‘Serotonina’: il solito Houllebecq che parla della fine dell’occidente attraverso l’impotenza del maschio

Chi non ha letto i suoi romanzi precedenti, troverà Serotonina, l’ultima fatica letteraria del controverso scrittore francese Michel Houllebecq, un pugno nello stomaco, un capolavoro. Ebbene, il tanto atteso romanzo dell’autore di Sottomissione, libro che nel 2015 generò non poche polemiche, non è un capolavoro con buona pace dei seguaci acritici di uno dei più importanti scrittori d’occidente che parla d’occidente.

Tuttavia sarebbe ingeneroso liquidare Serotonina come un libro trascurabile, l’ultimo atto di un finto trasgressivo depresso che ama il politicamente scorretto e sguazzare in opinioni sconvenienti ormai giunto alla senilità. La storia di Houllebecq è nota: a partire dal successo del suo secondo romanzo, Le particelle elementari (1998 in Francia, 1999 in Italia), lo scrittore francese si è affermato come uno dei tre o quattro scrittori più rilevanti nel panorama letterario occidentale, fino ad arrivare al controverso Sottomissione del 2015. Da quel momento in poi ogni suoi libro è stato annunciato come un evento, e i lettori – quei figuri che le case editrici cercano con disperazione di resuscitare – sono riapparsi ogni volta come se fossero sempre esistiti. Le cronache culturali, non senza ragione, hanno fatto risalire i motivi di questa rilevanza perlopiù a circostanze extra-letterarie: una certa forma di preveggenza (il pericolo islamico, l’ingegneria genetica) unita a una certa forma di ideologia reazionaria seducente quanto scandalosa per il lettore tipo, normalmente portatore di valori e stili di vita di sinistra, giusti e rassicuranti.

Ma Houllebecq oggi pare essere acclamato anche da chi una volta lo odiava, mentre i suoi fans si dividono tra intellettualmente onesti che non possono non riconoscere in Serotonina un affresco stanco e abbastanza noioso dell’Occidente, che l’autore descrive ormai da vent’anni, e fans che ritengono il loro beniamino letterario intoccabile.

Serotonina: trama e contenuti

Houellebecq, discendente dalla grande tradizione dell’amarezza francese (i cui massimi esponenti sono Villon, Céline, Camus, Drieu La Rochelle), ancora una volta fa analizzare in maniera spietata e scientifica la situazione sociale della Francia e della società occidentale da un disadattato, un infelice, che però, a differenza di intellettualoidi che cicalecciano nei loro salotti ovattati, vede molte più cose, e le “sente” meglio: Florent-Claude Labrouste, quarantaseienne che lavora come funzionario del ministero dell’Agricoltura, vive una relazione ormai al capolinea con una donna giapponese, più giovane di lui, dalle idee libertine, con la quale condivide un appartamento in un anonimo grattacielo alla periferia di Parigi. L’uomo si tiene vivo attraverso l’uso costante di un antidepressivo, il quale, se da un lato lo priva dell’eccitamento, dall’altro risveglia nell’uomo l’antica sete di eliminare l’avversario in amore. Labrouste è un uomo intelligente che rileva gli accadimenti della società come se fosse un robot. Tuttavia egli prova affetto come un bambino, non sa amare, complice il suo stato mentale, le persone che lo circondano ma soprattutto il suo male di vivere, di stare al mondo, di essere già caduto quando è nato, per dirla all’Anassimandro. L’incalzante depressione induce il protagonista all’assunzione in dosi sempre più massicce di Captorix, grazie al quale affronta la vita, un amore perduto che vorrebbe ritrovare, la crisi della industria agricola francese che non resiste alla globalizzazione, la deriva della classe media. Una vitalità rinnovata ogni volta grazie al Captorix, che chiede tuttavia un sacrificio, uno solo, che pochi uomini sarebbero disposti ad accettare.

