Sulla solitudine, tra sociologia e letteratura del ‘900. Calvino, Pavese, Pasolini, Beckett, Weil, Camus

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire.

Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: “E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente”.

Solitudine: tra sociologia e letteratura

Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale,  si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come l’inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l’illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.

Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini.

Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel Mantovano e in provincia di Padova è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone.

Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell’antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. “Beata solitudo” dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i  giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer.

Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia,  ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l’io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L’amore innanzitutto,  poi l’amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione.

Amore e solitudine

Tuttavia oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: “Porci con le ali” (anni’70), “Altri libertini” (anni’80)  e “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” (anni’90).

Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l’università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni’ 90 in poi si avvertiva che l’unica cosa che accomunava la generazione era l’autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro di Isabella SantacroceRimini”, il primo della serie.

Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l’amore possono imbattersi nell’insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall’impersonalità e l’anaffettività.

Come è difficilissimo avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d’amorosi sensi. L’abbraccio è sconosciuto a molti. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un’iniezione.

I grandi mistici e pensatori

C’è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell’anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio.

Anche per Santa Teresa d’Avila l’auto-perfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione.

Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l’anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante.

Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch’essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l’isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull’interdipendenza degli individui.

Calvino, Pasolini, Beckett

In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest’ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un’ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente.

C’è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine,  come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni hanno espresso questa inadeguatezza.

La società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un’omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch’esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un’illusione effimera e momentanea.

Pavese, Bassani, Camus, Pascoli, Lolli

La propria identità sociale si basa sull’appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch’esso un modo per non sentirsi soli. Sartre ne “La nausea” ci comunica che il mondo, l’esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura personificata dall’autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest’ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione.

Thomas Bernhard ne “L’origine” tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L’unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l’orrore inenarrabile e inesprimibile del lager.

Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma fu proprio “la mania di solitudine”, che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Bassani tratta dell’emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne “Gli occhiali d’oro” determinata dall’omosessualità.

Ne “Lo straniero” di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all’assurdo, che sfugge alla nostra logica.

Anche Moravia portò tutto alle estreme conseguenze con il romanzo “1934″. Il protagonista, un intellettuale vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita.

Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Giuseppe Ungaretti scrisse sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale:

“Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia  con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”.

Pascoli si sentiva abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrisse: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è “un coltello sporco puntato alla gola”.  Si possono avere molte amicizie e l’amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c’è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Claudio Lolli, negli anni Settanta cantava questo brano sul suicidio:

 

“Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quante ore, quante ore che ho passato,

Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,

Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

 

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.

Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,

Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.

Quanto amore, quanto amore ho riversato.

Nelle cose più impensate e più banali,

Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

 

Le persone che ho fermato per la strada,

Sinceramente possono testimoniare,

Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,

Ieri, prima di essermi impiccato.

Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …”

 

 

 

Veronica Tomassini, autrice di ‘Vodka Siberiana’: un osceno viaggio metafisico ai confini dell’amore

Amare ci rende divini, sembra essere questo uno degli adagio che attraversano le pagine del mordente e schiettissimo romanzo epistolare Vodka siberiana, autopubblicato dalla scrittrice stessa, Veronica Tomassini, collaboratrice presso il Fatto Quotidiano, e autrice di opere pregevoli come Sangue di cane, Laurana 2010; Il polacco Maciej, Feltrinelli 2012; L’altro addio, Marsilio 2017; Mazzarrona, Miraggi 2019, candidato al Premio Strega), perché le case editrici nostrane sono troppo impegnate a pubblicare autori scialbi, standardizzati, politicamente corretti, e banali.

Vodka Siberiana è un viaggio metafisico nel male da cui scaturiscono l’amore e la compassione; un libro quasi insaziabile che abbraccia il trascendente, lo interroga, dove i personaggi naufragano per poi cogliere brandelli di infinito, alla maniera di Dostoevskij, non a caso tra gli scrittori che hanno maggiormente influenzato Veronica Tomassini. I personaggi di Vodka siberiana, sono attratti e al contempo respingono qualcosa che li chiama, incarnando ossessioni, vizi, debolezze, mostruosità che travolgono il lettore più esigente e sensibile, meno gli editori markettari.

Le lettere raccolte dalla Tomassini diventano un romanzo e raccontano la solitudine storica di un tempo, metà anni ’90, dopo la caduta del muro, il tempo finito nella Storia dei paesi dell’ex cortina. Dal disordine – ovvero l’avventata democrazia che piomba simile a un vento disturbante sopra l’elegia comunista oramai esangue, inchiodata finalmente al vero crimine – a quel caos la cui tragicità ha i contorni di una profezia biblica, nutrono generazioni di spostati, la cosiddetta torma di uomini ics. Vagabondi, travasati nel pingue e distratto Occidente, bevitori, portatori di lutti perenni. Oscenità da estinguere in un parco di una metropoli o di una modesta città di provincia, europea, italiana. Nello specifico, ovvero, nel mio romanzo, una città di provincia siciliana. Questa l’originale sinossi del romanzo della scrittrice siracusana.

