Sylvie Richterova, poetessa del romanzo: “La mia intenzione primaria era quella di affrontare il mistero del male”

Sylvie Richterova è una delle più importanti scrittrici sperimentali del nostro tempo, continuatrice ideale della prosa di Musil. L’autrice del capolavoro Che ogni cosa arrivi al suo posto, potrebbe essere definita un’alchimista, abile a creare sinergie tra persone, tempi e luoghi.

Sebbene in italiano oggi sia disponibile un solo romanzo, Topografia, Sylvie Richterová, che vive da molto tempo in Italia, è autrice di almeno altri quattro romanzi importanti: Návraty a jiné ztráty (Ritorni e altre perdite), uscito in francese con il titolo Retours et autres pertesRozptýlené podoby (Figure dissipate), apparso in samizdat nel 1979 e poi a Praga nel 1993, romanzo con il quale nel 1994 ha vinto il Premio del Fondo Letterario CecoSlabikár otcovského jazyka (Sillabario della lingua paterna), uscito in samizdat nel 1986, poi, in forma di trilogia comprendente anche Ritorni e altre perdite e Topografia, a Praga presso Mladá Fonta nel 1991; Second adieu (Druhé loučení, Mladá Fronta, Praga, 1994, Gallimard, 1999).

Richterová ha inoltre pubblicato in ceco due raccolte di poesie, Neviditelné jistoty (1994) e Čas věčnost (2003), e tre raccolte di saggi estremamente raffinati, Slova a ticho (Parole e silenzio) del 1986, apparso anche in lingua tedesca, Ticho a smích (Silenzio e riso) del 1997, con testi esemplari su Hasek, Nezval, Halas, Kundera, Linhartová e altri autori della letteratura ceca del XX secolo, e Místo domova del 2004. Importante le sue traduzioni in italiano de Il difetto delle pesche (Roma, 1981) di Jan Skácel e delle Opere postume del signor A. (Alfortville 1990) di J. Kolář.

È vincitrice del Premio annuale della Fondazione del Fondo letterario ceco per la prosa (1994) e del Premio Tom Stoppard (2017).

La scrittura di Richterova, nata nell’ex Cecoslovacchia e naturalizzata francese, scaturisce da profonde riflessioni ed elaborazioni di ricordi che a volte si presentano come se fossero visioni immediate, scritte di getto, altre come immagini “ritoccate” dalla propria mente e dalla propria esperienza che consentono all’autrice di guardare ad un fatto, un evento, un personaggio da diverse angolazioni.

Richterova illumina le sue memorie, le arricchisce. Le dà nuove prospettive, perché in fondo il romanzo è anche questo: reinventare la realtà, il passato, i ricordi, far venire a galla l’assurdo e al contempo questioni esistenziali.

Che ogni cosa arrivi al suo posto ad esempio, si estende su un ampio arco temporale, dalla seconda guerra mondiale fino all’inizio del terzo millennio, e ciò che emerge quasi violentemente da questo libro è la partecipazione sia cosciente che inconscia al male nella vita quotidiana, sulla quale l’autrice non esprime giudizi, ma presenta una fenomenologia espressiva di assurdità concrete e patologiche, spesso al confine tra riso e pianto.

La peculiarità di Richterova è riuscire a consegnare al lettore un collage di grandi inquadrature e di significativi particolari, rendendo la sua scrittura altamente cinematografica anche grazie alla combinazione di elementi magici e fiabeschi insieme a quelli realistici e storici. Il lettore partecipa con curiosità e commozione alla sorti dei personaggi i quali ci fanno scoprire terreni insondabili dell’esistenza umana.

Il romanzo di Richterova è una ramificazione poetica espressionista dove luoghi e personaggi di incrociano nel corso del tempo che tuttavia non significa romanzo disomogeneo anzi, questi aspetti stilistici lo rendono ancora di più unitario. D’altronde se i personaggi sono erranti, alla ricerca di qualcosa, lo diventa anche la forma che si identifica con il contenuto.

