La casa editrice Pan di Lettere annuncia l’uscita di ‘Nell’Inferno’ di Arturo Onofri

Per la prima volta, grazie all’accurato lavoro della studiosa Magda Vigilante, sono stati editi i racconti raccolti nell’Archivio Arturo Onofri della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, i quali testimoniano una diversa attività di Arturo Onofri conosciuto come poeta la cui produzione risente, all’inizio, oltre che dei poeti francesi, di Pascoli e soprattutto di D’Annunzio, adottando modi d’un titanismo estetizzante, sfiorando anche il crepuscolarismo e le esperienze dei primi vociani.

Al tempo stesso Onofri recuperò le forme del linguaggio tradizionale per ricavarne significati religiosi, profondi e positivi, per affermare la forza della voce poetica, la sua capacità di entrare in contatto con i valori più autentici della natura e della storia.

Nell’Inferno di Onofri: un libro a tinte gotiche

Si tratta di tre racconti che risalgono a una fase molto giovanile dell’autore, nella quale è manifesta la sua adesione al Simbolismo e al Decadentismo. Nell’Inferno, dalle tinte gotiche, è il racconto più lungo, che dà il titolo alla raccolta.

“Un freddo intenso gli faceva battere i denti, insonne, si girava e rigirava nel letto, mentre ascoltava i lugubri rintocchi di un campanile vicino. In un attimo di tregua concesso da un breve sogno gli appariva un paesaggio idilliaco nel quale avrebbe voluto sostare per sempre. Era solo un’illusione, però, che svaniva nel risveglio angoscioso durante il quale s’udiva un rumore ossessivo, un misterioso respiro di cui non comprendeva la provenienza.”

La curatela di Magda Vigilante

Magda Vigilante è nata e vive a Roma. Laureata in Lettere alla Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha conseguito il dottorato in italianistica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È stata bibliotecaria presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Da anni dedica le sue ricerche ad autori italiani del Novecento. Ha curato i volumi: Arturo Onofri, Poesie e prose inedite (1920-1923), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, [1989]; Id., I quaderni di Positano, Pistoia, Via del Vento, 1999; Id., Arioso. Orchestrine, Lavis (Tn), La Finestra editrice, 2002. Ha pubblicato il volume: L’eremita di Roma. Vita e opere di Giorgio Vigolo, Roma, Fermenti, 2010. Di Giorgio Vigolo ha curato i volumi Lirismi. Scritti poetici giovanili (1912-1921), Roma, Edizioni della Cometa, 2003; Roma fantastica, Milano, Bompiani, 2013; Le notti romane Roma, Edilet, 2015.

Ha scritto la voce Giorgio Vigolo nell’antologia: Marco Albertazzi Marzio Pieri Gli invisibili. Antologia-Saggio del 900 Poetico, Lavis (Tn), La Finestra editrice, 2008. Ha curato di Gianna Manzini il volumetto Il merlo e altre prose, Pistoia, Via del Vento, 2005. Ha pubblicato il saggio La poesia di Onofri come immagine del Verbo in P. Gibellini, La Bibbia nella letteratura italiana, vol. II, L’età contemporanea, Brescia, Morcelliana, 2009. Suoi saggi critici sono stati pubblicati sulle riviste: «Studi novecenteschi», «Critica letteraria», Il 996, rivista del Centro Studi Belli, «Campi Immaginabili», Pagine, «Poeti e poesia» e sulla rivista on-line «Fili d’aquilone».

René Guénon, intellettuale atipico del nostro tempo, assertore dell’unità primordiale delle tradizioni

È proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta. È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.

“Il Mio cuore è divenuto capace di accogliere
 ogni forma,
è pascolo per le gazzelle,
un convento per i monaci cristiani,
è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino,
è le tavole della Torah,
è il libro sacro del Corano.
Io seguo la religione dell’amore,
quale mai sia la strada
che prende la sua carovana:
questo è mio credo e mia fede”.
Ibn l-Arabi, dal Tarjuman Al-Ashwaq

C’è una chiesa a Roma. Questa affermazione, priva all’apparenza di ogni funzione, essendo il numero di chiese presenti nella capitale d’Italia estremamente alto, serve a trasportarci in un luogo che può aiutarci a comprendere ciò di cui stiamo per parlare. Questa chiesa, sita in una traversa di via Labicana, alle spalle del Colosseo, è la Basilica di San Clemente.
Diversa da ogni altra, dimora dei frati predicatori, meglio conosciuti come Domenicani, la chiesa di San Clemente è composta da tre livelli. Il Primo, quello della basilica superiore, risale al XII secolo e si presenta oggi come un’affascinante commistione di stili, che si sono susseguiti dall’epoca della sua costruzione sino alle modifiche e alle ristrutturazione protrattesi fino al XVIII secolo. Un secondo livello, a cui si accede scendendo sottoterra, è costituito dalla Basilica antica, risalente probabilmente al IV secolo d.C. Anche il livello inferiore, forse unico nel suo genere e per questo ancor più suggestivo, ha subito aggiunte e modifiche nel tempo, arricchito da meravigliosi affreschi che narrano i miracoli e la storia del Santo. Ma c’è di più. Perché ad un livello ancora più basso rispetto alle due basiliche, permangono oggi i resti di una casa patrizia, in cui una zona era dedicata al culto di Mitra, divinità adorata sia nella cultura greco-romana sia in quella indo-persiana.

