Sylvia Plath, all’asta i suoi cimeli. Uccidono la poetessa preferendole la casalinga tormentata e tradita

C’è qualcosa di morboso e mortifero riguardo a quello che sta accadendo intorno alla figura della poetessa Sylvia Plath. Il pubblico di vampiri che non si limita a succhiare la vita altrui – gargarismo infame – ma a insistere sui morti, a mordere gli spettri, a masticarli, a leccarli, in un incestuoso incrocio di crudeltà, viltà, denaro.

La notizia è stata data con fioritura di trombe dai tromboni dell’informazione: il 9 luglio prossimo Sotheby’s batte un mucchio di “oggetti intimi” di Sylvia Plath, la grande poetessa morta suicida, con la testa nel forno (particolare non trascurabile per chi smercia in agiografie), nel febbraio del 1963.

Il catalogo di Sotheby’s, allestito con un titolo ornamentale, “Your Own Sylvia”, manco fosse uno show, è ghiotto, grasso per iene. Quasi tutti gli oggetti fanno riferimento alla relazione tra Sylvia e Ted Hughes, futuro “Poet Laureate”, poeta straordinario, marito fedifrago, forse violento, sciamanico.

All’asta i cimeli di Sylvia Plath

Così, va all’asta il ritratto a penna che Sylvia ha fatto a Ted, di rude bellezza, stimato tra gli 11 e i 17mila euro; un amuleto raffigurante il dio egizio Horus che Ted ha regalato a Sylvia (base d’asta: mille euro); un ritratto fotografico di Ted & Sylvia, realizzato da David Bailey (tra i mille e i 1400 euro); naturalmente, ci sono anche alcune lettere battute a macchina da Sylvia a Dearest love Teddy… (quella del 5 ottobre 1956 ha un valore stimato tra i 17.200 e i 23.300 euro).

Chi è particolarmente famelico si può comprare gli anelli di matrimonio di Sylvia & Ted, stimati tra i 7 e i 9mila euro: emblema, invero, di una unione funestata dalla mania e dal tradimento.

Il mercimonio suo cadaveri eccellenti prosegue. Che strano mondo quello in cui si decapitano le statue e ci si installa nella biografia di un poeta, lo si pone sul piedistallo, si officia il rito agiografico, inchiodando ceri fasulli nell’ossario del caro estinto.

C’è qualcosa di sinistro, di obliquo, di insano in questo scisma del cadavere: la necessità di aspirare la tragedia altrui, di respirarla, traendone un diabolico beneficio.

Passione necrofila

Già, perché di Sylvia Plath, poetessa eccellente, adoriamo quello: la vita tormentata, l’amore sbagliato con un poeta titanico, il catrame caratteriale, la sessualità ferina, lei, spuria icona femminista, un po’ Medea, un po’ Arianna, un po’ regina delle Amazzoni, di cui sappiamo tutto, abbiamo sarchiato tutto, i diari, le lettere, il fottio di pettegolezzi.

Inutile giocare alle belle statuine di sale: di Sylvia più che l’opera – l’unica cosa che interessava a lei, che della propria meridiana quotidianità scrive crocefissa dal dolore – interessa la vita, lo scempio, il fallimento, il suicidio.

Pubblico di livide iene, come quello che si accalca intorno a un incidente stradale, cellulare in mano – la fotografia-monile –, famelico di sangue, urla, morte.

Lasciamo in pace la vita privata di Sylvia Plath

Aneliamo la morte dell’altro, anulare d’argento, non c’è altro da dire, meglio se famoso; il suo oggetto intimo, il suo privato, è la cadaverica testimonianza della nostra vittoria sul regno dei morti, ammantata da studi, beneficienza, portafogli (d’altronde, solo i ricchi pacchiani e gretti si possono comprare le anime morte, e relegarle nel recinto delle regalie, nella gabbia degli spettri che non muoiono mai, condannati dai vivi a replicare in eterno la propria pena).

A forza di speculare sulla sua esistenza, hanno finito per ammazzare la Plath; a furia di scavare nei meandri della sua intimità, ficcandosi nel letto nuziale della Plath, spiando le vergogne, sgusciando tra gli umori appestati, facendo sesso col morto, rivelando l’osceno e il dolore, hanno ucciso la poetessa preferendo la casalinga tormentata.

Proponiamo invece una delle sue poesie più belle, Il colosso

 

Tu forse ti consideri un oracolo,

portavoce dei morti, o di chissà quale dio.

Sono trent’anni ormai che mi affatico

per cavarti la melma dalla gola.

E ne so quanto prima.

