Arti figurative, musicalità dei versi e richiami eterogenei nei misteriosi ‘Canti Orfici’ di Dino Campana

Storia vecchia come il mondo quella che associa i poeti ad una qualche forma di pazzia. Già Platone d’altronde era stato chiaro: un uomo è incapace di poetare o dare responsi se non è fuori di sé, invasato, finché la sua mente vacillante non c’è più. Dino Campana la fama del folle inizia a cucirsela addosso sin da giovanissimo con le azioni più che con l’inchiostro della penna: le fughe improvvise, il misterioso vagabondare tra i monti, i subitanei furori, la tormentata storia d’amore con Sibilla Aleramo, le minacce a Papini reo di aver perduto il suo prezioso manoscritto, tutti elementi che avrebbero presto portato a una precisa diagnosi e a una fatale condanna: schizofrenia, sia internato.

Il definitivo ricovero segna il punto di non ritorno: sul giovane poeta imbronciato di belle speranze cala un velo e lo stesso può dirsi per i suoi Canti Orfici, pubblicati dopo svariate peripezie soltanto nel 1914 e finanziati principalmente dalle sottoscrizioni dei pochi amici ed estimatori.
La critica si divide quasi immediatamente tra chi lo disprezza, da Papini fino a Saba che di lui dice che era matto e solo matto, e chi riesce, come Montale, a cogliere la novità di un’opera misteriosa e straniante, di un’arte tutta alienata dinanzi alle istituzioni letterarie, scriverà Sanguineti. Non c’è da stupirsi: sin dal titolo i Canti Orfici contengono un avvertimento. Se canti allude alla componente primigenia musicale della poesia, orfici, parola carica di misticismo, è sia un atto di fede che una restrizione del campo dei lettori: solo un’élite di iniziati come gli adepti del culto di Orfeo sarà capace di sciogliere il mistero, di leggere tra le righe, di apprezzare la grandezza dell’opera.

Dino Campana, da buon veggente, guarda al mondo che lo circonda con occhi diversi, coglie segrete corrispondenze, recepisce messaggi rivolti al suo io e li fissa sulla pagina. Di sicuro, in un periodo in cui si registra da più parti la crisi diffusa dei valori e delle forme con cui la letteratura ha fino ad allora saputo esprimersi, anch’egli tenta di percorrere nuove strade e lo fa con l’impeto del visionario. Nella sua esperienza unica e irripetibile il poeta toscano condensa la ricerca di un esclusivo e proficuo rapporto con le arti figurative, il lavoro sul ritmo e sulla musicalità del verso, la produzione di immagini e simboli disturbanti che strizzano l’occhio al mistero, le frequenti allusioni a qualcosa di inafferrabile, così vicino e così irrimediabilmente distante. Straordinariamente innovativo, il suo è un esperimento rischioso ed egli sa che può fallire, ma vi si dedica anima e corpo per l’intera vita, anzi, ne fa il senso ultimo della vita. Tutta colpa della follia?

Gli studi sui Canti Orfici, moltiplicatisi negli ultimi decenni e arricchiti dei contributi offerti da materiali inediti (ma raramente fuoriusciti dall’ambito accademico), ci restituiscono il ritratto di un autore estremamente lucido che compie scelte precise e consapevoli. I modelli da cui trarre ispirazione, sia a livello tecnico-formale che ideologico, sono tutti presenti nella raccolta, creano un amalgama eterogenea di richiami e reminiscenze che si moltiplicano e si compenetrano come in un complesso gioco di specchi. Si ritrovano allora i grandi maudits d’Oltralpe, in particolare Rimbaud, l’amato Whitman dal lento incedere al limite del prosastico, il Carducci classicheggiante intimo cantore di paesaggi, il Pascoli dell’allusività e del mistero, il D’Annunzio verlibrista passionale moltiplicatore di simboli e allegorie, il Dante della Commedia, sorta di fratello spirituale col suo pellegrinaggio dalle tenebre verso la luce, persino Nietzsche riecheggia in più punti.
E ancora, mentre viene celebrata la grandezza dell’arte rinascimentale (Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Durer e gli altri “divini primitivi”), oggetti e ambienti assumono le tonalità evocative dell’Espressionismo, le spigolose sfaccettature del Cubismo, la dinamicità futurista e il fascino onirico del Surrealismo. Perché nell’estasi del furore creativo Dino Campana non ha bisogno di distruggere la tradizione tout court, gli basta piuttosto selezionare gli autori, i pensatori, gli artisti che costituiscono la “sua” tradizione e nel loro solco inserirsi per proseguire la ricerca. Nelle sue scelte, anzi, egli si riserva di attingere a piene mani da ciò che più gli va a genio in ciascuno di loro e questo spiega anche alcune sospette contraddizioni fra dichiarazioni autoriali e prassi (si pensi, ad esempio, a quel D’Annunzio definito “Vate grammofono” la cui lezione è, però, imprescindibile o alla contestazione del Futurismo sul piano letterario in quanto “senza armonie”, ma di cui sono condivisi diversi assunti teorici).