Guénon: grande esponente del “Tradizionalismo Integrale”

La tradizione cristiana, le sue radici e la sua evoluzione, e la tradizione pagana, rappresentata da una dea il cui culto ha travalicato le civiltà arrivando a Roma dalla lontana India, insieme in un unico complesso. Quasi unite da un filo impercettibile, le icone e i luoghi dei due culti sono ancora oggi coincidenti, uno sopra l’altro, intatti da più di 1500 anni come a simboleggiare un unicum inscindibile. Ecco, questa immagine forse, può dare l’idea dell’assunto principale su cui ruotano gli studi e gli scritti di uno degli intellettuali più atipici del nostro tempo: René Guénon.
Nato cattolico il 15 novembre 1886 a Blois in Francia, morì musulmano il 7 gennaio 1951 a il Cairo. Secondo i più smaliziati la causa della sua apostasia è da ricercare nel mancato successo delle sue idee in alcuni ambienti della intellighenzia cattolica. Una cosa è certa: non mancano detrattori al pensiero, a suo modo rivoluzionario, di René Guénon. Dal nostrano Umberto Eco – che assieme ad altri accademici rifiuta l’intero impianto del pensiero di Guénon – agli ambienti intellettuali cattolici contemporanei, che gli rimproverano, oltre all’affiliazione alla Massoneria Scozzese e a confraternite Sufi, una presunta scarsa considerazione della dottrina e della religione cristiana, nonché l’assunto principale del suo pensiero: la comune origine delle tradizioni particolari in un’unica e autentica tradizione primordiale.

La collaborazione a molte riviste degli ambienti più eterogenei, l’insegnamento in patria e nelle colonie hanno caratterizzato la vita di Guénon, sino al trasferimento a Il Cairo, in cui l’intellettuale francese continuerà a studiare e a scrivere sino alla morte, mantenendo rapporti epistolari con studiosi di tutto il mondo.
Ma più che la sua vita, ad essere d’estremo rilievo ed interesse, sono i suoi studi e il suo pensiero. Dal Taoismo all’origine dei numeri, dalla Cabala alla Divina Commedia di Dante sino all’Esoterismo Islamico, la materia di lavoro del “Great Sufi”- così soprannominato da Shri Ramana Maharshi, noto mistico Indiano –  è sconfinata. L’elemento centrale però, il perno intorno a cui questa ricerca perennemente ruota, è quello che abbiamo cercato di descrivere richiamando l’immagine della Basilica di San Clemente: l’unità primordiale delle Tradizioni. Tale concetto, di per sé oltremodo affascinante, è esplicato da Guénon in grandissima parte dei suoi scritti.
Ma quello che forse più di tutti riesce a darne l’immagine più definita in è il saggio Il Re del Mondo, comparso in Francia nel 1925.

Sull’onda di due testi: Mission de l’Inde di Saint Yves d’Alveydre e Bétes, Hommes et Dieux di Ferdinand Ossendoswki, relativi ad un antico centro iniziatico dell’Asia, situato in un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estendono in tutto il mondo: l’Agarttha. L’originale ed eclettico pensatore francese decise di scrivere un saggio in cui chiarì gli aspetti simbolici e la storia di questo centro; esponendo con chiarezza e scorrevolezza disarmanti tutti i collegamenti e i punti in comune che i caratteri chiave dell’Agarttha e del suo Capo, Il Brahmatma – il Re del mondo – presentavano con tutte le tradizioni. Dall’Ebraismo al Cristianesimo, passando per l’Islam siano alla leggenda del Graal e dei cavalieri della tavola rotonda, il quadro tracciato con estrema maestria dall’autore, si apre sempre di più al lettore capitolo per capitolo, disegnando una fitta trama di rimandi tra le varie tradizioni, tale da far porre degli interrogativi anche al più scettico tra gli uomini.

Ma l’Agarttha, l’inaccessibile centro di cui SainyYves e Ossendoswki parlano nei rispettivi testi, non è stato sempre nascosto. È lo stesso Ossendowski infatti ad indicare, come riporta lo stesso Guénon all’interno del saggio, che il centro è nascosto da circa seimila anni, data in cui si fa risalire l’inizio della nera età del ferro: il “Kali Yuga”.
Tramite il rimando al Kali yuga, definito dal pensatore tradizionalista come periodo di oscuramento e confusione,  si snoda l’aspra critica alla modernità che caratterizza la totalità dell’opera dell’autore.

È l’allontanamento dall’unità primordiale, dalla verità e dall’ “unica e vera conoscenza” ad essere per Guénon il tratto caratterizzante dell’età moderna, del Kali Yuga. Questa confusione comporta un continuo fraintendimento della realtà, dei simboli e della tradizione, tutti distorti sotto la lente del profano, delle moderne filosofie e delle  scienze contemporanee, che ,scollegate dai principi, a nulla possono portare se non ad accidentali e parziali verità.
In un articolo comparso sulla rivista “Voile D’Isis” nel 1935 : “Le arti e la loro concezione tradizionale”, contenuto in Italia nella raccolta Il Demiurgo e altri saggi, edita da Adelphi, Guénon si scaglia contro il concetto moderno di arte, ridotto al solo significato di “Belle arti”, rivendicando il più ampio valore del termine che ricomprendeva in sé anche i mestieri, e sottolineando come la perdita della funzione iniziatica di tali “arti” le abbia svuotate della loro funzione principale.