Veronica Tomassini ci parla di amore, vero, ma di un amore che morte, tradisce, fa male. Di un amore immortale, che è divino, che ama l’altro prima ancora di conoscerlo e che deve passare prima tra i meandri dell’animo tenebroso per poi giungere alla constatazione che ciò che è davvero reale è l’invisibile e l’inverosimile. Bisogna vivere come se si abitasse un altro mondo, sembra suggerirci Veronica Tomassini, abbandonandosi al mistero, compreso quello dell’amore. Amare dunque è normale oppure no? Tutti parlano d’amore, confondendolo con la passione, con un sentimento che gratifica, smuove, fa sentire vivo. Ma l’amore, come dice l’autrice non è nemmeno un sentimento. Mentre si attende l’amore o lo si vive con fatica, bisogna accettare quello che ci sottrae la vita, incastonare la propria solitudine tra le gocce della pioggia che ci bagnano, traendo bagliori di luce e di speranza dal buio, come le grande mistiche.

In tal senso Veronica Tomassini è una mistica della scrittura, una testimone di fatti unici, oltre ad essere una scrittrice che ha un approccio cristiano alla vita e alla Storia: la sua penna è una spada con la quale affonda nella sofferenza umana per tentare di afferrare il mistero della vita che non sembra essere nefasto, nemmeno per i bevitori dei suoi romanzi immersi in un intreccio rovesciato, e in uno stile minimale, annebbiato, ma fulminante e lucido; si tratta di un realismo accompagnato da un piglio volutamente traballante e da atmosfere ed echi sacri quello della Tomassini, atto a raccontare gli emarginati dell’est che vagano verso il nulla. Figure di spicco sono un professore schizofrenico e una donna, voce narrante e alter ego della scrittrice, che narra dei miserabili slavi in un degrado senza tempo, perché sono le passioni e i desideri umani che hanno animato e animano la Storia non tanto la ragione che pure genera mostri e miseria prima di tutto ideologica ed intellettuale.

Tuttavia l’autrice conferisce dignità ai suoi slavi ubriachi, depositari del male che si riscattano infilzando metaforicamente la borghesia occidentale, le sue regole, la sua ipocrisia, i suoi interessi, il suo “buon” pensiero, le sue narrazioni epiche.

Risulta utile e calzante fare un riferimento alle parole di Dostoevskij nella lettera alla Fonvizina: «la verità si rende chiara nella disgrazia», la verità cioè si chiarisce nelle prove della vita. Veronica Tomassini sembra suggerire anche questo: scegliere Cristo e non una verità dimostrata, significa scegliere un incontro personale su questa via e non una dimostrazione logica, per quanto convincente. La verità non viene negata, ma ricollocata in modo diverso. È la persona che ci attira, non un argomento. D’altronde il Venerdì Santo, Gesù non saliva al cielo, ma scendeva agli inferi…

Non è un caso che, non considerata come giustamente dovrebbe, il romanzo d’esordio della Tomassini, Sangue di cane, è stato oggetto di studio, di un saggio (Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic, edito dalla Press University di Toronto, a cura di Stefania Lucamante), di corsi  e convegni, in diverse università americane.

 

La perfezione del dolore si sarebbe manifestata alla fine del tempo fissato per te e gli abitanti della casa costruita sulle maree. Una ciurma di sbandati con una sola aspirazione: disaffezionarsi alla vita. La vita, qualsiasi cosa volesse significare. Allora ti sembrava che fosse soltanto una questione di sottrazione, che la vita avanzava, togliendo. Nella forma più nobile, la vita sottrae. Il gesto divelto della prova. Riconsegna talvolta, anzi lo fa senz’altro, non quel che credevi, forse, o speravi. Ma è meglio, è peggio?

Veronica Tomasini

1 Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere nella vita?

Non ricordo, a essere sincera. O meglio ricordo un tema in quinta elementare, sul tempo che passa, non che fossi una cima. Riuscì bene. Non so, tirai fuori frasi strane per una bambina, un colpo di fortuna. Poi penso ai diari che mi regalavano ai compleanni, diari inutili e con il lucchetto. Regali deludenti, pensavo con stizza. Cominciai a scrivere così, roba infantile, niente di che. Però quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande – ecco questo lo ricordo, ma non so spiegare la ragione – rispondevo: la giornalista o la scrittrice. Non la ballerina, chessò, la cantante. La congiunzione mi fa specie oggi, cioè è quel che ho fatto veramente nella vita. Ma lo dicevo senza convinzione. E la congiunzione era una disgiuntiva, bizzarro. Comunque leggevo molto, mi raccontavano molte storie, il nonno e lo zio umbri. Quanto mi piaceva. A cinque anni sapevo leggere, anche se non avevo ancora iniziato la scuola, conoscevo l’inglese, le canzoni di Franco Califano e di Fabrizio De André. A otto anni ho letto il diario di Christiane Felscherinow, “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Lì è stata la deflagrazione, qualcosa di irreversibile. Oggi quel libro non supererebbe la decima pagina, un libro in qualche modo maledetto. Lo prestai a una compagna di liceo, non tornò più indietro. Scoprii il viso di Christiane molti anni dopo. A Christiane ho scritto una lettera. Da adulta. Mi ha letta. La compagna di liceo è morta in un incidente stradale. Mi sembrò un presagio. E pensai a quel libro.

2 Chi sono gli scrittori che hanno influenzato la sua scrittura e il suo pensiero?

I russi. Dostoevskij su tutti; Tolstoj, Gorki, Gogol, Cechov, ma anche Isaak Babel, Saul Bellow. Ai russi dobbiamo tutto, il pensiero russo. La grande letteratura è russa. Sì certo poi ho amato i naturalisti francesi, il neorealismo. Ho amato Pavese, Levi, Buzzati, Bonura, Pratolini. La letteratura americana del primo Novecento.