L’intento della scrittrice ceca è quello di avvicinare per comprendere meglio il mistero del Male, nell’epoca della Cancel Culture, dove domina la fretta, non la meditazione dell’opera a differenza di quello che contraddistingue Sylvie Richterova, ovvero estrinsecare l’opera con con “lungo” amore- L’autrice ci dice che il mistero è la parte più consistente della realtà, come la grazie del resto, alla quale è difficile giungere se non percorrendo i sentieri del Male. Il mistero del Male è inesauribile e Richterova che ama Dante e la letteratura italiana, prova ad entrarci, narrando del caos di profuma di Provvidenza. Bisogna ancora e sempre denunciare lo scandalo del Male, come fece Manzoni con i Promessi Sposi e Storia della Colonna infame.

 

1 Cosa pensa della letteratura italiana?

Devo dire che è grande e bellissima, devo cominciare dalla scuola siciliana, da quella toscana, dal Dolce Stil Novo? Devo pensare alla Commedia dell’arte, a Goldoni a Pirandello? A Dante, a Leopardi, a Montale? A Gadda, a Pasolini o a Levi? Penso che non la conoscerò mai abbastanza e che non smetterò mai di scoprirla e di rileggere. Una cosa meravigliosa è la presenza costante e vivace degli autori del passato. Non sono in grado di pensare un “qualcosa” della letteratura italiana, sarebbe assurdo, ma sperimentare continuamente le infinite forme della sua presenza è straordinario. Ogni grande autore è un universo infinito e inoltre compenetrato da altri fantastici universi.

Mi sono commossa pochi giorni fa seguendo una lettura dantesca fatta da cinque bravissimi giovani attori nel parco di una cittadina laziale. Hanno vissuto in alcuni versi di Dante e Dante ha vissuto in loro, con energia, profondamente, attualmente. Nel piccolo anfiteatro non si trovava quello che si chiama il “grande pubblico”, vi si trovavano persone motivate, attente, concentrate, serene. Per me, così la cultura vive. A volte secondo principi omeopatici.

2 Si fa ancora letteratura in Italia secondo Lei? Ci sono degli autori che apprezza particolarmente?

Certamente. Apprezzo. Tuttavia, non cerco di seguire il flusso della produzione, tendo a non prendere coscienza dei libri troppo pubblicizzati, difficilmente mi interesso ai bestseller. Considero inutile, anzi deleteria la produzione di storie perfettamente confezionate e simpaticamente consumabili. Preferisco autori che rischiano, che sono un po’ folli e violenti, ma coinvolti nella realtà, sempre più dura e difficile a elaborare. Sì, che esistono autori che apprezzo. Ultimamente ho letto con grande interesse tre romanzi: “La consonante k” di Davide Morganti, “Il bambino intermittente” di Luca Ragagnin e “Fragile” di Elena Gottardello. Li ho letti perché conosco e amo gli autori.

3 Lei ha anche insegnato nelle nostre Università. Cosa pensa del mondo accademico italiano?

Negli anni Settanta, alla Sapienza di Roma, ho visto da vicino la collisione tra la tradizione letteraria, filosofica, umanistica italiana, che considero eccellente, magnifica, fondamentale per la nostra civiltà, e l’ondata delle contestazioni sfociata in azioni distruttive, solidamente basate su idiozie ideologiche. La Facoltà di Lettere, quando vi sono entrata per la prima volta, era brutalmente devastata. Ricordo spesso tre shock edificanti. Il primo: da sprovveduta, credendo di andare a un’assemblea di “precari” (ero borsista CNR), mi sono trovata alla Facoltà di chimica in mezzo a un laboratorio di esplosivi per bombe molotov. Pieno di gente indaffarata. Il secondo: mi sono trovata in mezzo a una grande, vera, assemblea di precari il 9 maggio 1978 nell’aula magna della Sapienza. Entrata in ritardo, ho sentito giusto un invito, da parte di un precario importante, di approvare o meno l’uccisione di Moro. Vorrei poter tornare indietro nel tempo e cambiare il risultato di quella votazione. Non ho visto nemmeno una mano levarsi contro. Nemmeno la mia si era levata, corsi via con la morte nel cuore. Non ne parlo mai, preferisco pensare che sia stata un’allucinazione. Il terzo: due anni dopo, facendo un salto in banca tra una lezione e l’altra, ho attraversato l’androne dove è stato ucciso pochi minuti dopo Vittorio Bachelet. Uscendo dalla banca, ho dovuto prendere atto che quel che vedevo era vero. La crisi culturale della nostra epoca usciva allo scoperto. Anzi, saliva sul podio.  Contemporaneamente, dal palcoscenico scompariva la verità.