Fedeli all’ideale di una poesia totalizzante in cui far confluire la cultura in blocco abbracciandone le più svariate manifestazioni, i Canti Orfici puntano ad essere un “libro-tutto” e risultano invece un “libro-limite”, nel senso che mostrano tutti i limiti di un progetto già intrapreso da altri (Mallarmé e Lucini) e votato per sua stessa natura al fallimento. Lo sforzo di Dino Campana è eroico, la chimera “pallida-esangue” che insegue di fatto inafferrabile, l’opera cui attende richiede dedizione e sacrificio, ma allo stesso tempo condanna all’isolamento e all’incomprensione di un ambiente culturale coevo aperto si allo sperimentalismo, eppure anche pronto a condannare ciò che non comprende appieno. Il poeta accetta allora con coraggio il suo destino, amaramente lo prevede, rinuncia alla lotta e lancia il j’accuse finale nell’epigrafe del libro:

They were all torn and cover’d with the boy’s blood.

Sono parole scelte con cura, versi, opportunamente rimaneggiati, tratti dalla celebre Song of Myself di Walt Whitman: erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo.
Il fanciullo è lui, Dino Campana, innocente come tutti i poeti, una vita in lotta con se stesso e con il mondo alla ricerca di un equilibrio precario sempre sull’orlo dell’abisso; gli aguzzini sono coloro che hanno ucciso l’uomo e l’artista, che gli hanno tappato la bocca, che più o meno coscientemente ci hanno restituito il ritratto a tinte fosche di un povero pazzo da porre ai margini, forse perché già al di là della loro portata.
I Canti Orfici, affascinanti, misteriosi, sfuggenti nella loro eterogeneità, restano l’esperienza poetica sublimata e il testamento spirituale di un autore ridotto troppo a lungo, ingiustamente, al silenzio. Li si definisca come si vuole, ma non il parto di un folle.

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro? (Da Crepuscolo mediterraneo)

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. (Da La notte)

Non so se tra rocce il tuo pallido Viso m’apparve, o sorriso Di lontananze ignote Fosti, la china eburnea Fronte fulgente o giovine Suora de la Gioconda: O delle primavere Spente, per i tuoi mitici pallori O Regina o Regina adolescente: Ma per il tuo ignoto poema Di voluttà e di dolore Musica fanciulla esangue, Segnato di linea di sangue Nel cerchio delle labbra sinuose, Regina de la melodia: Ma per il vergine capo Reclino, io poeta notturno Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, Io per il tuo dolce mistero Io per il tuo divenir taciturno. Non so se la fiamma pallida Fu dei capelli il vivente Segno del suo pallore, Non so se fu un dolce vapore, Dolce sul mio dolore, Sorriso di un volto notturno: Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti E l’immobilità dei firmamenti E i gonfi rivi che vanno piangenti E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. (Da La Chimera)

 

Sibilla Aleramo: la coscienza ‘femminista’ della poesia del ‘900

Sibilla Aleramo (nome d’arte di Rina Faccio) nacque il 14/08/1876 ad Alessandria, e trascorse la fanciullezza a Milano e l’adolescenza nelle Marche, presso un borgo marchigiano.