3 Cosa pensi dell’editoria italiana, come è stata la tua esperienza sotto questo punto di vista?

Difficile rispondere. Ho esordito ufficialmente nel 2010 con “Sangue di cane”, Laurana editore. Avevo però già pubblicato le cosiddette opere minori. L’esordio con “Sangue di cane” fu un caso letterario. Non so dire molto, sono povera in canna, malgrado l’exploit. Non so cosa dire dell’editoria italiana. Non è il mercato francese, ecco, se vogliamo buttarla lì. Il mercato francese che ancora tiene a distinguere l’aristocraticità della parola dal resto.

4 Cosa manca agli scrittori nostrani che però sembrano avere molto successo in termini di vendita? Come spiega certi fenomeni editoriali?

Non li spiego. L’imbonimento massificato, una specie di massive attack alla specificità elettiva di ognuno; il disorientamento indotto sottilmente, in gironi di fallibilità paurosi e che noi non vediamo, un’orchestra monotono che vuole confondere gli specchi, il bello con il brutto, la democratizzazione che diventa mediocrità, ma sempre dentro un’azione consapevole e utile a qualcos’altro, a un imbonimento appunto in pendant con buonismi vari. Siamo dentro la grande bruttezza. Siamo dentro un rincoglionimento collettivo utile ad atro, si forgiano non pensatori. Una “mariadefilippizzazione” estesa come unico manifesto su cui conformarsi. Questo è il meglio che abbiamo stasera? (cit.).

5 Veniamo al suo ultimo libro, Vodka Siberiana, come nasce questo titolo?

È un omaggio al bevitore, alla solitudine del bevitore. Il tributo all’empietà che diventa il fiore della compassione altrui e contiene salvezze recondite. Diceva Marek Hlasko che esiste una felicità grande e dolorosa; credo che si riferisse alla felicità del bevitore, nell’istante prima di crollare sotto lo sguardo sdegnato degli astanti, di solito di gran lunga migliori. “Vodka Siberiana” è la storia di una solitudine antica, ci riguarda tutti; ma io racconto i bevitori dell’est; vagabondi; malati di nostalgia.

6 Quali ritiene essere gli aspetti più attuali e quali invece quelli più classici del suo romanzo?

La solitudine dell’uomo. Il cardine attorno cui uno scrittore lavora, io penso.

7 Come si fa, quando si tocca il fondo, a risalire, a trovare parole adatte per chiamare le cose?

Si è sopravvissuti. Esserlo basta a tutto. Il dolore si trasforma, trasforma anche quel che guardi. Il dolore contiene la spiegazione segreta; piccoli brani da fissare; tenerli stretti al petto. La lucidità del dolore spalanca universi inauditi, apre gli oceani come il costato di una fiera.

8 È più abissale il dolore o la solitudine?

La solitudine. La solitudine senza Dio. La solitudine e basta. Ma senza Dio come si fa?

9 Nel suo libro racconta di un’umanità derelitta e disperata dove c’è spazio anche per la pietà. Bisogna vivere nonostante tutto, andare avanti come diceva Camus?

Andare avanti. Nonostante tutto. Nonostante tutto potrebbe diventare l’esortazione evangelica e cristica del non temere. Allora acquista un senso, il dolore lo è, alla fine e all’origine. Tutto inizia e finisce con il dolore se vogliamo: la nostra nascita, la nostra morte. E invece è solo un preludio: al risveglio, la Resurrezione. Malgrado ciò, non so davvero come “l’umanità derelitta e disperata” trovi umane forze per arrivare anche solo alla fine del giorno. Non so davvero. Tuttavia soltanto nei giorni in cui ho incontrato quel meraviglioso cesto di fiori che erano loro – i poveri, gli abietti, i disperati – ho imparato la felicità. Non ho mai vissuto di più. E non saprò mai tradurre quei giorni, solo il pensiero mi commuove. Ancora adesso mi chiedo: ma è esistito sul serio, tutto quel che hai visto, loro, quei giorni, quegli anni?

10 La razionalità può andare d’accordo con la poesia o quest’ultima reputa che sia troppo anarchica?

No, la razionalità è un deterrente.

11 Che visione ha della Storia?

La Storia è il segno di Dio sul destino di ognuno. Altrimenti è il caos di eventi che soffiano ferocemente sull’uomo senza annunciare. In definitiva si annuncia la stessa bella notizia, Il Figlio dell’Uomo. Anche alla fine di terrori, lustri di dittature e abomini.

12 Lei sonda il sottosuolo, ritiene come dice Rousseau nelle sue Confessioni che la malattia è inscritta fin dall’origine, ma che tale ferita, come sostiene Starobinski nel Rimedio nel male, mobiliti tutte le forze riparatrici? In questo processo secondo Lei conta di più la coscienza o il nostro livelli di civilizzazione?

Domanda complicata. Non so perché il mio sguardo finisca dove gli altri lo tolgono; dove per gli altri comincia il buio, per me inizia la luce. Non so spiegare la curiosità, la contingenza, il fatto che ci sia finita dentro. Sono solo una testimone.

13 Prossimi progetti?

Scrivere.

‘Il soccombente’ di Thomas Bernhard: quanto siamo responsabili della nostra felicità?

Il soccombente è il romanzo dello scrittore austriaco Thomas Bernhard celebre per le critiche mosse verso il suo Paese, che pone un quesito tanto semplice quanto spietato: siamo responsabili dei nostri fallimenti, della nostra infelicità?