Nello stesso articolo Guénon esprime un’altra tagliente critica alla modernità e al suo approccio scientifico, denunciando che “ Il concetto di scienze strettamente specializzate e separate le une dalle altre è nettamente antitradizionale, in quanto rivela una mancanza di principio, ed è caratteristico dello spirito analitico, che ispira e regola le scienze profane, mentre ogni punto di vista tradizionale può solo essere essenzialmente sintetico”. L’iniziazione, è per lui – l’importanza che egli attribuisce a tale concetto è stato in parte criticato dallo stesso Julius Evola, il quale prediligeva l’approccio individuale rispetto all’affiliazione ad organizzazioni –  è un elemento ricorrente nella sua opera e nella  sua vita . Questi, come abbiamo già detto affiliato alla massoneria scozzese e  a confraternite Sufi, espresse un elitarismo reale e scevro da ogni ostacolo moraleggiante, affermando più volte come solo “pochi eletti” possano essere atti a ricevere la vera conoscenza. È cruciale il ruolo che Guénon affida ad alcune organizzazioni come i Templari e i Rosacroce nei suoi scritti, sottolineando come la dipartita di questi ultimi verso l’Asia abbia fatto cessare gli scambi spirituali e i contatti con i centri iniziatici tra Oriente e Occidente.

In un altro articolo comparso sulla rivista Études Traditionnelles nel 1940, intitolato “La Diffusione della Conoscenza e dello Spirito Moderno” egli – per usare un espressione semplicistica ma che plasticamente rende l’oggetto dell’argomentazione – critica la tensione della modernità di “sacrificare la qualità per la quantità”. Secondo lo scrittore francese  infatti “La diffusione sconsiderata di una istruzione che si pretende di impartire a tutti, attraverso forme e metodi identici, non può portare che a una sorta di livellamento verso il basso; qui come dappertutto nella nostra epoca la qualità è sacrificata alla quantità”.

Come altri prima di lui, l’intellettuale francese vedeva nell’Oriente, specificamente nell’India, un luogo in cui la spiritualità e  dunque una coscienza e una predisposizione maggiori verso la verità e la tradizione primordiale, si fossero conservate a differenza dell’Occidente, in cui sempre a sua detta non esistono nemmeno le parole per rendere ed esprimere alcuni concetti fondamentali.
Nonostante le critiche voltegli, come sopra riportato, da un certo ambiente cattolico, è proprio nel cristianesimo che Guénon riconosce l’unico reale ed effettivo collegamento tra l’Occidente e la tradizione primordiale, con i dovuti caratteri peculiari che ogni tradizione particolare presenta.
È una logica che oggi pare quasi assurda, e che, anche per i più ben disposti, risulta ardua da penetrare.
Quello che rimane, a prescindere dall’ efficacia delle tesi sostenute è la tenacia intellettuale, sono la difficoltà e la vastità degli argomenti trattati, la scorrevolezza dei testi che li rende accessibili anche ad un pubblico non specializzato, e ,soprattutto, lo sforzo titanico di chi non riconoscendosi nelle istanze del suo tempo le ha combattute con la più profonda conoscenza.
Al termine del saggio Il Re del Mondo, Guénon cita Jospeh De Maistre, pensatore francese del XIX secolo: ”Dobbiam tenerci pronti per un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale procediamo a velocità accelerata che deve colpire tutti gli osservatori. Temibili Oracoli annunciano già che i tempi sono giunti”; dicendo che tale frase è ancor più vera al suo tempo di quanto non lo fosse quando fu pronunciata. E chissà se questo tristo Vaticinio non sia ancor più vero oggi. Chissà.

Proponiamo, in conclusione, alcuni passi dall’opera di René Guénon su:

Il simbolismo
(da Considerazioni sulla via iniziatica): Il simbolismo è essenzialmente inerente a tutto quel che presenta un carattere tradizionale, è anche bello stesso tempo, uno dei tratti attraverso i quali le dottrine tradizionali, nel loro insieme (perché esso si applica contemporaneamente ai due ambiti esoterico ed essoterico) si distinguono a prima vista dal pensiero profano, al quale questo stesso simbolismo è del tutto estraneo, e questo necessariamente, per il fatto stesso che traduce propriamente qualcosa di “non umano” che non potrebbe per nulla esistere in un simile caso.
(da Simboli della Scienza sacra): Anzitutto, il simbolismo ci appare adatto in modo speciale alle esigenze della natura umana, che non è una natura puramente intellettuale, ma ha bisogno d’una base sensibile per elevarsi verso le sfere superiori.
….
Il simbolo è suscettibile di molteplici interpretazioni, in nessun modo contraddittorie, ma invece complementari le une colle altre e tutte parimenti vere, pur procedendo da differenti punti di vista. E’ sufficiente che i simboli siano mantenuti intatti perché siano sempre suscettibili di svegliare, in colui che ne è capace, tutte le concezioni di cui figurano la sintesi.