Mi arrampico su per scale a pioli con barattoli di colla e di lisolo,

striscio come formica in lutto

sugli acri della tua fronte invasi dalle erbacce

per riparare le immense placche del tuo cranio e ripulire

i bianchi tumuli vuoti dei tuoi occhi.

Un cielo azzurro uscito dall’Orestea

s’incurva su di noi. Oh padre mio, tutto solo

sei essenziale e storico come il Foro Romano.

Tiro fuori il mio pranzo su una collina di cipressi neri.

Le tue ossa incise e i capelli d’acanto sono sparsi

fino all’orizzonte nell’antica anarchia.

Ci vorrebbe ben altro che un fulmine

per creare tanta rovina.

Di notte mi accoccolo nella cornucopia

del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,

e conto le stelle rosse e quelle color prugna.

Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua.

Le mie ore sono sposate all’ombra.

Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia

sulle pietre nude dell’approdo.

 

Fonte Davide Brullo

Il ‘Salvator Mundi’ di Leonardo da Vinci, il quadro più costoso del mondo, e i suoi misteri

Com’è possibile che un modesto dipinto – definito nel 1958 «copia da Boltraffio» e venduto in un’asta Sotheby’s per 45 sterline – torni clamorosamente alla ribalta dopo sessant’anni come «l’ultimo Leonardo» in circolazione sul mercato, e come tale venga aggiudicato in un’asta Christie’s per la cifra astronomica di 450 milioni di dollari?

Il “miracolo” ce lo racconta Pierluigi Panza in un appassionante e documentato dossier nel quale egli tenta di fare luce sulla storia, gli intrighi e i misteri del «quadro più costoso del mondo».

La scena si apre sul fatidico giorno dell’asta milionaria: siamo nella sede newyorkese di Christie’s ed è il 15 novembre 2017. Il presidente Jussi Pylkkanen presenta in sala il lotto 9B: «Salvator Mundi di Leonardo da Vinci. È stato nelle collezioni di tre re d’Inghilterra». La base d’asta è di 75 milioni di dollari ma, dopo un frenetico minuto e mezzo di vorticosi rialzi, il quadro ha già raggiunto il prezzo di aggiudicazione: 450 milioni di dollari! Un record storico. Il risultato ha davvero dell’incredibile, non solo per il prezzo raggiunto dall’opera, ma per il fatto che, solo pochi giorni prima, l’autorevole New York Times aveva dichiarato senza mezzi termini: «Il Salvator Mundi è stato dipinto da un assistente di Leonardo».
Da che parte stava la verità? È quanto Panza ha cercato d’indagare, mettendosi, per prima cosa, a ricostruire la storia del dipinto. Quando e per chi Leonardo dipinse il quadro? E chi erano i tre re d’Inghilterra proprietari del Salvator Mundi?

Alla prima domanda bisogna rispondere navigando nel mare incerto delle ipotesi. Leonardo approntò effettivamente un dipinto con il Salvator Mundi: lo si arguisce dal fatto che esistono studi preparatori per i panneggi delle maniche e per l’abito di Cristo (certamente autografi e oggi conservati a Windsor) e dall’esistenza di un numero veramente ingente di copie antiche eseguite da pittori leonardeschi ispirati dal prototipo del Maestro. Gli storici dell’arte hanno immaginato che il “prototipo” potesse essere stato realizzato da Leonardo a Milano per il re di Francia Luigi XII e da questi portato Oltralpe. Poi, ai primi del Seicento, sarebbe passato in Inghilterra come dono di nozze per i sovrani inglesi Carlo I Stuart e Henrietta Maria.

Carlo I Stuart – grande collezionista e grande sfortunato – perì sul patibolo nel 1649, e due anni dopo (1651) la sua collezione venne messa all’asta: nell’inventario compilato per l’occasione, si trova la prima menzione nota di un Cristo di Leonardo da Vinci: «A peece of Christ done by Leonardo at 30.00,00 / sold to Stone / 23 Oct. 1651». Poco prima della vendita, nel 1650, l’incisore Wenceslaus Hollar aveva cavato dal quadro una stampa somigliante (ma non identica) al modello. A commissionarla era stata probabilmente la moglie del re defunto, la regina Henrietta Maria, fuggita all’estero.

