‘È stata la mano di Dio’, il cinema necessario di Paolo Sorrentino tra reale e immaginario

Sguardo caldo e mano salda per condurti nei segreti di un’autobiografia, certo, ma anche alla fonte di un cinema sentito dalla prima all’ultima sequenza come necessario. Dunque non a caso Sorrentino costruisce “È stata la mano di Dio” su tre interruttori che danno luce a un affresco perfettamente bilanciato tra reale e immaginario: il mare che rappresenta il vero cielo di Napoli, il miracolo di Maradona e l’avvento di un mentore come il cineasta Antonio Capuano, autoctono per scelta di libertà, il più mansueto degli incazzosi, l’antidoto vivente contro la diffusione dello SPAIP.

Al centro del ritratto estroso e sarcastico della tranquilla vita medioborghese della famiglia Sorrentino alias Schisa, Fabietto, l’alter ego di Paolo, deve però affrontare, manco fosse un eroe omerico, un dolore pressoché insostenibile, un’assurda disgrazia forse destinata a funestare tutti gli anni a venire del già spaesato adolescente.

La scorrevolezza del ritmo, la sobrietà delle musiche, la duttilità della fotografia e la pertinenza di costumi e scenografie riescono a garantire sino al finale il coinvolgimento, però è logico che una cesura così tragica provochi un mutamento delle atmosfere e il connesso adeguamento del respiro e dei toni del film. È pertanto alquanto strano che qualche recensore e qualche spettatore imputino a un film che assomiglia pour cause a un percorso marino contrassegnato dalle sue anse, le sue coste, i suoi approdi e i suoi abissi, l’affievolimento di una presunta “seconda parte”: la quale esiste, ovviamente, sul piano drammaturgico, ma non opera ribaltamenti su quello stilistico.

In un contesto polifonico i contributi degli interpreti non si dovrebbero neanche suddividere, ma il cinema di Sorrentino è spontaneamente generoso, non genera macchiette bensì caratteri, finge la verosimiglianza attaccandovi sempre di sguincio il cartellino del fantastico: Servillo è come al solito impressionante per come è in grado di modellare con cronometrici tocchi l’affabilità cameratesca del pater familias; Teresa Saponangelo, eccezionale in doppia modalità perché recita per il personaggio ma contemporaneamente per come (ri)vive nell’amore del figlio; Luisa Ranieri, oltre che fenomeno da studiare nei convegni di genetica (diventa sempre più bella col passare degli anni), molto concentrata in sequenze nient’affatto facili e via via tutti gli altri, dal Fabietto di Scotti al fratello di Joubert, dal Franco di Gallo al Capuano di Capano, dall’Alfredo di Carpentieri alla Pedrazzi nel ruolo dell’impagabile baronessa: vedere per credere come un episodio estremamente spinto si trasformi in una pagina squisita di cinema, dove, cioè, l’arredamento gremito di polveroso e smorto lusso (non manca la riproduzione in bronzo del pescatorello di Gemito), le movenze da lady Frankenstein della stessa, i suoi comandi da navigatrice esperta nell’atto sconosciuto dell’amplesso fanno davvero percepire in sala il fatidico “odore delle case dei vecchi” che è una delle battute ereditate dai dialoghi sorrentiniani d’eccellenza.

Tra i tanti e straripanti omaggi dedicati al calciatore argentino che volle farsi re, riannodati a un’età d’oro che ha preso la forma di una nuvola di fuoco piazzata sul cono del Vesuvio, quello di Sorrentino è certo il più commovente: niente analisi tecniche o risse da talk show, bensì un’esplosione incontenibile d’ebbrezza popolare, l’orgia della devozione al culto più puro, quello del talento e all’obiettivo finale più nobile, quello della leggenda.

Gol “falso” e gol vero (inestimabili entrambi), cosa importa? La grande bellezza al servizio della nostra condizione di voyeurs assomiglia a quella del cinema, falsa/vera per definizione, magari la stessa del capodopera “C’era una volta in America” che il protagonista cerca ogni volta invano di godersi in cassetta VHS.