Negli anni lavorò come contabile nella fabbrica del padre, al quale fu sempre molto legata, ma quando la madre, soggetta a crisi depressive, tentò il suicidio, fu costretta a sostituirla nel governo della casa e a occuparsi di ogni responsabilità domestica, riuscendo sempre a scrivere racconti e articoli giornalistici.

Nel 1892 fu violentata da un impiegato della fabbrica paterna e costretta a sposarlo; dopo un aborto, dall’unione col seduttore nacque il figlio Walter.

Gli anni del suo matrimonio furono molto infelici, continuamente maltrattata dal marito che la sospettava di tradimento, finché nel 1896 tentò il suicidio.

Si riprese, nonostante le oppressioni del coniuge, e intensificò l’attività letteraria, scrivendo articoli di costume, sociologici e inerenti soprattutto alla questione femminile, e iniziando la stesura del suo primo romanzo, l’autobiografia “Una donna”, testimonianza esemplare della condizione femminile, uno dei primi libri femministi apparsi in Italia, che uscì nel 1906 e riscosse subito un grande successo.

Sibilla Aleramo denunciò la grettezza e il maschilismo provocatorio del suo tempo dove ipocrisia ed ignoranza la fanno da padrone, spingendo le donne a ribellarsi.

Nel 1902 abbandonò il marito e il figlio (che rivide solo dopo trent’anni, nonostante avesse a lungo lottato per ottenerne la custodia) e si trasferì a Roma, avviando, così, la ricostruzione della sua vita dedicandosi appassionatamente ad un’intensa produzione letteraria, in poesia ed in prosa, alle “Scuole dell’Agro Romano” per gli analfabeti, fondate insieme a Giovanni Cena, e approdando all’antifascismo e al comunismo.

Bella, intelligente, libera da schemi e pregiudizi, desiderata dagli uomini, Sibilla Aleramo ebbe molte e intense storie d’amore. Diceva: <<L’amore fu la ragione della mia esistenza e quella del mondo>>.

Ed infatti i suoi scritti traboccano di sensualità e passionalità, ma anche inquietudine, sussulto, come dimostrano le seguenti poesie:

GUARDO I MIEI OCCHI

Guardo i miei occhi cavi d’ombra

e i solchi sottili sulle mie tempie,

Guardo, e sei tu, mio povero stanco volto,

Così a lungo battuto dal tempo?

Mi grava l’ombra d’un occulto sogno.

Ah, che un ultimo fiore in me s’esprima!

Come un’opaca pietra

Non voglio morire fasciata di tenebra,

ma d’un tratto, dalla radice fonda,

alzare un canto alla ultima mia sera.

ROSE CALPESTAVA

Rose calpestava nel suo delirio e il corpo bianco che amava. Ad ogni lividura più mi prostravo, oh singhiozzo invano di creatura. Rose calpestava,  s’abbatteva il pugno e folle lo sputo sulla fronte che adorava. Feroce il suo male  più di tutto il mio martirio. Ma, or che son fuggita, ch’io muoia, muoia del suo male.

Sibilla Aleramo ebbe relazioni  con Cena, Papini, Cardarelli, Boccioni, Cascella, Boine, Campana, Quasimodo, Matacotta, ricordiamo che furono romantiche ed intense.

Una grande ma lacerante passione, di cui resta traccia nell’epistolario, fu quella che la legò al poeta Dino Campana, uomo difficile, scontroso, anticonformista, che cercava nella natura i valori dell’esistenza e che poi, afflitto da gravi disturbi psichici, fu internato in manicomio.

Il suo ultimo grande amore fu il poeta Franco Matacotta, lei sessantenne, lui ventenne; la loro relazione portò tutte le tensioni derivanti da questo rapporto complesso e difficile, in disparità anagrafica e differenza intellettuale, che pure durò dieci anni.

Sibilla Aleramo visse gli ultimi anni della sua vita lottando contro la povertà e la depressione, ma fino alla fine continuò a viaggiare, a incontrare amici e a scrivere. Morì a Roma il 13 gennaio del 1960

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