The exception – L’amore oltre la guerra è tratto dal romanzo del 2003 The Kaiser’s Last Kiss, di Alan Judd, e si configura come un prodotto ibrido tra il dramma e il genere thriller. Getta uno sguardo sul passaggio di potere dalla monarchia al nazionalsocialismo, un addio ai governi del passato, alla vecchia aristocrazia e alla ricchezza per nascita, passaggio qui rappresentato da un’umiliante adulazione da parte dell’imperatrice Erminia nei confronti di Heinrich Himmler, considerato il braccio destro del Fuhrer. Il focus dell’azione è il rapporto tra il soldato tedesco Brandt e la giovane ebrea, emblema del potere dei sentimenti oltre la nazionalità, le convenzioni e gli ordini superiori. Alcune scene di nudo integrale possono risultare gratuite e inutili ai fini della storia, una crudezza eccessiva che nella trama è già rappresentata dall’alone di male che circonda i vertici nazisti. Il finale lascia uno spiraglio aperto, ma ha una sua spiegazione nell’incertezza della vita in tempo di guerra, una sequenza schizofrenica di variabili avrebbero reso poco credibile un epilogo diverso.

The exception-L’amore oltre la guerra rientra a pieno titolo nella serie di drammi di guerra ad alto tasso d’azione come The imitation game (2014) e Allied (2016).

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