Come dice l’inventario dell’asta, il quadro era stato comperato da John Stone, il quale, al rientro degli Stuart in Inghilterra nel 1659, restituì l’opera al nuovo re, Carlo II. Nel 1665 scoppiò la peste e tutti scapparono da Londra, famiglia reale compresa. Quando l’epidemia terminò, Carlo II rientrò in città e riprese possesso dei palazzi di Whitehall e Somerset House, facendone inventariare il contenuto: nell’inventario del 1666 compare, per la seconda volta, la menzione del Salvator Mundi: «Leonard de Vince our Savior with a globe in one hand and holding up the other». Carlo II morì nel 1685 e gli succedette il fratello Giacomo II. Fu lui il terzo re a possedere il quadro. Ma se lo godette ben poco: nel 1688 il Parlamento dichiarò Giacomo II decaduto dalla corona e il monarca fu costretto a fuggire. Prima di abbandonare l’Inghilterra, riuscì ad affidare il Salvator mundi all’amante in carica, Catherine Sedley. Una figlia della Sedley sposò più avanti John Sheffield, primo duca di Buckingham, e si portò in dote il «Savior» di «Leonard de Vince». In casa Sheffield il quadro passò di padre in figlio (da Edmund a Charles Herbert) finché la famiglia si stancò di possedere una tavola che, nel frattempo, si era ridotta in condizioni di conservazione a dir poco pietose. Lo sappiamo perché quando venne messo all’asta a Londra il 24 febbraio 1763, il quadro venne valutato pochissimo: «N. 53. L. Da Vinci A head of our Savior (£ 2,10)». Due sterline! Un Leonardo al prezzo di una crosta! Comunque, dopo l’asta del 1763, il quadro scomparve nel nulla.

Durante l’Ottocento, si fece avanti un nuovo candidato: ora era il Salvator Mundi detto De Ganay (dal nome del proprietario) a nutrire l’ambizione della paternità di Leonardo. Non è un fatto da poco, perché ancora oggi quel dipinto, strenuamente sostenuto dall’autorevole parere di Carlo Pedretti, continua a circolare e a essere esposto in mostre ufficiali come il “vero” Salvator Mundi di Leonardo.

Il Salvator mundi dei tre re Stuart ricomparve all’orizzonte solo alla fine dell’Ottocento. John Robinson aveva comperato a Londra questa tavola «di scuola milanese» per conto di sir Francis Cook. I Cook conservarono il «Savior» per mezzo secolo a Doughty House, ma erano consapevoli di non possedere un capolavoro: quando Bernard Berenson venne in visita alla loro collezione, evitarono di mostrargli il dipinto; e Kenneth Clark, che pure lo conosceva, si guardò bene dall’inserirlo tra gli autografi nella monografia su Leonardo da Vinci da lui edita nel 1939. Durante la Seconda guerra mondiale, Londra venne bombardata dai tedeschi. I Cook nascosero le collezioni d’arte nelle residenze fuori città, ma il Salvator Mundi lo lasciarono nello scantinato di Dougthy House, che venne brutalmente colpita dalle bombe. Il quadro sopravvisse, ma le foto che gli vennero scattate durante il Novecento documentano in modo impietoso il suo disastroso stato di conservazione. Nel 1958 arrivò la decisione di disfarsi di quel relitto. I Cook lo affidarono a Sotheby’s, e nel giugno del 1958 il quadro venne venduto a Londra per il prezzo (misero) di 45 sterline. Se lo aggiudicò la famiglia Kuntz della Louisiana.

Per arrivare a nuovi sviluppi, bisogna attendere il 2005 e l’entrata in scena di un personaggio singolare: l’americano Robert Simon, un gallerista specializzato in opere sottostimate. All’asta degli «Eredi Kuntz», Simon compera, per 10mila dollari, il Salvator Mundi già Cook. Il gallerista non pensa affatto di aver acquistato un Leonardo, anche perché il “vero” Salvator Mundi è ritenuto quello De Ganay. Ma Simon ha l’intuizione di far restaurare la sua “crosta” dalla rinomata restauratrice di New York Dianne Dwyer Modestini, la moglie di Mario Modestini, l’uomo che aveva riscoperto la Ginevra Benci di Leonardo da Vinci.

Dianne Dwyer Modestini compie un autentico “miracolo”: rimossi sporcizia, ripinture e superfetazioni, la donna ritrova tratti di grande qualità negli abiti e nel globo, nonché rintraccia alcuni pentimenti sotto la mano benedicente. I risultati della pulitura lasciano attoniti, al punto che nel 2008 – a restauro non ancora ultimato – il dipinto viene esposto alla National Gallery di Londra per essere esaminato da un pool di esperti. Lo ammirano Nicholas Penny, Luke Syson, Larry Keith, Carmen Bambach, Pietro Marani, Maria Teresa Fiorio e Martin Kemp. Il giudizio è prudente ma, dopo essersi consultati, questi studiosi si dicono favorevoli all’attribuzione a Leonardo. Robert Simon, il proprietario, gongola di gioia. Il quadro torna a New York per l’ultima fase di restauro. Ed è pronto per affrontare la prova del fuoco: lo mostra Leonardo da Vinci Painter at the Court of Milan, aperta nel novembre del 2011. Qui, il quadro riceve nuovi consensi ma anche notevoli dissensi: Carlo Pedretti – che da sempre ha sostenuto la versione De Ganay – non avvalla l’attrizione a Leonardo, mentre Frank Zoeller è propenso a vedere la mano di un allievo. Questo per dire che – attorno al Salvator Mundi “di Leonardo” – non si arriva a raggiungere un parere unanime.