Oggi sono convinta che non ci sono mai stati da una parte i buoni e dall’altra i cattivi, è tutto molto più complesso. Purtroppo, invece di essere profondamente elaborato, questo capitolo ha finito per essere rimosso, ignorato. Sommerso da verità superficiali. Oggi, la cultura è malata, se non è morta.

Tuttavia, le università di Roma, Padova, Viterbo, e poi di nuovo Roma, mi hanno dato moltissimo. Penso che l’università italiana contenga ancora il genio della cultura classica, cristiana e moderna, penso che sia vivo, che apra le porte verso culture non europee. Che potrebbe nutrire le anime, che potrebbe rendere ricchi, creativi e forti. Se qualcuno ancora queste cose le cerca. Senza cultura l’anima si dissecca, la società materialistica sta morendo di carestia culturale e spirituale.

Non si contano le riforme dell’insegnamento e dei concorsi che si sono succedute nei quarant’anni della mia esperienza universitaria, ma so ormai che non esiste regolamento che potesse sostituire il carattere individuale e la forza etica. Penso che in questa epoca solo la coscienza e la responsabilità individuali contano. E che a volte è meglio perdere.  Stiamo passando, ognuno, attraverso la cruna dell’ago. La via comoda termina con la barbarie.

4 Come definirebbe la sua Repubblica Ceca oggi? Come è vista dai suoi connazionali?

Il paese è vivace, il lavoro non manca, si viaggia, I giovani usufruiscono dei vari Erasmus, la vita culturale è ricca, colorata e animata. Le città sono ben organizzate, il trasporto pubblico praticamente perfetto, non si ha paura di muoversi, nemmeno di notte.

L’obiettivo di istituire una democrazia è stato compromesso fin dall’inizio dal modo di “privatizzare” imprese e grandi proprietà dello stato, e da altre manipolazioni più o meno nascoste. Nelle strade pulitissime si rimane sorpresi vedendo quante persone, anziane, ma non solo, abbiano perso più o meno tutto, anche la dignità. Praga è diventata cara, c’è stato un notevole afflusso di stranieri. Da un lato ci sono ucraini o rumeni che si impegnano per lo più in lavori pesanti, dall’altro persone legate a imprese di vario genere, gente ricca e di solito chiusa in comunità nazionali. Grande e articolata è la comunità vietnamita che si è cominciata a creare fin dalla guerra del Vietnam. Di sicuro nel paese si sono infiltrate varie mafie, soprattutto per riciclare i soldi.

Andando dietro le quinte si capisce che tutto è molto più problematico di quanto sembra. Il regime totalitario aveva creato e coltivato interessi tutt’altro che etici, azioni tutt’altro che socialmente responsabili. Tutto dipende da come si evolverà la crisi che oggi condividiamo tutti, a livello europeo e a quello mondiale. Le iniziative che più apprezzo nel sociale vengono maggiormente da giovani.  La maggior parte delle persone che conosco è ferocemente critica nei confronti del primo ministro e del presidente, i danni prodotti all’ambiente – per esempio dall’agricoltura industriale – sono spaventosi. Come quasi dappertutto. Potrebbe essere peggio, come dappertutto. La maggior parte delle persone non vede la realtà, non la vuole vedere. Come dappertutto. Non so quanto possa durare questo relativo benessere e non so nemmeno dove rischia di approdare a lungo termine.