L’identico meccanismo che genera l’apparizione del munaciello (ovviamente anch’esso falso/vero) inseguito dal narratore a Marechiaro nei tunnel allagati tra le rovine classiche e gli scogli, ricevendone in premio una sorta di breviario esistenziale: Capuano e la perseveranza, Capuano e la libertà, Capuano e l’indignazione, Capuano che affronta a brutto muso l’adepto… “O tiene ‘nu poco e curaggio?”. Succede proprio così: il coraggio -in questo film universale nonostante o forse a causa delle metafore ossessive e i miti personali- l’acquisisce in extremis proprio l’autore infischiandosene delle pennellate potenzialmente (politicamente) scorrette su donne, desiderio e sesso e cercando sempre e solo di non disunirsi come recita l’ultimo strillo del mentore prima di tuffarsi in mare aperto.

Sì, il mare. Perché la realtà sarà pure scadente ma non lo è il karma di Paolo/Fabietto ricalcato sul capitano della conradiana “Linea d’ombra”, quella che separa la giovinezza dall’ingresso nella maturità e la catartica coscienza di sé.

 

E’ STATA LA MANO DI DIO

 

‘Per le vie del Paradiso’, l’esordio cinematografico di Giuseppe Gimmi. Una dichiarazione d’amore al cinema di Fellini e Sorrentino

Giuseppe Gimmi ha 24 anni ed è di Fasano. L’anno scorso ha frequentato un corso di sceneggiatura presso lo “Spazio tempo” di Bari. La trama del film è la seguente.

Per le vie del Paradiso è la storia di un ragazzo pugliese nelle campagne degli anni settanta. Il ventenne Tonino Bianco è un contadino alle prese con il duro mestiere della terra. Una mattina Tonino si reca in una chiesa del territorio e mentre a passo lento si avvicina verso una tela, viene catapultato in una realtà diversa, simile al mondo dei sogni, dove immagina, di abbracciare attraverso un ricordo suo padre Tommaso, scomparso per una grave malattia.

Il chiacchiericcio sovrastante del popolo però si rivela come punto cardine nella vita di Tonino disorientando i suoi pensieri. Non si tratta di una mise en abyme, ma di una vera apertura al sogno che ricorda Ermanno Olmi (si pensi soprattutto a “Il segreto del bosco vecchio) e Fellini (si pensi a La voce della luna”).

La sorpresa positiva è che la sceneggiatura del film è di Gimmi. Non c’è nessuna trasposizione. Non ci sono alle spalle il romanzo di Buzzati, né il poema di Cavazzoni. È cinema di alta qualità. Da un lato abbiamo la capacità di sognare del protagonista e dall’altro invece la chiacchera impersonale heideggeriana  della gente.

Heidegger in “Essere e tempo” scriveva che l’inautenticità della vita contemporanea è data dalla chiacchiera impersonale, dalla curiosità, dall’equivoco. Nel film il sogno si staglia sull’inautenticità. La via maestra è segnata. È soltanto riappropriandosi dei sogni che si può vivere veramente, soltanto sapendo mischiare realtà e finzione, quotidianità e sogno a costo anche di non saper più distinguere il reale dal sogno.

Bisogna saper tenere i piedi per terra, saper rimanere ancorati per buona parte del tempo, ma talvolta bisogna anche saperli staccare, sapersi innalzare verso il cielo come nei racconti di fantasia di Gogol. Ci sono due modi opposti  di essere provinciali: 1) quello di approfondire le cose e di riuscire a guardarle in modo completamente nuovo. Ogni Recanati ha il suo piccolo Leopardi. Il provinciale in questione è un isolato che ha sete di conoscenza. Questo è un modo difficile e costruttivo di essere provinciale. 2) non discostarsi assolutamente dal conformismo e dalla mentalità comune del paese.

Questi sono i due poli opposti e Per le vie del Paradiso si gioca anche su questo discrimine. Da un lato avremo il chiacchiericcio che sfocia nel pettegolezzo maligno e dall’altro l’oggetto della calunnia.

La provincia mostra il suo lato terrificante quando l’ignoranza ha la meglio e rivela la sua vera essenza quando la solitudine sfocia nel talento, come in questo caso. Sullo sfondo una Puglia bellissima. Il film è ambientato negli anni settanta forse per prendere maggiormente le distanze, forse perché la vita è come una immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti.

Ciò che più colpisce è la visionarietà. Ma la cosa più importante è l’inafferrabilità del sogno. Qui il sogno è un mondo altro in cui può avvenire la comunione dei vivi e dei morti ma solo per poco. Non è facile lavorare con la materia onirica perché bisogna sapere far tesoro dei sogni o saperli creare dei sogni, saperli plasmare, saperli interpretare, saperli ricordare.