L’iniziazione
(da Considerazioni…): Iniziazione deriva da “initium” e questa parola significa propriamente “entrata” o “punto di partenza”: è l’entrata in una via che resta da percorrere, o meglio il punto di partenza di una nuova esistenza.
L’iniziazione, a qualsiasi grado, rappresenta per l’essere che l’ha ricevuta un’acquisizione, uno stato che, virtualmente ed effettivamente egli ha raggiunto una volta per sempre e che ormai nulla può togliergli.

Esoterismo
(da Considerazioni….): L’esoterismo è ben altra cosa che la religione, e non la parte “interiore” di una religione, anche quando ha la sua base ed un punto d’appoggio in questa, come succede in alcune forme tradizionali, ad esempio nell’islamismo.

Massoneria
(da Etudes Traditionnelles): I primi responsabili di questa deviazione, (la Massoneria moderna n.d.r.) a quanto sembra, sono i pastori protestanti Anderson e desaguliers che redassero le Costituzioni della Gran Loggia d’Inghilterra, pubblicate nel 1723 e che fecero scomparire tutti gli antichi documenti su cui poterono mettere le mani, perché non ci si accorgesse delle innovazioni che introducevano, e anche perché questi documenti contenevano delle formule che essi consideravano limitanti, come l’obbligo di fedeltà a Dio, alla Santa Chiesa e al Re, segno incontestabile della origine cattolica della Massoneria. I protestanti avevano preparato questo lavoro di deformazione mettendo a profitto i quindici anni che passarono tra il ritiro di Christophe Wren, ultimo Gran Maestro della Massoneria antica (1702, e la fondazione della nuova Grande Loggia d’Inghilterra (1717). Tuttavia, lasciarono sussistere il simbolismo, senza dubitare che questo, per chiunque lo capisse, testimoniava contro di essi con tanta eloquenza, quanto i testi scritti, che d’altro canto non erano riusciti a distruggere del tutto. Ecco, riassunto molto brevemente, quel che dovrebbero sapere tutti coloro che vogliono combattere efficacemente le tendenze dell’attuale Massoneria. C’è stata un’altra deviazione nei paesi latini, questa in senso antireligioso, ma è sulla “protestantizzazione” della Massoneria anglosassone, che bisogna insistere in primo luogo.

 

Fonti: http://www.granloggia.it/page/ren%C3%A9-guenon

http://www.lintellettualedissidente.it/homines/rene-guenon/

‘La terra desolata’, il poemetto polisematico e profetico di Eliot

La terra desolata viene scritta da Thomas Stearns Eliot (Mercoledì delle ceneri, Assassinio nella Cattedrale, Quattro quartetti) a Londra beglio anni tra il 1921 e 1922 e pubblicata sulla rivista <<The Criterion>> nell’ottobre del 1922. A questa pubblicazione ne segue una seconda in rivista e finalmente, nello stesso anno, la prima edizione in volume, a New York, con l’aggiunta di alcune note che mettono in luce soprattutto i riferimenti ad altri testi presenti nei versi. Il lungo poemetto, che appartiene alla prima stagione della poeisa di Eliot, ha al suo centro la crisi della società occidentale, ridotta, come vuole il titolo, a una “terra desolata”. Lo scrittore non ha ancora incontrato l’esperienza religiosa di una fede che porta la speranza della salvezza. I versi della Terra desolata portano con se tuttavia, molti più significati, rimandando a numerose possibilità di lettura. Lo stesso Eliot richiama per la sua poesia un mito celtico, secondo il quale il Re Pescatore ha perduto, per una ferita, la possibilità di generare e la stessa terra è diventata infeconda.

C’è dunque la necessità di una guarigione che viene affidata ad un eroe che può ridare fertilità. Il mito, che ha una variante in chiave religiosa cristiana, può essere letto come la rappresentazione di una società in crisi e dunque come la testimonianza di un bisogno di rigenerazione che Eliot reputava necessario.

Il poemetto si compone di cinque sezioni: La sepoltura dei morti, Una partita a scacchi, Il sermone del fuoco, la morte per acqua, Ciò che disse il tuono. In essi si può notare l’originalità della scrittura di Eliot, che, sotto l’influenza di Ezra Pound (a cui il poemetto è dedicato), moltiplica i richiami ad altri testi, con inserti di citazioni nascoste o evidenti, con contaminazioni di diversi miti, occidentali e orientali.

Eliot, tra Ezra Pound e Dante

Ne La terra desolata, Eliot afferma la sua lucida visione pessimistica della realtà, ritraendo la drammatica condizione della terra: alla caduta di ogni valore non corrispondono alternative possibili e la poesia non può fare altro che registrare la frantumazione e la desertificazione dell’umanità La tessitura stilistica dell’opera di Eliot risente dei poeti dell’età elisabettiana, dei “Metafisici” del Seicento e della poesia simbolista; ma il simbolismo di Eliot più che a quello ottocentesco, si rifà a quello medievale e i particolare alla Divina Commedia, indicata come modello da perseguire (e a Dante infatti Eliot ha dedicato studi critici e la monografia Dante). Distaccandosi in questo dall’amico Pound, Eliot propone, nel corso degli anni venti, il ritorno alla religione cristiana, vista come l’unica alternativa possibile alla desolazione del mondo: dopo la conversione all’anglicanesimo, il poeta americano affida ai propri versi un messaggio di speranza, che tuttavia non assume i toni di una a-problematica pacificazione. Dopo la prima guerra mondiale, la storia umana per Eliot è un cumulo di macerie non una marcia trionfale, ed è difficile riuscire a connettere qualcosa. Chissà cosa direbbe Eliot oggi, vedendo il nostro attuale Occidente magmatico, tenuto “unito” dal caos, dal materialismo che lo caratterizza e dalle contraddizioni che lo caratterizzano, arido spiritualmente che convive con la religione perché in fondo quest’ultima è innocua, non dà fastidio; sembra che faccia tenerezza.