5 Il romanzo Che ogni cosa arrivi al suo posto è molto più di una storia sugli orrori del Comunismo. Può la nostra storia renderci ancora parzialmente o totalmente inconsapevoli nel partecipare agli eventi pubblici e privati? 

Il mio romanzo non parla degli orrori del comunismo, erano ben altri. Non ho scritto un romanzo storico, semmai un romanzo sull’assurdo quotidiano cui ci si abitua, con cui si convive, eseguendo contorsioni fisiche e morali. Senza rendersi conto di essere in quel modo complici dell’assurdo. E del potere che c’è dietro.

Il romanzo non è autobiografico, ma racconta fedelmente cose reali. Mi ci sono divertita un mondo. Per anni, ricordando e ripensando le cose, mi dicevo che non dovevano essere dimenticate. Le trovavo grottesche, pazzesche, da piangere e allo stesso tempo comiche, incredibili eppure vere. Infatti, più sembrano assurde, più potete essere certi che non sono inventate. Anche se alcuni amici russi si sono sentiti offesi per il racconto di una stramba conferenza segreta a Mosca. Invece si è svolta in quel modo, me l’ha raccontata un partecipante. D’altronde, possiamo essere sicuri che cose ben più strambe e folli hanno avuto luogo lì e altrove. E che continuano ad aver luogo e a svolgere una loro funzione.

La mia intenzione primaria era quella di affrontare il mistero del male. Per diversi anni ho immaginato un personaggio apparentemente normale, mediamente marcio. Sempre schierato dalla parte che conviene, allegro traditore di amici, capace di uccidere per paura della verità della sua vita. Finalmente ho capito che deve essere uno che non si rende conto, che vive con l’aiuto opportuno di una severa cecità morale. Non è disumano, solo che la paura della verità è più forte di lui.

Francamente penso che il male prende forza giusto dall’incoscienza: morale, storica, culturale, spirituale, umana. Non è possibile tirarsi fuori dalla realtà sociale, non dimentichiamo che l’omissione può essere considerata il peccato più grande.

6 Quando si piange troppo spesso si arriva a ridere delle disgrazie? Ritiene che sia un deriva naturale o che l’essere umano si impone per soffrire meno?

Ridere e piangere non sono due reazioni opposte da alternare di fronte alle nostre disgrazie. Se ci si lamenta, si rischia addirittura di consolidare il dolore. Si piange per compassione e si piange egoisticamente, si ride per allegria, ma anche per sarcasmo. Tuttavia c’è un riso, o semplicemente un sorriso, anche segreto, che dà sollievo e può ridonare il buonumore. Sorge dal distacco dalle cose, dall‘osservazione oggettiva e spregiudicata del contesto che finisce con far apparire il lato comico della situazione. L’effetto è nettamente terapeutico. Il riso può avere persino un ruolo noetico che consiste giusto nello scoprire il lato comico (assurdo, risibile, idiota) di una cosa che finora ha fatto solo paura. Magari di una cosa di cui nessuno ha mai osato di ridere. Mettere a nudo un lato ridicolo di un potere, anche bieco, vuol dire togliergli l’autorità. Un potere risibile diventa debole. A impedirci di ridere non sono tanto le nostre disgrazie quanto la paura che proviamo.

7 Come definirebbe il rapporto tra tempo e parole?

Fondamentale. In un romanzo, grazie alla parola, il tempo si trasforma in spazio. Una narrazione non ha bisogno di essere cronologica. Omero fa raccontare a Ulisse cose del passato perché glielo chiedono i Feaci. Il passato si fonde con il presente, il presente illumina il passato, ma non solo. La parola rivela chi è Ulisse. Un libro può essere percorso in un’infinità di direzioni. Ogni percorso è diverso, uno l’abbiamo trovato alla prima lettura, altri se c’inoltriamo dentro di nuovo, ogni volta con un’altra coscienza. Per prendere coscienza dell’essere umano dobbiamo uscire dal tempo, le parole lo permettono.

Un buon libro contiene diverse dimensioni e costituisce un tutto. Un universo. Per capire se un libro è grande basta vedere che cosa succede quando si rilegge. Per scrivere i miei saggi, leggo e rileggo le opere di cui parlo e alla fine, quando il saggio è concluso, mi capita di concepire una lettura ancora più illuminante di quell’ultima.