Le divergenze, però, non turbano il proprietario Simon, che – a questo punto – decide di vendere il quadro al gallerista e mediatore Yves Bouvier (dal passato non molto specchiato). Cifra incassata: 80 milioni di dollari. Bouvier incamera il quadro ma ha già pronto un cliente a cui rivenderlo: è il magnate russo Dimitrij Rybolovlev (anche lui dal passato non molto specchiato). Per il quadro “di Leonardo” l’oligarca mette sul piatto 127 milioni di dollari. Bouvier incassa. Quando emergono i particolari della compravendita, il Times pubblica un articolo urticante sull’«Industria della vendita del Salvator Mundi» (9 marzo 2014).

Il resto è cronaca. Dopo soli tre anni, Dimitrij Rybolovlev decide di vendere la tavola. La Christie’s di New York fa abilmente circolare l’opera e la fa visionare a circa 27mila potenziali clienti; poi, organizza la memorabile asta del 15 novembre 2017, dove il Salvator Mundi trova un acquirente per la stratosferica cifra di 450 milioni di dollari. Chi è il compratore? Un mistero. Ma indiscrezioni parlando dell’erede al trono saudita Mohammad bin Salman. Fino a qualche giorno fa si sapeva la precisa destinazione del dipinto: il nuovo Louvre di Adu Dhabi. L’inaugurazione era stata fissata per il prossimo 18 settembre. Invece, colpo di scena! L’atteso evento è stato annullato e rimandato a data da destinarsi. Spiegazioni? Nessuna. Illazioni? Tante. I benevoli dicono che la vernice è stata spostata all’11 novembre perché coincida con il primo anniversario di apertura del museo. I malevoli pensano invece che a far saltare tutto siano stati i dubbi sempre più consistenti sull’effettiva paternità di Leonardo e sul peso dei “miracolosi” restauri. Staremo a vedere. Il mistero del Salvator Mundi, intanto, continua.

Fonte: L’ultimo Leonardo. Storia, intrighi e misteri del quadro più costoso del mondo, di Pierluigi Panza

La collezione d’arte Rockefeller andrà in questa primavera all’asta per beneficenza

La collezione d’arte del magnate David Rockefeller andrà all’asta nella tarda primavera. Christie’s si occuperà della vendita di più di 2.000 oggetti del banchiere filantropo, inclusi pezzi di arte moderna, porcellane cinesi, quadri americani e mobili europei. Il ricavato dell’asta, considerata una delle più importanti del secolo, sarà distribuito fra una decina di organizzazioni di beneficenza legate a cause culturali, educative, mediche e ambientali a lungo sostenute da David e Peggy Rockefeller. Secondo alcune stime preliminari, con la vendita potrebbero essere raccolti fino a 500 milioni di dollari, una cifra superiore ai 484 milioni di dollari dell’asta della collezione di Yves Saint Laurent, definita finora l’asta del secolo. I Rockefeller continuano così la loro lunga eredità di filantropia. Raccolti da una vita e tramandati dalle generazioni precedenti, gli oggetti della collezione riflettono la profonda e lunga passione di tutta la famiglia per opere d’arte impressioniste, post impressioniste e moderne, dipinti, opere d’arte asiatiche, ceramiche europee.

Data l’assoluta eccezionalità dell’occasione, Christie’s ha organizzato un tour mondiale della collezione che a partire da Londra (dal 21 febbraio all’8 marzo) passerà per Pechino (dal 6 al 7 di aprile) per tornare negli Usa e in Cina, fino alla data in cui verrà sottoposta al martello del battitore in tarda primavera al Rockefeller Center di New York.