Dunque sembra apparentemente riecheggiare il solito messaggio in Serotonina: è colpa della società se sono così! ma è la società stessa a configurarsi come una proiezione effettiva del nostro mondo interiore, dato che siamo noi ad averla prodotta, cambiarla e che ne facciamo parte, perdendo al contempo, paradossalmente il contatto con la realtà. D’altronde gli stessi antieroi houllebecquiani, nevrotici, psicotici, depressi, accidiosi, cinici, ossessionati, pavidi, hanno una visione distorta, nichilista, della realtà.

L’impotenza sessuale maschile come metafora della fine dell’occidente

“Una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé” e “In Occidente nessuno sarà più felice” si legge ad un certo punto nel romanzo, affermazioni che si ricollegano ad una dimensione più individuale, intima “Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi” e che ancora una volta dimostrano come lo scrittore abbia ormai ancora ben poco da dire: si parla di donne che sembrano già lette ma questa volta virate dal filtro dell’impotenza sessuale, metafora dell’impotenza dell’occidente. Si resta poi abbastanza spiazzati da almeno un paio di episodi che sono talmente forzati da apparire ridicoli (uno di questi, un’improbabile scena di zoofilia, è addirittura il motore del dramma interiore del protagonista; l’altro è una scena di pedofilia abbastanza inspiegabile). E però ci sono poi grandi pagine, soprattutto quelle dell’incontro con il vecchio amico Aymeric, che sono una specie di discesa negli inferi dell’entroterra francese; una tristissima e verissima notte di Capodanno trascorsa dai due nel cadente castello dell’amico in Normandia; le pagine sugli agricoltori in rivolta, che hanno fatto di nuovo gridare alla preveggenza – considerati i successivi moti di protesta dei gilet gialli – così come quelle sugli allevamenti intensivi e le produzioni di origine controllata, che insieme agli excursus extra-parigini di Carrère nell’Avversario, potrebbero essere riunite in un dolente dittico sulla crisi della provincia europea.

Tuttavia nella parte finale del libro, ritorna la sensazione di mancanza di ispirazione, fino a quando, in un passaggio più saggistico in cui il protagonista si mette a riflettere su Thomas Mann, Marcel Proust e Arthur Conan Doyle da un punto di vista sessuale, riappare l’illuminazione o la suggestione di essere di fronte non solo a una specie di autoromanzo sulla carriera letteraria di Houllebecq – la storia di un fantasma che vaga tra i resti delle sue opere – ma anche quella di avere tra le mani una pietra tombale della letteratura del Novecento e dei suoi postumi; per quanto “l’esaurimento” fosse stato già prescritto dai postmodernisti più di 50 anni fa, davvero l’esistenzialismo e il nichilismo in questa specifica forma di romanzo soggettivo e confessionale, sembrano essere colti in queste pagine nell’atto di esalare l’ultimo respiro.

Promosso come libro anticipatore dei Gilet gialli, Serotonina parla semmai della guerra del latte di 10 anni fa, oscillando tra le elucubrazioni dei film della Nouvelle Vague, sprazzi che fanno sperare in una inversione di rotta che non avviene mai e saccenterie lessicali incastonate in uno stile come al solito volutamente sciatto, “grigio” e stringato, contorsionismi intellettuali, e medesima descrizione del vuoto interiore, medesime provocazioni soprattutto, sul versante di una apparente misoginia, che in verità è misantropia, tra le quali ogni tanto fa capolino qualche sussulto poetico: “Era già quell’infinità, quell’infinità gloriosa di piaceri condivisi che avevo intravisto nel suo sguardo. Era la più recente e forse anche ultima possibilità di felicità che la vita avesse messo sulla mia strada.”

Una deflagrazione senza compromessi dell’io maschile dunque (senza contare il fallimento del femminismo contro cui l’autore si è sempre scagliato), che si estende all’intero occidente che non sa generare più nulla di buono. Cosa può salvarci allora? Il volgere la propria mente e il proprio cuore verso l’assoluto che nei romanzi di Houllebecq sembra essere assente, ma in realtà quello che si è autodefinito lo “scrittore della sofferenza ordinaria”, vive un desiderio di conversione e bisogno di trascendenza, in un mondo in cui si sente estraneo e rifiutato:

Il mondo brucia, le sue promesse son fumo. Cosa rimane? La bellezza dell’amore, anche quello che non è stato, quello delle fanciulle in fiore o di Cristo irritato dall’insensibilità dei cuori.