Ma Gimmi non si rifà a Freud, non lo cita  a sproposito. Ha la lungimiranza di guardare oltre. Uno dei suoi maestri è Sorrentino ed è sulla sua buona strada, ma il suo incedere è autonomo. Dimostra già una sua personalità, una sua maturità ed una sua originalità. Il film è qualcosa di unico nel suo genere. Tutto ciò è encomiabile.

L’Italia ha bisogno di creatività giovanile. Ha bisogno anche di giovani che sappiano rimanere a raccontare le bellezze e i paradossi della penisola, pur convivendo tra mille difficoltà. La visionarietà è un modo per gettare il cuore oltre l’ostacolo, per superare le contraddizioni insanabili del paese. Gimmi si dimostra un nuovo cavaliere del secchio del cinema, tra le difficoltà riesce a volare come il protagonista del racconto di Kafka.

(20) Per le vie del paradiso – Trailer – YouTube

 

Davide Morelli

“Loro 2” di Sorrentino: Ecce Homo

Forse è il caso di ringraziare i film di Paolo Sorrentino perché ogni volta risvegliano gli ardori non solo di tanti spettatori sonnacchiosi, ma anche delle persone che al cinema non ci vanno mai e di Bigelow o Nolan non sanno dire se siano musicisti o calciatori. Qualcuno potrà certo maledire gli zeli modaioli, ma diverte, invece, il fatto che il conoscente inaspettato o il vicino di treno s’improvvisino cinéfili; anche se poi tali esternazioni servono a poco perché il giudizio è quasi sempre espresso negli estremi anchilosati di ottimo o pessimo. Finendo, così, per fare contento il maestro sempre più convinto del paradosso preferito, ossia che hanno tutti ragione e la sfumatura è l’unica discriminante che conta e gli interessa. (“Pas la Couleur. Rienque de la nuance!”, Paul Verlaine). Come si era concluso il primo capitolo di Loro? Con l’epifania di Fabio Concato che sbuca sul prato di villa Certosa intonando la canzone del cuore della coppia scoppiata Silvio & Veronica: smarcatosi con uno dei suoi tipici dribbling autoriali dall’overdose di baccanali, il regista riusciva, così, a prendere ancora una volta in contropiede il controllo ideologico della storia e la leggenda del Grande Seduttore. Il secondo capitolo aumenta la pressione politica, dando a lungo l’impressione di volere correggere il tiro e dare un po’ di soddisfazione all’antiberlusconismo militante disorientato dal carnevale no-stop di sesso, droga e zingarate: prima allestendo lo show virtuosistico di Servillo/Silvio che, dopo avere dialogato con il proprio doppio, s’esibisce nel ruolo primigenio del venditore irresistibile, il rateizzatore dei sogni del minimo comun risparmiatore, il mini Citizen Kane di Milano 2; poi tornando a concedere allo stesso il ruolo del cantante piacione, l’intrattenitore irresistibile che ammalia la fauna dei applauditori pronti peraltro a trasformarsi in sicofanti o traditori a seconda della circostanza, metaforici serpenti danteschi che a un certo punto costringono il segretario tuttofare Paolo a decapitarne uno vero strisciante in primo piano.