Il mistero della parola vera è quello di essere viva in un romanzo, in una poesia, in un racconto. O in una situazione. Se invece usiamo le parole banalizzando, mentendo, abusando, parlando a vanvera e comunque senza una vera coscienza, stiamo corrodendo l’opera della creazione. Il Verbo all’inizio non è una metafora, ma ci vuole parecchio per cominciare a intuire di che si tratta.

8 Lei è nata a Brno, città natale anche di Milan Kundera e Hrabal, oltreché di altri scrittori. Cosa pensa di loro?

Brno è una città particolare, molto più concentrata di Praga, culturalmente parlando. Possiede un gergo particolare, per gli estranei incomprensibile. Ha dintorni bellissimi. Caffè, dove s’incontrano poeti e scrittori, per discutere e per litigare. Un’intensa tradizione teatrale, gallerie, parchi. Senso dello humor. Un’atmosfera gentile, a volte dolce, ma anche luoghi pericolosi, da evitare. E’ amatissima dai suoi abitanti.  Ma perché uno scrittore nasce in un determinato luogo, non lo sapremo mai. Hrabal ricorda i suoi nonni di Brno in uno degli ultimi libri di ricordi che ha scritto. Kundera a Parigi si rallegra quando sente l’accento e la melodia della parlata di Brno, sogna di trovarvisi, ma ormai è tardi. Penso che sia molto bello nascere a Brno, ma che sia ugualmente necessario andarsene, pur soffrendo.

9 La Storia è un grande laboratorio letterario per gli scrittori. Cosa pensa di quello che st accadendo in Afghanistan?

Sono sicura che un presidente degli Stati Uniti abbia consiglieri informati e importanti, non credo che si possano fare errori semplicemente stupidi. La domanda è se non ci siano dietro interessi spaventosi. La certezza è che non sappiamo tutte le cose. E che i fatti sono mostruosi.

La Storia ufficiale è una fiaba di convenzione o un falso da manipolazione. Lo scrittore deve avere esperienza concreta e coraggio. Ignorare che cosa ci succede intorno mi sembra osceno.

10 Perché, secondo lei il comunismo viene spesso nominato in Italia, come un modello da cui prendere esempio, un sogno ancora da realizzare, perché si crede ancora il vero comunismo non si sia mai concretizzato davvero, e che difficoltà ha dovuto affrontare nel far conoscere suoi libri qui, dove non si fa altro che parlare di fascismo, perché lo abbiamo conosciuto, a differenza del comunismo?

Ho vissuto l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968 da parte degli eserciti del Patto di Varsavia. L’ha vista in televisione il mondo intero. Nell’autunno dello stesso anno ho fatto un viaggio in Italia e ho incontrato persone che mi dicevano: “Peccato che non siano venuti fino a Roma.” Credevano nella parola comunismo senza conoscere le realtà che denotava, la coltivavano come icona rappresentante una religione rivelata. La fede era assoluta, anche la convinzione di dover essere liberati. Una nuova forma di fede, fede atea. Uno shock ancora più grande l’ho avuto quando, già vivendo a Roma, uno degli amici con cui collaboravo si era messo ad apprezzare Stalin, perché “senza di lui gli operai della Fiat non avrebbero mai ottenuti i loro ottimi contratti di lavoro.” Non parlo di uscite eccezionali. Del resto, anche i miei studenti, negli anni settanta, mi dicevano abbastanza spesso che ero “oggettivamente reazionaria”. Diversi conoscenti, quando tentavo di raccontare loro fatti concreti del presente e del passato nei paesi comunisti, mi fermavano dicendo: “Bisognerebbe vedere.” Dicevo perplessa che, appunto, io avevo visto, ma non si fidavano. La loro fede era più forte del bisogno della verità.