 

Fonte:

La fine di Michel Houellebecq

Sottomissione di Michel Houllebecq: una lettura necessaria

“L’Europa è un continente morto. Oggi è in mano ai mercati, domani forse all’Islam”. Questa l’opinione, la visione terrificante di Michel Onfray, tra i più noti intellettuali francesi, nel commentare il romanzo in questione, Sottomissione, sul Corriere della Sera del 15 Gennaio di quest’anno. Il senso del libro di Houllebecq, che è visionario e realistico allo stesso tempo, in effetti, sembra essere proprio questo: non  un avvertimento sul tanto decantato imminente pericolo islamico, quanto una cruda analisi sulla debolezza esistenziale degli individui europei , in questo caso, significativamente francesi che ,a poco a poco, abbandonandosi alla comodità della sicurezza, della pigrizia, della vacuità e della tranquillità esistenziale, si sottomettono in modo democratico e consapevole. Francois, unica voce narrante e protagonista del romanzo, è un moderno “uomo senza qualità”, parafrasando l’austriaco Robert Musil, un intellettuale che incarna a pieno la parabola discendente della forza valoriale della tradizione d’Europa: un uomo di una normalità assoluta.

Già Tocqueville aveva ampliamente spiegato ne La democrazia in America, come la sostituzione con il mero interesse economico, operata per mezzo di secoli di cambiamenti filosofici e antropologici, dei valori  dell’Europa pre-illuminista e  la conseguente sostituzione della logica del coraggio, per semplificare, con quella del profitto, avevano sfibrato e privato l’uomo della necessità partecipativa ai processi politici ed economici e come l’unico valore veramente ricercato dall’uomo moderno fosse la tranquillità, correlata ad una quasi deontologica assenza volontaria da qualsivoglia ruolo politicamente  attivo. Nel romanzo di Houllebecq accade esattamente questo: tutto cambia e si trasforma nel mondo attorno a Francois senza che egli percepisca il minimo impulso di voler o dover fare qualcosa. Il tutto in nome della promessa e ambita tranquillità.

Gli occidentali appaiono tristi, stanchi, depressi, senza nessuno slancio, privi di mordente e quindi tutti potenzialmente già sudditi e facilmente sottomettibili. E così l’uomo totalmente nichilista dell’Europa contemporanea fa l’ultima cosa che gli rimane da fare per cercare di recuperare un briciolo di identità: si converte. Così come, sembrerebbe in modo profetico, viene dipinta sullo sfondo l’immagine di un’Europa diversa, di un’Europa completamente desertificata culturalmente, privata della sua più peculiare natura identitaria, di un vecchio continente talmente tanto impoverito nell’animo da essere costretto a divenire qualcos’altro pur di non scomparire nel nulla valoriale. Non c’è più il nostro Dio, non c’è più l’umanesimo integrale che ha pervaso le coscienze degli europei nei secoli, non c’è fibra tra gli uomini, non c’è difesa delle proprie provenienze culturali e artistiche: è tutto tragicamente morto. E così qualsiasi identità va bene, purchè non scomodi o sconvolga le dinamiche esistenziali del protagonista del romanzo.

Con lo stimolante e criticato Sottomissione, Michel Houllebecq si candida a ruolo di cantore della scomparsa dell’Occidente per come lo abbiamo intravisto e, in parte, conosciuto. Questo sarà sì un romanzo fantapolitico caratterizzato da un linguaggio “sporco” e freddo tipico del suo autore, ma parla di un suicidio volontario preparato e costruito nei decenni, il suicidio di una civiltà che ha smesso di essere se stessa, ha delegato, ad oggi, al denaro, forse un giorno delegherà all’Islam, a tutto, pur di non accettare di dover recuperare le proprie radici per poter smettere di essere profondamente sottomesso.

Exit mobile version