Eliot invece è per una fede, una religione che non ammette compromessi, suggerendo la via del raccoglimento e dell’umiltà, la necessità di uscire dal “tempo quotidiano” per raggiungere una dimensione mistica: l’eternità che il grande poeta definisce in questi termini:

“Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo è occupazione da santo”.

Lo stile di Eliot: il metodo delle sovrapposizioni culturali

Sul piano formale, la poesia di Eliot suggerisce l’unione tra emozione e riflessione: nasce in questo contesto la poetica del <<correlativo oggettivo>> (che tanto influenzerà Eugenio Montale) secondo la quale occorre trasformare ogni emozione individuale in immagini oggettive valide per tutti. Il sentimento, l’intuizione personale vengono comunicati in forma simbolica, per il tramite di un oggetto al quale vengono assimilati.

Un’esemplare testimonianza della continua mescolanza di riferimenti culturali diversi che sta alla base de La terra desolata, si trova nell’ultima sezione, Ciò che disse il tuono, Essa si apre con la disperata visione di un deserto: forse gli uomini sono in attesa di una pioggia che non arriva; anche la speranza che può arrivare da Cristo è lontana, mentre gli uomini, in terra, stanno morendo. In questa sezione dunque il poeta prosegue il suo metodo delle sovrapposizioni culturali, avvalendosi di un ordine preciso di riferimenti che vanno da Dante al Vangelo di Luca, passando per il mito celtico e per un trattato indiano.

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati

dopo il gelido silenzio nei giardini

dopo l’agonia in luoghi di pietra

il clamore e il pianto

la prigione il palazzo e l’echeggiato schianto

del tuono primaverile sui monti lontani

colui che era vivo adesso è morto

noi che eravamo vivi stiamo morendo

adesso, con un po’ di pazienza

 

Qui non c’è acqua ma solo roccia

roccia e non acqua, e la strada di sabbia

la strada che si snoda lassù tra le montagne

montagne di roccia e niente acqua

se qui ci fosse acqua ci fermeremmo a bere

tra la roccia non ci si può fermare o pensare

il sudore è asciutto, i piedi nella sabbia

ci fosse almeno acqua tra la roccia

morta bocca di montagna con i denti cariati che non può sputare

qui non si può stare in piedi né sedere né giacere

non c’è neanche silenzio tra i monti

ma tuono secco sterile senza pioggia

non c’è neppure solitudine tra i monti

ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano

da soglie di case di fango screpolato

 

se ci fosse acqua

e niente roccia

se ci fosse roccia

e anche acqua

e acqua

una sorgente

una pozza fra la roccia

 

 [ … ]

 

In questa poesia viene evocata una situazione di disagio e di inquietudine in termini onirici, creando un’atmosfera da incubo. Eliot, nella seconda strofa, fa corrispondere lo stato d’animo dell’uomo con la desolazione del paesaggio (assenza di acqua=assenza di vita), insistendo sull’aridità del paesaggio mediante una serie di ripetizioni che creano un effetto di musicalità ossessiva.

Come gli esploratori in Antartide, gli uomini che si aggirano per il deserto desolato pensano di vedere accanto ai loro compagni una presenza misteriorsa (forse la morte). Il canto diventa più disperato e folle, il canto dell’Europa che sta per finire ; tutta la civiltà europea (simboleggiata dalle città  che hanno costituito i suoi punti di riferimento: Gerusalemme per la religione, Atene e Alessandria per la cultura classica, Vienna e Londra per quella moderna e contemporanea) sembra giunta al termine della sua storia.

Ma Eliot ci offre anche una rinascita, simboleggiata dal gallo con il suo gioioso canto, segno di una nuova alba, e dal vento umido che riporta la pioggia. La desolazione è ormai superata, il tuono (Dio?) parla e annuncia il suo messaggio di salvezza: dalle sue parole emergono i valori fondamentali della civiltà passata: altruismo, compassione, autocontrollo, sulla base dei quali rifondare una civiltà nuova. Accoglieremo un giorno il messaggio di Thomas Stearns Eliot?

 

Lo stoicismo etico di Eugenio Montale

<<Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni>>. Queste le parole che delineano la motivazione del Premio Nobel per la Letteratura, consegnato nel 1975 ad Eugenio Montale, poeta, giornalista, traduttore, critico musicale e scrittore, tra le colonne portanti del Novecento.

La concezione poetica di Montale appare disillusa, critica e realistica. Non a caso la sua raccolta principale è intitolata Ossi di seppia, ad esprimere la condizione di una vita “strozzata”, che non riesce a conoscere l’esistenza in senso pieno.