Ma via via che il trattato visionario/antropologico Loro 2 procede, il piglio nuovamente svaria, si stempera, si sfrangia e Sorrentino torna a fare capolino appena può da un angolino dell’inquadratura per strizzare l’occhio allo spettatore e fare boccacce ai recensori: per fare solo un esempio, il languido trasporto per la Napoli canzonettistica e ruffiana provato da Silvio trasmutato in Old Pope non può che evocare dalle nostre parti la nota e non meno retorica solfa della città ribelle nel segno dell’”ammore”, quando si reca al compleanno della neo-diciottenne Noemi Letizia. Quando poi riprendono le feste più scatenate che eleganti in Costa Smeralda, alternate alle sfolgoranti coreografie kitsch sulle note di “Meno male che Silvio c’è”, al Cavaliere tocca organizzare il contrattacco contro le requisitorie in stile grillino-giustizialista che la sceneggiatura mette in bocca alla vigorosa e convincente performance di Elena Sofia Ricci/Veronica Lario. I risultati, come piace a Sorrentino, ma certo non a tutti i suoi spettatori, saranno volutamente contraddittori: sul piano storico la sinistra non riesce mai a “metterlo a fuoco” pensando che sia troppo complesso, ma la nascita delle sue fortune resta avvolta nel mistero; la virginale escort che dovrebbe concederglisi lo smonta con un pragmatismo scevro di moralistica acredine (“Io ho 20 anni e lei 70, è patetico quando fa il giovane. Lei è triste e con la tristezza non si costruisce niente, neanche una sc…..a”); i veri o falsi scoop che non danno tregua a Berlusconi sembrano generati dagli stereotipi epidermici seppur allegri ed accattivanti della commedia erotica all’italiana. Sino ad arrivare al finalissimo debitamente e apparentemente enigmatico: la quadratura del cerchio del resto, il lieto fine con messaggio incorporato non è previsto in nessun caso dal metodo sorrentiniano tutto fondato sul tentativo di smascheramento del falso ordine in cui il mondo si spiega davanti ai nostri occhi e la presa d’atto di un’ormai integrale desacralizzazione dei rapporti societari. Loro 2 è un film convulso e intenzionalmente discontinuo, a metà tra dramma e parodia del dramma, dove il regista sembra a tratti disinteressarsi dei destini dei suoi personaggi, mostrandoci le dinamiche del potere e come esso produca al contempo opportunismo, innamoramento, fascino, carisma malinconia.

Emblematica, seducente e di cocteauiana memoria (La voce umana) la scena che ci fa vedere un Silvio innamorato che cerca disperatamente la voce dell’altro, che è anche l’Italia stessa, “il paese che ama” e che ora sembra non ascoltarlo più, ovvero una spettatrice, una cliente, un’elettrice ideale da imbonire, una donna, tanto per cambiare. E poi il dialogo è un confronto tra Silvio, l’attore che vuole farsi amare solo per il bisogno della conquista, e Augusto Pallotta, il personaggio che crea sul momento per non farsi riconoscere. E, ancora, una gara tra Servillo che interpreta il milanese Berlusconi il quale, a poco a poco, comincia a parlare nel napoletano tanto caro a Servillo, senza un’apparente ragione che non sia la vocazione allo sdoppiamento di Loro, di lui, di Sorrentino.

Prendere o lasciare. Loro 2, come Loro 1 e tutta la filmografia sorrentiniana divide. La fotografia magnifica, i movimenti di macchina più eloquenti degli acuti e profetici dialoghi, giochi di luci ed ombre, la performance di Servillo che con la propria bravura esorcizza la caricatura contano sino a un certo punto. Tanto, come ribadiscono il lungo e accorato colloquio con Pagliai/Mike Bongiorno, l’apologo della dentiera fatta trovare alla vecchina terremotata dell’Aquila e il recupero del Cristo ligneo dalle macerie, il film si rifiuta di fornire altre chiavi d’accesso oltre a quella apertamente rivendicata della tenerezza e pietas rivoluzionarie per un finale apertissimo. Ecce Homo. L’Homo che sta alla base del politico, le cui passioni muovono la Storia, l’Homo che in fondo sono tutti gli italiani che sognano l’America qui.

 

Valerio Caprara

‘Loro 1’, l’esplorazione allucinata e vitalistica del visionario Sorrentino nel microcosmo letale e affaristico che circonda un uomo ricco e potente

Sorrentino non teme confronti, perché soltanto lui in tutto il cinema mondiale può avvicinarsi oggi allo spirito di un Rabelais moderno. Per cogliere appieno, infatti, il filo nascosto di Loro 1, cui seguirà il 10 maggio Loro 2, si deve evocare il capolavoro del grande scrittore e umanista cinquecentesco, il “politicamente scorretto” Gargantua e Pantaguele che nel prologo non a caso recita: “E, leggendo, non vi scandalizzate/ qui non si trova male né infezione/Meglio è di risa che di pianti scrivere/ché rider soprattutto è cosa umana”. Come ha giustamente notato il critico Valerio Caprara, resteranno delusi, infatti, coloro che si aspettavano un pamphlet più o meno velenoso su Silvio Berlusconi che, per inciso, nel primo capitolo del dittico entra in scena solo dopo un’ora dall’inizio, perché per Sorrentino è la corte (decadente) a fare il suo Re: agli antipodi dei dossier con la bava alla bocca, ma anche diverso da Il divo, questo poemetto rutilante, vitalistico, a tratti esilarante e a tratti squassato da vibrazioni sentimentali sorprendenti, riesce a tenersi in equilibrio tra eleganti aperture surrealiste e ricalchi di una piccola parte dell’infinita aneddotica, specie quella a carattere edonistico o scandalistico, proliferata attorno alla lunga marcia del Cavaliere. In Loro 1 la forma interpreta il contenuto, iniziando “in absentia” del mattatore, un’esplorazione allucinata del microcosmo popolato da personaggi squallidi che circondano un uomo ricco e di potere, del team letale e affarista che s’industria a portare dalla desolata Taranto ai paradisi milionari della Sardegna giochi di sesso e cocaina, peraltro abituali in molti ambienti ex repressi di provincia. Sulla falsariga così, del celebre ballo in terrazza di La grande bellezza, Sorrentino lancia, raddoppia e triplica facendo ruotare attorno al “talent scout” Sergio e alla luciferina Kira, magnificamente interpretati da Scamarcio e Smutniak, l’organizzazione di una pioggia di feste e balletti scatenati che culmineranno, ovviamente, nel tripudio hard-rock delle serate nelle meravigliose ville.