Nel corso del tempo mi sono resa conto che la fede è una necessità dell’anima umana e che una fede astratta, assoluta, fondata solo su un bisogno di dividere il mondo in buoni e cattivi e coltivata con tanto di dottrine, rituali, tradizioni e programmi, può bastare per costruire una base per la vita. Lo trovo spaventoso e pericoloso. La fede basata su una parola del tutto astratta! E non parlo degli intellettuali della sinistra occidentale che si erano resi complici del totalitarismo sovietico propagando quella fede.

I totalitarismi si rassomigliano in molte cose, ma quello che ha aggiunto il totalitarismo comunista è l’istituzionalizzazione della menzogna. Credere senza conoscere, senza voler sapere, accogliendo e ubbidendo ciecamente è un fenomeno sociale. Nel corso del tempo ha cambiato oggetto, dilagando dappertutto.

11 Quanto è importante riconciliarsi con la Storia e quanto cambiarla tramite un romanzo?

Ho scritto il mio romanzo Che ogni cosa trovi il suo posto così come doveva essere scritto. La letteratura non cambia le cose, invece può aiutare a cambiare coscienze. Ma questo è un affare individuale del lettore.

12 Cosa si augura per se stessa e cosa augura a chi aspira a diventare scrittore?

Mi auguro di avere ancora le forze per scrivere quello che vorrei scrivere. E di poter pubblicare in italiano altri miei romanzi, saggi, versi già scritti. Che poi non sono tantissimi.

Non consiglierei a nessuno di diventare scrittore. A colui che sa di dover scrivere costi quel che costi e senza badare a eventuali successi o insuccessi, rivelerei un segreto: quello che si chiama poetica ha radici nella volontà unica e individuale dell’autore, in quella profonda, in gran parte inconscia. Nell’arte, l’estetica nasce dal modo di conoscere il mondo. Diventa quindi una noetica che può arricchire chi partecipa in modo creativo allo spirito creativo che vive nell’opera. La gioia della bellezza che ci dà l’arte viene dalla scoperta di una verità. La quale in un altro modo non si potrebbe esprimere.

Giuliano Gramigna, tra ermetismo e sperimentalismo

Dopo aver studiato giurisprudenza a Milano, lo scrittore e critico letterario Giuliano Gramigna (Bologna, 1920 – Milano, 2006), esordisce come redattore sul periodico milanese <<Tempo>> per poi approdare al periodico <<Settimo Giorno>> e al quotidiano <<Corriere d’Informazione>>. Nel 1952 si trasferisce al <<Corriere della Sera>> collaborando alle pagine culturali.

Il suo primo lavoro letterario è Taccuino (1948), richiamandosi alle tematiche e allo stile dell’ermetismo, ha tradotto autori francesi come Alain-Fournier e Charles-Louis Philippe, e curato e introdotto opere di vari autori. Nei suoi romanzi è andato via via delineandosi un certo gusto per lo sperimentalismo, dal romanzo d’esordio Un destino inutile (1958) ai successivi L’eterna moglie (1963), vicino alle tematiche dell’école du régard, Marcel ritrovato (1969), L’empio Enea (1972), sino a Il gran trucco (1975). Di grande interesse anche la sua produzione poetica: La pazienza (1959), Il terzo incluso (1971), Es-o-Es (1980), La festa del centenario (1989) e L’annata dei poeti morti (1998).

Vale la pena rivolgere l’attenzione sul romanzo di esordio di Giuliano Gramigna, Un destino inutile che lascia pensare a quanto l’esperienza di Proust sia stata determinante per lo scrittore bolognese, incidendo profondamente sulla sua educazione dei sentimenti. Si parla di affinità elettive ovviamente, non certo di imitazione; il romanzo si apre con un preambolo esterno alla vicenda in cui si apprende, tramite un cappellano militare, che Giovanni G. è morto prigioniero in Algeria alla fine dell’ultima guerra. Il sacerdote venuto apposta a Milano per cercare i familiari e consegnare loro le cose lasciate da Giovanni, spinto dall’impulso di indiscrezione suscitato da incontri con amici del defunto, si mette a leggere dei suoi “quaderni” dove Giovanni ha raccontato la sua vita. Il romanzo si svolge in parte a ritroso e comincia quando nasce una prima crisi nel matrimonio tra Giovanni e sua moglie Sandra.