Montale non ha da offrire “illuminazioni” ungarettiane; non è portatore di verità assolute e la sua poesia non si prefigge lo scopo di garantire all’uomo la via unica, sicura ed infallibile verso la conoscenza di sé e del mondo. La poesia, per l’autore, può essere solo uno strumento di indagine e testimonianza, quello che rappresenta il tentativo più alto e dignitoso, di cui l’uomo può far sfoggio per affermare, al di là di quella che è la condizione dilaniante dell’esistenza (questa, una concezione influenzata anche dal terribile divenire storico del  ventesimo secolo), la comunicazione con altri esseri umani, la presa di coscienza della propria fragilità, incompiutezza, debolezza; è questa la consapevolezza, secondo Montale, che rende “ degno” l’uomo. L’essere umano, spogliato, messo a nudo da un’esistenza amara e soffocante, divenuto “osso”, si riscopre ancora uomo, ancora vita, nonostante tutto.

Montale dunque esalta lo stoicismo etico, la compostezza di chi, al di là dei dubbi, delle incertezze, degli ostacoli, delle nefandezze di cui è pregna l’esistenza, riesce comunque a compiere il proprio dovere, a conservare quel barlume di dignità, portando con una rassegnazione che sa più di coraggio, quel malessere del vivere, che è il “manifesto sociale” del Novecento.

Questa “lucidità” con la quale Montale ci racconta il mondo, in ambito poetico è traslata in un simbolismo denominato “correlativo oggettivo”, che dà vita ad una poesia profonda, piena, ricca, specchio dell’esistenza, dove l’inconoscibile dell’esistenza sembra palesarsi in superficie, ma ad ogni verso, lo riscopriamo sempre lì, in profondità, mai fino in fondo scopribile, conoscibile. Eppure, in quest’analisi attenta ed obiettiva della vita, anche Montale, in alcune liriche, si “mette a nudo”, permettendoci di penetrare quell’involucro di “critico”, per scorgere più a fondo il meraviglioso poeta e il suo animo sensibile. Ne è un esempio lampante la poesia Ho sceso, dandoti il braccio,dedicata alla moglie, che fa parte della raccolta Satura del 1971, dove il poeta ci parla d’amore, dell’amore coniugale, quello forte, profondo, che si costruisce tra le macerie, le difficoltà, le ostilità di una vita a volte, fin troppo ostica. Ma il romanticismo del Montale è sempre coerente con i principi della sua poetica. Egli infatti,  non ha bisogno di proiettare speranze, illusioni, mondi magici ed incantati per descrivere il legame che tiene unito i cuori dei due innamorati. Non ci parla di un amore che dissolve le difficoltà, di un mondo, quello dei due amanti, che si estranea dalla realtà.

Montale ci parla di un amore che si sublima nella realtà, che si suggella nelle difficoltà; è sempre l’esistenza, reale, schietta, lucida, cruda, il punto di riferimento costante della sua opera. Le scale infatti sono metafora della vita. L’atto di scenderle, metafora della fatica, della stanchezza di affrontarla ma anche della volontà, della dignità della quale si arma l’uomo, passo dopo passo, caricandosi sulle spalle quel malessere del vivere, che in questo caso, condiviso, diviene meno pesante.

E Mosca, sua moglie, così denominata per la sua miopia, diviene l’emblema della sensibilità, di colei che fa del suo punto debole, un proprio punto di forza. Non vede con gli occhi, ma con il cuore e diviene così un modello per il marito, perché riesce a leggere l’esistenza con quella profondità d’animo, di cui pochi sono dotati, superando il limite umano del non saper cogliere l’essenza dell’esistenza.

Montale, vivendo il lutto della perdita della moglie, si rende conto che quel braccio che le porgeva nella traversata della vita, era soltanto d’aiuto, da sostegno, ma il vero pilastro di quella traviata dell’esistenza, era la donna, era Mosca. E riscopre così che la miopia più invalidante è quella del cuore. Mosca aveva visto, aveva capito: l’essenza delle cose è oltre la realtà stessa, non si scorge, non si comprende, ma è lì, c’è ed esiste, e questa consapevolezza basta a far acquisire una visione della vita più piena, più profonda, più veritiera.

L’esempio della moglie rafforza il pensiero portante della poetica e di quello che poi diviene lo “stile di vita” dello stesso Montale: la realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità, insidie e delusioni, ma è qualcosa che va al di là delle apparenze e resta misterioso per l’uomo.

Dunque, il ruolo del poeta non è quello del profeta, bensì quello di testimone, e non potrebbe essere altrimenti. Montale, infatti, rifiuta l’idea che al mondo   vi siano delle leggi certe, immutabili, di cui si possa far portatore. Il poeta non può e non deve essere annunciatore di “fedi sicure”. Egli infatti afferma:

 

“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. (Non chiederci la parola, dalla raccolta Ossi di seppia)

 

Il poeta è uomo tra gli uomini; non offre mere  speranze, ma è proprio questa lucida razionalità il riscatto più grande per l’uomo stesso, ciò che gli permette di non soccombere in uno sconfinato pessimismo, ma di essere cosciente della propria condizione, della propria realtà, con onore. Mosca, coraggiosamente, aveva smesso di preoccuparsi, di arrancare, di rincorrere gli affanni di una vita menzognera. Le sue pupille malate, divengono ora, agli occhi del Montale, l’unica guida sicura, esempio da seguire. Il tema del “vedere” viene così spostato dal piano fisico, a quello metaforico, simbolico, grazie alla forza dell’amore.