Il soccombente, pubblicato del 1983, in Italia due anni dopo da Adelphi, è appunto il dipanarsi, attraverso un lungo, ininterrotto monologo interiore, di quei meccanismi psichici che predispongono l’uomo al fallimento, a essere un “soccombente”. La prosa di Bernhard per il lettore non avvezzo alla sua scrittura ossessiva, claustrofobica, fatta di continue, martellanti ripetizioni, di variazioni infinite dello stesso tema, è un pugno allo stomaco; ma questo estenuante flusso di coscienza si rivela anche la scelta più azzeccata per scavare nei pensieri dei suoi personaggi. Fortemente psicologica è la prosa di Bernhard, come psicologica è l’impostazione del romanzo.

Il romanzo si apre apparentemente a “conti fatti”, quando il narratore apprende la notizia della morte di un suo caro amico, il solitario e perennemente infelice Wertheimer. Il narratore attraverso un percorso a ritroso nella propria memoria, in un continuo giustapporsi tra presente e passato, indaga le ragioni del suicidio del suo amico, un suicidio, a detta dell’io narrante, lungamente premeditato e non un atto di repentina disperazione. Avventata semmai è stata la decisione di impiccarsi, per dispetto e vendetta, a pochi passi dalla casa della sorella che lo aveva abbandonato.

Tutto ha inizio a Salisburgo, quando tre giovani promettenti pianisti decidono di seguire il corso di un famoso maestro di musica. Uno di questi è Glenn Gould, genio indiscusso del virtuosismo pianistico. Ed è proprio l’innegabile genialità di Glenn Gould a segnare quello che per Wertheimer sarà “l’inizio della fine”, quella che l’io narrante chiama la “trappola mortale della sua vita”.

Non appena Wertheimer assiste alla magistrale esecuzione delle Variazioni di Goldberg di Bach a opera di Glenn Gould, rimane annichilito, schiacciato dalla consapevolezza di non poter eguagliare il talento del suo compagno e soccombe. Wertheimer, protagonista indiscusso del romanzo, è un uomo devastato fatalmente dalla propria invidia, dilaniato da una profonda insicurezza, mentre in teoria “padroneggiava ogni disagio della vita, ogni sconforto, ogni disperazione”, nella realtà era pieno d’infelicità, di disperazione, di amarezza. Personaggio che con tutte le sue meschinità, i suoi rancori, le sue debolezze pare uscito dal sottosuolo dostoevskiano, a partire dal rapporto morboso e possessivo che instaura con la sorella, sorella che vessa e tiranneggia per anni, impedendole di vivere una vita normale; sorella che alla fine riesce a fuggire dal suo dispotico fratello sposando un altro uomo.

Wertheimer era il tipico uomo da vicolo cieco, ogni volta che usciva da un vicolo cieco, entrava in un altro vicolo cieco. (…) la gente come lui non può far altro che scegliere tra un vicolo cieco e l’altro, senza mai potersi districare da questo meccanismo. Pur essendo in molte cose più fine e sensibile di me, finiva sempre per armarsi, fu questo il suo errore più grande, di sentimenti sbagliati. Voleva essere un artista, a lui non bastava essere l’artista della propria vita, benchè questo concetto racchiuda tutto ciò che può rendere felice qualsiasi persona lungimirante. Wertheimer insomma si era innamorato o addirittura era rimasto ammaliato dal proprio fallimento, pensai, e in questo fallimento si era incaponito fino alla fine.

Il tragico soggetto di Bernhard è vittima di quella che Freud chiamerebbe una perversa coazione a ripetere. Vive in uno stato di perenne solitudine, in una vecchia, tetra casa di campagna, una solitudine che va declinata nella sua accezione più negativa, solitudine che è innanzitutto un isolamento volontario, dettato dall’incapacità di relazionarsi con il resto del mondo, di comunicare con i suoi simili, di condividerne i piaceri. Ma anche Glenn Gould, apparentemente uomo di successo, vive come un recluso, in una casa immersa nei boschi del Canada, dove trascorre le sue giornate suonando ininterrottamente il suo amato strumento, preda di un invasamento artistico, di un’intensità quasi dionisiaca.

La solitudine, male dilagante della nostra epoca, è un tema ricorrente nell’opera Bernhardiana. Lo scrittore ha molti tratti in comune con il personaggio da lui creato, proprio come il nostro soccombente viveva in una solitaria casa di campagna nel bel mezzo del Lake District austriaco. Proverbiale era il suo amore per la solitudine, nota ai suoi contemporanei la sua malcelata misantropia, come evidenziavano due striminziti lettini volti a dissuadere dal pernottamento anche gli ospiti più tenaci e invadenti. Pare quasi che Bernhard, scavando nella mente del suo personaggio, ci offra un suo esasperato autoritratto, ritratto però, ed è questo il segno distintivo della buona arte, che funge da specchio in quanto Wertheimer è l’incarnazione dell’uomo malato, alienato e solo del XX secolo.

Non era riuscito a rassegnarsi al fatto di essere stato partorito in un mondo che in sostanza lo aveva sempre disgustato in tutto e per tutto. Poi era cresciuto e aveva creduto di poter uccidere in sé questo desiderio, pensava che esso a un tratto sarebbe svanito, invece questo desiderio era diventato di anno in anno più intenso. (…) Noi non perdoniamo al padre di averci fatti, alla madre di averci gettati nel mondo e alla sorella di essere la perpetua testimone della nostra infelicità. Esistere in sostanza non significa che questo: essere disperati.

Felicità e l’infelicità sono fenomeni dell’anima, la quale prova piacere o dispiacere a esistere a seconda che si senta o non si senta realizzata. La realizzazione di sé è dunque il fattore decisivo per la felicità. Ma per l’autorealizzazione occorre esercitare quella virtù capace di fruire di ciò che è ottenibile e desiderabile e di non desiderare ciò che è irraggiungibile.