Si sa, il ruolo delle case d’asta è fondamentale per tutto l’andamento del mercato e del sistema dell’arte contemporanea, considerando che il timone è retto dal trio Christie’s, Sotheby’s e Phillips de Pury. Innanzi tutto per le loro dimensioni in termini quantitativi e geografici – attirando acquirenti da tutto il mondo ed avendo sedi dislocate in più paesi (le principali a New York, a Londra e in Cina) -, e in termini di fatturato, il quale determina la concorrenza e la predominanza di una casa e una piazza rispetto all’altra. Il loro carattere e il loro potere è di fatto internazionale, o meglio mondiale, e contribuisce a rinforzare il fatto di essere la leva per il successo di determinati autori e correnti artistiche.
I risultati d’asta, anche delle altre case minori, sono pubblici e consultabili dalle banche dati. Risulta così possibile poter conoscere qual è il prezzo di aggiudicazione di un’opera e poterne fare un confronto con i prezzi del mercato primario e delle gallerie. Dato un numero sufficiente e costante di transazioni, si può calcolare l’indice di un artista e iniziare a ragionare, con dati alla mano, anche in termini di investimento economico.

David Rockefeller è il nipote di John Davidson Rockefeller, il primo billionare d’America, detentore di quel monopolio del petrolio che aveva permesso al Paese di prosperare assicurandogli energia a un costo relativamente basso. La famiglia era proprietaria del famoso Standard Oil Building, definito dagli americani The world’s most famous business address, che si trovava al numero 26 di Broadway. L’edificio passò di mano durante la crisi del ’29, quando la famiglia soffrì di alti e bassi finanziari, che mai riuscirono però a intaccare del tutto la sua fortuna. Essere miliardari nell’America del secolo scorso significava coniugare la ricchezza con la filantropia e con la condivisione a favore della collettività. Si deve al padre di David la costruzione della Riverside Church, celebre per le prediche di Martin Luther King, e il notissimo Rockefeller Center nel centro di Manhattan: gli uffici della compagnia di famiglia si spostarono nel dopoguerra al Rockefeller Plaza, conosciuta come 30 Rock, dove l’azienda occupava tre piani, chiamati da tutti Room 5600.

Se la storia dei Rockefeller fa sognare, lo fa ancora di più la sua splendida collezione. La fortuna ereditata permise a David di accumulare nel dopoguerra una collezione comprendente opere della migliore arte europea (dagli impressionisti francesi ai cubisti), dell’arte moderna americana, per arrivare a includere anche pezzi d’arredamento assolutamente eccezionali, dalle porcellane cinesi, agli argenti, ai mobili vintage statunitensi. La tradizione culturale della famiglia d’altro canto era eccellente: la madre di David aveva messo parte delle sue energie e dei suoi capitali nella costruzione di una cultura rivolta all’arte contemporanea nel suo Paese. A questo scopo aveva fondato il primo museo ad essa dedicata nella storia degli Usa, ovvero il Moma, in uno degli edifici della famiglia al 10 West della 54esima strada.

David non poteva non figurare nella lista dei principali donors del Moma. La leggenda vuole che grazie all’amicizia con l’ex direttore del museo, Alfred Baar, poté costruire gran parte della sua collezione personale, in cui entrò anche l’arte d’avanguardia europea. Il collezionismo di David Rockefeller si configurava innanzitutto come attività privata, ma anche pubblica, che avvalorava l’immagine dell’uomo dotato sì di grande abilità negli affari, ma anche di grande lealtà e serietà. La filantropia era una parte integrante della figura pubblica, in cui egoismo e capacità di essere benefattore costituivano due facce della stessa medaglia. E la beneficenza era anche il viatico per amicizie politiche di rilievo, fra le quali quelle con Henry Kissinger e George H.W. Bush.

Una delle famiglie più potenti del mondo, che da secoli, con i Rothschild, plasmano in silenzio il mondo così come lo conosciamo, influenzando le decisioni politiche, l’economia e le guerre tra le nazioni, nascondendosi dietro una maschera eroica, ha scritto un’altra bella pagina di filantropia che ricorda quella utilitaristica, non caritatevole, praticata da donna Prassede, moglie di Don Ferrante, nei Promessi Sposi.

La collezione messa all’asta presenta alcuni lotti di pittura dal valore inestimabile: come un’opera di Eugène Delacroix, Tiger playing with a Tortoise del 1862, stimata dai 5 ai 7 milioni di dollari, di rara e eccellente fattura; oppure un’opera di John Singer Sargent, di soggetto veneziano, (San Geremia del 1913) stimata valere dai 3 ai 5 milioni di dollari. Di assoluta eccellenza è infine la collezione nelle porcellane cinesi, tra cui un servizio da cena Tobacco leaf del 1775, valutato attorno ai 200-300 mila dollari. Il catalogo completo dell’asta sarà consultabile all’inizio della touring exhibition.

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