Montale, dunque, come la moglie, non scappa dinanzi la vita, neanche ora che è affranto, dilaniato dal dolore della sua perdita ed è il “vuoto ad ogni gradino”; nonostante tutto, il suo “viaggio continua”. Il poeta, con straordinaria sensibilità artistica, servendosi della sua vena critica, ha tracciato un excursus sull’amore all’insegna della lucida e razionale osservazione dell’esistenza, creando un binomio perfetto tra mente e cuore, classicismo e modernità.

Montale ha vissuto un’epoca difficile, il Novecento, secolo ricco di inquietudini e malesseri, ma ha saputo rappresentarlo al meglio, non soffermandosi solo all’aspetto scontato del più generico pessimismo, ma scandagliando a fondo ogni sfaccettatura, mostrandoci come la consapevolezza del “male” sia, talvolta, l’unica salvezza, l’unica possibile rinascita.

Queste, le parole che possono essere considerate il manifesto poetico della sua intera opera:

“…Preferisco vivere in un’età che conosce le sue piaghe piuttosto che nella sterminata stagione in cui le piaghe erano coperte dalle bende dell’ipocrisia..”

Rassegnazione o coraggio?

 

 

Salvatore Quasimodo: un viaggio poetico tra mito e realtà

Salvatore Quasimodo nasce a Modica, in Sicilia, nel 1901, ma la sua vita è un continuo viaggiare tra le varie città d’Italia, dapprima con tutta la famiglia al seguito del padre capostazione, poi per alcuni anni (1919-26) a causa di condizioni economiche precarie che lo vedono impegnarsi in diverse attività professionali, ed infine per dedicarsi all’attività letteraria. Tra i tanti trasferimenti compiuti durante gli anni dell’infanzia ricordiamo quello nel febbraio del 1909,quando il padre del poeta  viene incaricato di riorganizzare il traffico ferroviario nella stazione di Messina che nel dicembre del 1908 è colpita da una devastante calamità naturale. Sono anni, questi, che segnano profondamente  il poeta e che sono rievocati in versi nella poesia “Al Padre”, contenuta nella raccolta “La terra impareggiabile”.

Il tema della natura, in cui Quasimodo si immerge interrogandosi e identificandosi con essa, scavando a fondo nelle sue sfumature segrete e inafferrabili, che sembrano radicate in un indecifrabile passato arcaico, è fondante nella sua arte poetica, è proprio a Messina che consegue il diploma ed inizia a collaborare con il “Nuovo giornale letterario” dove pubblica le sue prime poesie.  Si trasferisce a Roma, e qui pensa di continuare gli studi di ingegneria, ma a causa di precarie condizioni economiche deve impiegarsi in più umili attività. Nello stesso periodo inizia lo studio del greco e del latino, che saranno per lui fonti di grande ispirazione e da questo studio dedito e attento nasceranno i suoi lavori di traduttore tra il 1940-45. A Firenze è in contatto con l’ambiente di Solaria per le cui edizioni pubblica nel 1930 la sua prima raccolta intitolata “Acque e terre”. L’ ambiente della rivista si propone di creare un’attività culturale drammatica e umana proprio mentre l’Europa del fascismo e del nazismo preparano la loro opera di distruzione cancellando dalla storia del periodo ogni traccia di umanità. E l’obiettivo culturale e artistico della rivista influenzano il Quasimodo che quella “umanizzazione” va ricreando col suo talento letterario nelle sue opere, dove nelle prime raccolte, contenute nel volume del 1942 di “Ed è subito sera”, che comprende anche la serie di” Nuove poesie”, emerge un io lirico che pensoso si interroga sul paesaggio, sente “vivere e morire” in sé il mondo, dove la “dolce collina d’Ardenno” gli porta all’orecchio un “fremere di passi umani” e al paesaggio, primo fra tutti quello della sua città natale, la Sicilia, si sovrappongono richiami al mito e alla sua sacralità, che non a caso è la culla dell’umanità.

Nelle raccolte successive “Giorno dopo giorno” del 1946e tre anni dopo  “La vita non è sogno” il poeta è volto ad un colloquio più aperto con gli uomini, ad una maggiore attenzione per la realtà sociale; sente l’impegno , attraverso il “potere” sacro ed eterno della parola poetica , di ricostruire la calpestata dignità umana e contribuire a “rifare” l’uomo.  Ma nonostante ciò Quasimodo non tradisce la sua vena essenzialmente ermetica, la quale, non ha bisogno di eclissarsi per potersi conciliare al meglio  con il nuovo orizzonte neorealistico. Di questo ermetismo Quasimodo rappresenta una delle colonne portanti e la scelta di uno stile difficile, immerso nella ricerca dell’ analogia, in un’inquieta e intima esperienza interiore, rappresenta una risposta “alternativa” alle difficoltà della situazione storico-sociale presente. Dall’ermetismo il poeta apprende la ricerca della parola essenziale e suggestiva che gli consente di superare un puro autobiografismo di stampo romantico per leggere nella sua pena quella comune degli uomini ed in questo non fatichiamo a riconoscere l’affinità con l’altro grande esponente dell’ermetismo, Giuseppe Ungaretti.                                                                         

Dal 1934 è a Milano dove insegna e svolge  una varia attività di pubblicista, molto fruttuosa nel periodo del dopoguerra, quando si accosta a posizioni democratiche e di sinistra. La sua fama cresce notevolmente fino ad ottenere il premio Nobel per la letteratura nel 1959. Muore a Napoli nel 1968 e l’ultima raccolta “Dare e avere”  del 1966 rappresenta un bilancio che il poeta fa della propria esperienza umana e poetica, toccando tra le varie riflessioni emergenti dalle disparate esperienze di viaggio effettuate, anche la tematica della morte, a cui si accosta con accenti di notevole intensità lirica.                                     