Forse qualcuno obietterà che l’uomo non può, razionalmente e consciamente, con un mero sforzo della volontà, decidere quali sentimenti, quali emozioni provare, né si può scegliere il carattere che il destino, il caso, la genetica ci assegna. Ma in questo caso bisognerebbe anche scardinare quella grande invenzione che è l’idea di possedere un “libero arbitrio”. Ad ogni modo il romanzo di Bernhard se non dipana e non scioglie del tutto quest’amletico nodo, ci offre per lo meno, con tutta l’intensità dell’arte, uno specchio nel quale scorgere quei tratti del “soccombente” che sono in ognuno di noi.

 

Guendalina Middei

Sotirios Pastakas, autore della nuova raccolta poetica ‘Jorge’: “l’amore è diventato un lusso”

Ogni volta che qualcuno si chiede se questa vita abbia un senso, Jorge si lecca i baffi. Mentre il mondo corre e si affanna per sfuggire al “debito quotidiano”, Sotirios Pastakas – considerato da parte della critica come il più grande poeta greco vivente – guarda negli occhi il suo gatto Jorge e scopre un nuovo universo, più lento e meno violento.
Pastakas che in una vecchia raccolta scriveva: “Non mi lamento. / Mi è andata bene / nella vita: sono riuscito / ad acquistare un attico. / Finalmente posso piangere / con vista sul Partenone”, ha abbandonato il suo passato, la sua professione da psichiatra, e molte delle sue certezze.

Grazie alla collana Zeta de I Quaderni del Bardo Edizioni, curata da Nicola Vacca, Pastakas torna in Italia con la sua nuova raccolta intitolata appunto Jorge.

 

Lei scrive che nulla è reale per il suo gatto, ma cosa è reale per lei?

Il corpo. Questo bellissimo verso di Walt Whitman: “cosa sarebbe l’anima senza il corpo”, ha segnato la mia vita sia di psichiatra, sia di uomo. Non dimentichiamoci pure l’assioma di Fachinelli quando affermava che “il corpo è politico”.
Il corpo come produttore di pensieri, di sogni, di letteratura e, col suo permesso, di poesia. Non abbiamo altra ricchezza che il nostro corpo, l’unico nostro bene.

In diversi punti sembra esserci quasi un’identificazione fra lei e Jorge, il gatto protagonista dei suoi versi. Questa raccolta è anche una prova per guardare il mondo attraverso una nuova e insolita angolazione?

Ti sono grato per la tua rigorosa lettura di Jorge. Hai colto proprio il punto della “simbiosi” tra felino e umano. Abituato a mettere in pratica l’empatia nei miei rapporti con i pazienti, il mettersi continuamente nei panni dell’altro (un esercizio che mi ha bruciato come psichiatra), ho avvertito la necessità inconscia di guardare me stesso attraverso gli occhi del non-umano.

Naturalmente, tutto questo è venuto fuori a posteriori. Come sai, quando uno si mette a scrivere non sa mai dove andrà a parare. Il poemetto Jorge è stato scritto nello spazio di una settimana nel 2007, durante un mio viaggio in Cile, agli antipodi del mondo, nel mondo capovolto.

Nonostante i dialoghi con Jorge, si percepisce nella raccolta un sentimento di solitudine universale. Gli uomini fuori dalla finestra inconsapevolmente soli e lei dentro che avverte il silenzio di una tavola vuota. È d’accordo? 

Da Kafka, a Celan attraverso il massimo poeta del Novecento Samuel Beckett, e una miriade di poeti minori, sappiamo che l’unico modo di affrontare l’onere di chiamarsi uomo è quello di continuare a sperare. Sperare distruggendo. La distruzione dei punti di vista e la creazione di una nuova prospettiva li avverto come gli obblighi assoluti del poeta.

Teme che la traduzione in un’altra lingua possa tradire il senso e le sfumature della sua poesia?

Il rischio è ovvio. Saba diceva che la traduzione di una poesia è guardare e toccare una bellissima stoffa di velluto dalla parte della fodera. Nella lingua greca abbiamo l’esempio di Kavafis che viene tradotto e apprezzato in tutte le lingue del mondo.
Un segno di grandezza, come ha insegnato Borges, è quando l’opera sopravvive ai maltrattamenti di curatori e traduttori, come e successo a Don Chisciotte per almeno quattro secoli. Jorge arriva in doppia versione (inglese-italiano) e sono fiero di questa edizione.

Si può amare un animale allo stesso modo di una persona? E cos’è per lei l’amore, questa parola oggi così inflazionata?

Assolutamente no: non bisogna cadere nel patetico, gli animali sono animali. Prendersi cura di un altro essere, è una forma di amore. L’amore scarseggia perché nessuno vuol farsi carico di un altro essere. Nessuno si sacrifica più, e alle prime difficoltà si scompare. Dobbiamo ammettere che il sesso ha stravinto la sua partita con l’amore. L’uomo dei nostri giorni vuole fottere e basta. L’amore tra esseri umani è diventato un lusso in assoluto.

Si dice che i gatti abbiano sette vite, quante ne occorrerebbero all’uomo per trovare la felicità?