All’apparizione di Silvio, il Grande Gatsby della politica, il quale afferma che “la verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”, occasionalmente travestito da odalisca, i rituali a cui sono sottoposte le “elette” non esagerano nel tirare in ballo mercimoni, ma sembrano, invece, riferirsi alle pratiche sadomaso dei libelli kitsch oggi démodé come Histoire d’O o Emmanuelle. In questi passaggi, talvolta strampalati, messi in cassaforte dal trasformismo espressivo e canterino di Servillo (ineffabile nel mascherone strenuamente sorridente), emerge il talento innato del regista: prelevando brani “vivi” del personaggio n°1 dell’Italia tra il 2006 e il 2010 (peraltro ancora oggi alla ribalta sia pure in un angolo dell’affresco politico), Loro 1 cerca di eseguire per via drammaturgica la biopsia dello spregiudicato tycoon uomo di potere tanto esaltato, esecrato, braccato da poteri e media concorrenti eppure pervicacemente sfuggente, astuto e persino animalesco nei comportamenti come stanno a significare le apparizioni delle bestie più disparate che per il regista, com’è noto, sono i più insondabili degli esseri viventi. Un finale geniale, summa dell’inimitabile, trascinante, sincera falsità reperita nel facsimile di Berlusconi, ci riporta dritti a Rabelais che, secondo una saggio del francesista Bonfantini “non è quasi mai burlesco, nel senso basico del termine, bensì fondato su un’acutissima, fulminea e assolutamente spregiudicata osservazione della realtà per cui un tratto dei suoi personaggi, un’inflessione della voce, un tic diventano rivelatori d’un carattere e di tutto un mondo da esso rappresentato”.

Con Loro 1 siamo anche di fronte ad un’abile operazione commerciale, predisposta dall’alto artigianato di Sorrentino per il quale in questo primo capitolo il vero protagonista è Morra, italiota di provincia, intraprendente e volgare, un guappo che ci affascina, ma non dovrebbe, ed è forse l’incarnazione di quel decennio italo-berlusconiano in cui tante cose sembravano possibili, ma non lo erano. Manca del tutto l’aggressiva mediocrità, la TV trash, la politica corrotta, il senso di tardo impero che forse saranno presenti in Loro 2. In tutto il bestiario si salva solo la purezza della timida Stella, interpretata da Alice Pagani, che vedremo corrompersi strada facendo. Per il resto non c’è sensualità né erotismo, ma solo sesso, non c’è carnalità, ma carne; non c’è quella volgarità disperata che si era intravista in qualche sequenza della Grande Bellezza.

Loro 1 è già un film nel film, sebbene incompiuto, per cui quel che accadrà in Loro 2 non fa che aumentare la curiosità. Certamente l’impressione generale è che il visionario Sorrentino abbia voluto mettersi al riparo da possibili censure e che trascini nei suoi film, oltre all’evidente dizionario felliniano e autoriale, anche il catalogo di un immaginario popolare molto meno elitario di quanto si creda. Le sue epifanie, le sue metafore che sono funzionali al racconto, e non mere licenze registiche, dividono la critica e il pubblico, ma sono la cifra stilistica del regista napoletano premio Oscar, indispensabili per mettere in scena il campionario di esseri viventi composto da escort, politicanti, pecore, rinoceronti, burattini, macchiette e via discorrendo, dominati da una sovrastruttura immaginaria.

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