La migliore poesia di Quasimodo appare intessuta di ricordi fissati nel paesaggio siciliano, paesaggio d’infanzia, e insieme, mito di una primitiva innocenza e perduta comunione con le cose, sembra  infatti rifarsi ad un’altra grande corrente culturale che si sviluppa in Francia nel diciannovesimo secolo: il Simbolismo. L’elemento fondamentale dell’arte simbolista, che riflettiamo nella poesia quasimodiana è che sotto la realtà apparente, si nasconda una realtà più profonda e misteriosa a cui si può attingere solo attraverso l’intuizione poetica. La figura retorica maggiormente utilizzata diviene allora  l’analogia, proprio perché si elabora un linguaggio nuovo, non più logico ma analogico, in quanto la parola poetica assume la capacità del far emergere  quelle segrete, misteriose, intime, oscure corrispondenze tra le cose, tra la natura e le emozioni del poeta. Si guardi al lessico volutamente indeterminativo : sostantivi astratti, quelli generici capaci di ammettere diversi significati, altri che indicano situazioni imprecisate in termini di concretezza.

In queste analogie, dove viene sprigionata una musicalità avvolgente e insistente , in questa trasfigurazione della natura, si avverte la vicinanza ad un altro importante modello, quello dannunziano.  Ma nel Quasimodo la ricerca dell’armonia con la natura, l’identificazione con essa, la rappresentazione di questa come un Eden in cui si rimpiange una perduta innocenza umana, non ancora corrotta dal male di vivere, si fa più tenue,  scarnifica e riduce all’essenziale quella passionalità prorompente tipica  di Gabriele D’Annunzio.  

 

                                                                                                                                                                                                                             

Dalla raccolta “Acque e terre” leggiamo il componimento “Specchio”, di cui , qui di seguito un passo:

“Ed ecco sul tronco/ si rompono le gemme:/ un verde più nuovo dell’ erba/ che il cuore riposa:/ il tronco pareva già morto,/ piegato sul botro. / E tutto mi sa di miracolo;/ e sono quell’ acqua di nube/ che oggi rispecchia nei fossi/ più azzurro il suo pezzo di cielo,/ quel verde che spacca la scorza/ che pure stanotte non c’ era”.

Constatiamo dunque come in questo componimento il poeta senta vivere e respirare in sé la natura, si identifichi con essa, fino a sentirsi parte rinascente della natura che germoglia in Primavera. C’è un panismo dilagante che porta il poeta ad essere “acqua di nube che oggi rispecchia nei fossi”, a identificarsi come parte di un tutto che alla luce della nuova stagione, così come la flora e la fauna tornano alla vita abbandonando il torpore dell’Inverno, allo stesso modo l’anima  abbandona l’inaridimento dovuto alle disillusioni della vita umana e rifiorisce, tornando a vivere e a sperare. Il tronco che pareva morto e torna alla vita è metafora di quanto detto.

Da Oboe sommerso”  del 1932 ricaviamo invece l’esempio più efficace dell’ermetismo quasimodiano:

 

“…Un oboe gelido risillaba

foglie perenni,

non mie e smemora….! ”                  

Ad una prima lettura del componimento la sensazione che ne riceviamo è una sorta di messaggio nascosto, criptato, di difficile comprensione. Abbiamo una serie di successioni foniche delle quali è complesso scorgere il reale significato. Affidiamoci allora al titolo : l’oboe, uno strumento non comune, il cui suono è sommerso. L’oboe strumento, si identifica e materializza metaforicamente nell’oboe poesia il cui suono sommerso diviene significato sommerso e nascosto, da riportare a galla.

Della raccolta “Giorno dopo giorno” è invece la lirica “l’uomo del mio tempo”:

“…Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue                                                                                                                                                                           salite dalla terra, dimenticate i padri…”

Scorgiamo già solo attraverso la lettura di questi due brevi versi, l’invito del poeta a “riplasmare” l’umanità, devastata, corrotta, depravata, “stuprata” dalla violenza, dal sangue, dalle guerre. “Dimenticate..”, grida il poeta, dimenticate la storia per riscrivere la storia, distruggete l’uomo per ricreare l’uomo, ripudiate i padri per essere nuovi padri.

Leggere Salvatore Quasimodo è come compiere “un viaggio” poetico tra passato e presente, tra antico e moderno, tra mito e realtà, tra anima e mondo, tra il detto e il non detto,  che attraverso un animo poetico che palpita, pulsa, vive nel tutto a cui attinge ,ci dimostra che la letteratura è vita nella quale immergersi per ritrovare quell’intima, segreta,innocente comunione con le cose del mondo.

 

Di Elvira Fornito.

Exit mobile version