Bisognerebbe immigrare tutti negli Stati Uniti! L’unico paese che ha programmato la felicità nella sua costituzione, il famoso articolo 4, se non ricordo male. Una volta in America però, si scopre che il capitalismo ha fallito perché al posto della felicità proclamata per i suoi cittadini produce solo degli esseri infelici.
Come aveva già previsto Antonio Gramsci questa nostra civiltà ha fallito proprio perché non produce felicità. Bisogna reinventarsi da capo e essere felici, e non spendere sette vite in speranze.

 

https://www.tpi.it/2018/12/24/sotorios-pastakas-poesie-intervista/

 

‘Il grande Gatsby’ di F. S. Fitzgerald, una riflessione sulla propria generazione

Il celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerarld, Il grande Gatsby (titolo tradotto nel 1950 da Fernanda Pivano) ha accresciuto il suo successo anche grazie alle quattro versioni cinematografiche, specialmente quella di Coppola con Robert Redford e l’ultima di Luhrmann con Di Caprio. Un’opera sulla vacuità, sull’assenza dei veri valori, degli affetti autentici, sulla solitudine, sulla noia, sul dramma del mito americano.

Anni Venti. New York. Siamo nell’età del jazz, del proibizionismo, dei nuovi ricchi, della finanza, dell’emancipazione, dell’America che sta fondando il suo mito distruggendo tutti gli altri. La storia è quella di Jay Gatsby che vuole ad ogni costo riconquistare Daisy Fay ed ogni sua azione è tesa a quell’unico scopo: l’enorme casa comprata a West Egg (toponimo inventato da F. S. Fitzgerald per Long Island) sulla sponda opposta esattamente di fronte alla casa di Daisy, le lussuose feste, tutto per riconquistare la sua adorata  che nel frattempo ha sposato il ricco Tom Buchanan.
Oltre l’amore nel romanzo si indagano ben altri sentimenti, ben altre emozioni che dipingono e definiscono a pieno i personaggi dell’America che sta crescendo. La mancanza di affetti autentici, la solitudine, l’incomunicabilità e l’indifferenza. Alle sensazionali feste di Gatsby nessuno parla, nessuno si conosce, tutti sono entusiasti di incontrare gente sconosciuta; nessuno è interessato davvero all’altro, nessuno conosce davvero Gastby e nessuno sembra nemmeno interessato a conoscerlo. Il più solo di tutti è proprio Gatsby che non partecipa alle sue feste favolose ma è sempre solo tra la folla, scruta sperando di scorgere la sua Daisy.

La solitudine del protagonista è immensa quando lo si vede per la prima volta nell’ora del crepuscolo fermo sul prato della sua villa mentre guarda con occhi fissi la luce verde che si riflette sul pontile della casa di Daisy dall’altra parte della sponda. Ed è immensa il giorno del suo funerale quando delle centinaia di persone che partecipavano alle sue feste non resta nessuno. L’ampia indifferenza caratterizza tutti i personaggi, Daisy e Tom più di tutti.

Il senso di solitudine e di indifferenza supera lo sfarzo, il lusso e la felicità che sembra investire tutta la prima parte de Il grande Gatsby. Distruggendo tutti i miti si distruggono anche gli dèi. E se gli dèi non ci sono più tutto ciò che rimane sono gli occhi del dottor T. J. Eckleburg che si scorgono su un grande cartellone pubblicitario a metà strada tra New York e West Egg. Ed è così che si resta soli, soli nei propri pensieri sconfinati che alla fine non possono non fare paura.

Una riflessione sulla propria generazione, sulle sue debolezze e perversioni (il cui linguaggio ricorda quello usato da un altro grande scrittore statunitense, Henry James) che diventa analisi autobiografica per l’ex alcolizzato e playboy Fitzgerald il quale fa i conti con se stesso e ci regala una triste ma verissima morale: il passato non può ritornare e non ci resta che la nostalgia per i tempi che furono.
Gatsby è un personaggio destinato alla sconfitta, a cadere nel dimenticatoio, e sebbene faccia pienamente parte del mondo che lo circonda, appare inadeguato a viverlo. Ma forse è grande proprio per questo, egli vive solo per un sogno: Daisy. Il suo sogno così puro che sarà la sua condanna. Ma una condanna degna della sua vita fantastica, fanatica e smisurata. Solo il faro verde sembra sopravvivere, allo stesso tempo miraggio del nuovo e dell’illusione. La luce verde è la nostra più grande illusione, promette mentre graffia e distrugge. E infine credere nella luce verde ci fa continuare a «remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

 

Anna Maria Ortese, solitaria sacerdotessa della scrittura

La solitaria e “antipatica” (come si definiva lei stessa) Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 – Rapallo, 9 marzo 1998) è stata una scrittrice di rara sincerità, forse è proprio per questo suo modo di essere che, quando era in vita, era poco ascoltata, e oggi quasi per nulla ricordata. Il suo vivere deliberatamente in solitudine e il suo carattere riservato che non si sposava affatto con la mondanità sono da considerare soprattutto in riferimento all’insofferenza della Ortese per i circoli letterari, le apparizioni in pubblico, le promozioni editoriali e i salotti culturali.

Questi aspetti (spesso noiosi) che fanno parte della vita di uno scrittore in realtà contribuiscono in buona parte al successo di un’opera, intendendo però qualsiasi opera, anche non di qualità se pensiamo soprattutto ai successi improvvisi ed effimeri di alcuni “scrittori” che utilizzano selvaggiamente il  web per promuoversi, nonché alla mediocrità di certi eventi letterari. Anna Maria Ortese avrebbe mal sopportato tutto questo ma bisogna anche ammettere che molte volte il carattere di uno scrittore ha determinato anche se poco la buona o cattiva riuscita di un libro da un punto di vista commerciale. Farsi conoscere quanto più è possibile se si ha talento non è certo un male e accusare sempre l’ambiente culturale, gli addetti ai lavori e gli accademici di fare ostruzionismo non del tutto realistico, sebbene nel caso della Ortese ciò abbia un fondo di verità.

La scrittrice romana è stata osteggiata inizialmente da una platea maschile di letterati criticata a sia volta dalla Ortese in Il silenzio della ragione,e  poi costretta a chiedere  di usufruire della Legge Bacchelli per sopravvivere alla miseria, condizione che oltre ad umiliare la persona umilia la letteratura stessa. Ma la Ortese ha saputo lottare con dignità, ma non facendo la rivoluzionaria, bensì rinnovandosi, nella forma e nella sostanza, lasciando parlare al suo posto i propri libri che mettono a nudo l’anima della scrittrice, nonostante ella non abbia mai voluto piacere per l’immagine che la rappresentava.

Ma come si “palesa” l’anima di Anna Maria Ortese?Cosa ci dicono le parole contenute nei suoi libri? Prima di tutto si percepisce uno stretto legame con realtà, quella realtà con la quale la scrittrice era sempre stata in polemica, ma anche un desiderio di giungere al bene, all’amore e alla giustizia. In bilico tra realismo e surrealismo che ricorda il realismo magico di Garcia Marquèz e di Bontempelli (che tenne a battesimo la scrittrice), la Ortese si contraddistingue per un potente autobiografismo lirico mai influenzato da canoni ideologici e poetici, partendo dalle esperienze dolorose.

Prendiamo in esame il libro Poveri e semplici del 1967, un meraviglioso racconto  di atmosfera da bohème, che si muove tra l’esistenzialistica e comunistica, un racconto fatto di tanti nomi e luoghi che trovano riscontro nella realtà e precisamente nella città di Milano, dove si svolge la vicenda. Qui, persino le discussioni politiche appaiono incerte, scivolando in chiacchiere di svago, tale aspetto insieme a ai personaggi che appaiono  scompaiono non sembrando affatto figure determinanti del racconto, rende Poveri e semplici un libro di incanto, di invenzione che però non sfocia nel sogno.

Anna Maria Ortese trasporta la realtà in una dimensione tutta sua come dimostra già uno dei suoi primissimi romanzi Angelici dolori, opera che trasuda patetismo sentimentale e istintivo realismo.

In Il mare non bagna Napoli la scrittrice trova un felice compromesso tra realtà e fantasia fotografando la meravigliosa confusione di una città particolare ed unica come Napoli cogliendone le più disparate e differenti voci affidandosi ad un’ agile scrittura “giornalistica”, in L’iguana l’autrice si lascia andare ad una fantasia carica di simbolismo. Ma l’opera più significativa della Ortese è senza dubbio Il porto di Toledo, romanzo che si aggroviglia giocosamente su molteplici dimensioni spazio-temporali.

Minor fortuna hanno i romanzi Il cappello piumato (1979), Il treno russo (1983) e In sonno e in veglia (1987). Ma gli ultimi anni riservano delle belle sorprese alla scrittrice: Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996), hanno un ottimo riscontro sia di pubblico che di critica. Successivamente pubblica  testi poetici come La luna che trascorre. Tra le ultime pubblicazioni, appare la riedizione del secondo libro della scrittrice, L’infanta sepolta, e la ristampa di due racconti giovanili raccolti in Il monaciello di Napoli (2001). Nel 1997 finalmente la giuria del premio Campiello le assegna il meritato riconoscimento alla carriera.

Addio al premio Nobel Gabriel Garcia Màrquez

Si è spento ieri, giovedi 17 aprile nella sua casa di Città del Messico, lo scrittore colombiano premio Nobel  nel 1982 Gabriel Garcia Màrquez; aveva 87 anni. Nei giorni scorsi era stato ricoverato e dimesso, a causa  di una polmonite. Garcia Màrquez (Arataca, 6 marzo 1927- Città del Messico 17 aprile 2014)  è diventato celebre in tutto il mondo  grazie a “Cent’anni di solitudine” che ha venduto 50 milioni di copie ed è stato tradotto in  25 lingue.

Cent’anni di solitudine

“Scrivo e sono un uomo libero. Non devo farmela con nessuno, tantomeno con i soldi”; è una frase lapidaria e probabilmente un po’ ipocritia,quella pronunciata dallo scrittore sudamericano tra i più celebri al mondo,capace di saldare la tradizione letteraria e culturale europea (dominante) con quella latinoamericana e raccontando la realtà della sua Colombia. Non tutti saranno d’accordo sul “libero”, in quanto Màrquez da alcuni veniva considerato un cortigiano di Castro, un sostenitore delle torture e dei campi di concentramento comunisti, un privilegiato, un informatore della polizia del dittatore cubano. Qualora fosse vero a maggior ragione le parole poc’anzi citate suonerebbero ancora più lapidarie, ma in senso negativo, naturalmente, ma non essendo depositari della verità è meglio concentrarsi sui dati di fatto veri e dimostrabili che riguardano la figura letteraria ed umana di Màrquez attraverso sue dichiarazioni e soprattutto le sue opere.

Da tempo le condizioni di salute del grande romanziere si erano aggravate ed era stato ricoverato il 3 aprile all’ospedale di Città del Messico, ufficialmente per l’aggravarsi di una polmonite, ma si è parlato anche di un male più grave, mai confermato dalla famiglia, che lo ha portato via ieri nella sua casa di Città del Messico all’età di 87 anni. “Lo scrittore che ha cambiato la vita dei suoi lettori”, così lo ha ricordato il Presidente della Colombia Juan Manuel Santos aggiungendo che proclamerà tre giorni di lutto nazionale per colui che ha saputo raccontare il “realismo magico” del suo popolo, dando voce alla sua solitudine.

Vitale, simpatico, sornione, gioviale, Gabriel Garcia Màrquez, soprannominato “Gabo”, sembrava uscire da una delle sue storie fantasiose e leggendarie, che profumano di famiglia, che ci riportano a quando eravamo piccoli e ascoltavamo i racconti anche un pò bizzarri dei nostri nonni. Non amava commentare le sue amicizie, prima fra tutte quella molto criticata con Fidel Castro; ma, come ha ammesso lui stesso, Garcia Màrquez non è mai stato comunista, non ha mai studiato il marxismo, fatto di cui si vantano in molti, peccato che conta anche saper leggere e comprendere fino in fondo quello che si legge. Garcia Màrquez invece ha sempre ammesso candidamente che non ha mai studiato nulla, ha imparato dalla vita. Non aveva la spocchia culturale che contraddistingue diversi intellettuali che sbattono in faccia ai propri interlocutori la loro “formazione culturale”come se questo già bastasse a porli su un piano superiore, risultando anacronistici e disonesti intellettualmente. Lo scrittore colombiano era genuino, autentico, sincero,  troppo intelligente per non capire che la ricetta comunista non avrebbe mai avuto esiti positivi in Sudamerica.

Garcia Màrquez ha frequentato a Bogotà la facoltà di giurisprudenza, mentre   scriveva  su varie  riviste e pubblicava  i primi racconti, per poi approdare al giornalismo, chiamato a Cartagena per  lavorare a “El Universal”.  Nel 1954  torna nella capitale  per collaborare a “El Espectador” e l’anno seguente si reca in Europa, mentre esce il suo primo romanzo, ‘Foglie morte’

Gabriel-Garcia-Marquez

Il  viaggio in Italia risulta importante per lo scrittore che si innamora del nostro cinema e conosce  personaggi di spicco come Cesare Zavattini , Vittorio De Sica e Gillo Pontecorvo, è stato assistente di Blasetti sul set del film “Peccato sia una canaglia” e sceneggiatore di “Edipo re” di Pasolini. Per il regista del neorealismo recensisce il film/fiaba “Miracolo a Milano” che pare avere molte corrispondenze con le storie del romanziere colombiano.  Dal 1973 al 1975  abbandona  la letteratura in segno di protesta per la dittatura di Pinochet, tornerà a scrivere con “L’autunno del patriarca”.

Ma  il cinema non ha mai preso il posto della  scrittura nel cuore di Màrquez, che con il capolavoro “Cent’anni di solitudine” (1967) ha dimostrato che a volte, la letteratura può essere più potente della settima arte. Il romanzo narra la storia dei Buendía e della città fantastica di Macondo, simbolo di uno Stato libero e sinonimo di utopia, fondata dai capostipiti della famiglia, José Arcadio e Ursula Iguarán. Elementi provenienti dalla tradizione indigena e creola si mescolano con quelli di derivazione europea, magia e realismo, destino e solitudine della stirpe Buendía. “Cent’anni di solitudine” descrive l’irrazionalità dei tempi che si presenta quotidianamente e che caratterizzerà sempre le generazioni, la storia e le nostre vite. Secondo Màrquez all’interno di ogni famiglia non può mancare la magia e solo l’intuizione poetica può cogliere la realtà fantastica nascosta dietro quella immediata: i vivi e i morti sono legati tra loro da  un rapporto continuo. A tal proposito non sorprende che lo scrittore metta sullo stesso piano  i sogni e  i fatti storici con religioso fatalismo.

Cronaca di una morte annunciata

 Nel romanzo sono naturalmente presenti anche gli eventi della dolorosa  storia del Sudamerica: le lotte contro il potere colonialista statunitense, il conflitto tra il partito Conservatore e quello Liberale e le battaglie dei lavoratori contro le alleanze criminali tra militari e industrie senza tralasciare i cambiamenti tecnologici che stavano avvenendo in quegli anni. La scrittura del “Gabo”, narratore onnisciente, è scorrevole, caratterizzata da intrecci, digressioni, parole poetiche, non mancano riferimenti al simbolismo e al surrealismo kafkiano, che il romanziere fonde  con il lirismo mitologico tipicamente romantico.

“Cent’anni di solitudine” è diventato ormai un libro-mito (cosa che infastidiva il romanziere colombiano) ha dato a Màrquez la fama internazionale, ha ispirato ed influenzato molti  altri scrittori, ma sarebbe ingiusto ricordare Gabriel Garcia Màrquez solo per quest’opera. Cosa dire di “Cronaca di una morte annunciata”, “L’amore ai tempi del colera” oltre al giù citato “L’autunno del patriarca”? L’autore passa dall’ironia all’erotismo al drammatico con disinvoltura e con estrema sintesi, i preamboli non fanno per lui.

Cosa rimarrà di Gabriel Garcia Màrquez scrittore? La naturalezza con la quale ha raccontato eventi fantastici, come se fossero davvero parte del nostro quotidiano, spronandoci a captare, scoprire, coltivare questo aspetto, questo nostro lato infantile, e soprattutto a non diventare vittime della nostra stessa irruenza che appanna la nostra mente e il nostro spirito, non facendoci riconoscere e quindi combattere la solitudine e le ingiustizie che ci circondano.

 

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