Si chiarisce subito che questo non è un romanzo di fatti, ma di atmosfere e vicende interiori, di analisi, di introspezioni, si tratta dunque di un romanzo psicologico, di una psicologia variegata e sottilissima, dove l’analisi dei moti del cuore è dominata da una lucidità introspettiva che non cede nemmeno nei punti di maggiore tensione sentimentale.

Gli amici giudicano Giovanni un uomo complicato, un ipocrita, un egoista. Giovanni in realtà è un masochista morale (si pensi ad esempio al ricordo dell’episodio del gatto frustato quando era bambino, alle gelosie per Sandra e per gli amici, alla sua morbosa ricerca di una intonazione interiore tra se stesso e il paesaggio circostante; e in fondo il paesaggio stesso è uno stato d’animo. E si pensi anche, entrando in una zona più segreta, a quella ricerca del passato di Sandra collegata alla disperata impossibilità di fermare il tempo, isolandone al di là del suo scorrere i momenti puri del cuore, in cui sembra che debba adombrarsi per Giovanni la felicità). Ma come si comporta Sandra? La donna di fronte a tutto questo si rivela semplice, di scarsa vita interiore; per questo motivo il distacco risultano interni a questo conflitto elementare.

Verso la fine del romanzo si avverte una certa lentezza d’analisi, quando il protagonista torna su alcuni temi morali già trattati. Tuttavia le qualità positive di Un destino inutile risiedono dove memoria e paesaggio si intrecciano in un tessuto di trama sottile e dove l’attenzione psicologica e descrittiva si fondono nella misura di un linguaggio aderente alla complessa natura del personaggio. Un romanzo vivo, dunque, da riscoprire.

Tra i suoi scritti di critica letteraria si ricordano: Interventi sulla narrativa italiana contemporanea (1973-1975), La menzogna del romanzo (1980) e Le forme del desiderio: il linguaggio poetico alla prova della psicoanalisi (1986).

Dagli anni cinquanta fino all’alba del nuovo millennio, Giuliano Gramigna è stato uno dei critici militanti più acuti del nostro dopoguerra, amato e temuto dagli scrittori, ha saputo interpretare i nuovi fermenti del secondo Novecento, dallo strutturalismo alla psicoanalisi, ma nonostante ciò, il suo nome è spesso trascurato dalle storie più aggiornate della critica.

Gruppo 63: tra avanguardia e sperimentalismo

Per comprendere meglio il senso della nascita del Gruppo 63, occorre ricordare cosa fosse la società letteraria italiana  verso la fine degli anni cinquanta. Come ha giustamente constatato Umberto Eco, tra i massimi esponenti del Gruppo 63,

“si trattava di una società che era vissuta in difesa e in muto sostegno, isolata dal contesto sociale, e per ovvie ragioni. C’era una dittatura, gli scrittori che non si allineavano col regime erano a mala pena tollerati. Si riunivanmo in caffè umbratili, parlavano tra loro e scrivevano per un pubblico da tiratura limitata. Vivevano male, e si aiutavano a vicenda per trovare una traduzione, una collaborazione editoriale mal pagata. Era stato ingiusto, forse, Arbasino, a domandarsi perchè non avessero mai fatto una gita a Chiasso, dove avrebbero potuto trovare tutta la letteratura europea. Magari attraverso spalloni, ma Pavese aveva pur letto Moby Dick, Montale Billy Budd, e Vittorini gli autori che aveva pubblicato in Americana. Ma, se da dentro riuscivano a ricevere tutto, o molto, essi non potevano andare fuori”.

Con gli anni sessanta del Novecento dunque il neorealismo è ormai consunto; e il Gruppo 63 è il nuovo movimento viene a sostituire il precedente. In una realtà totalmente negativa, in quello che sembra essere il caos assoluto, ancora brancolante nelle incertezze e nella disperazione del dopoguerra, la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato».

Ancora una volta il concetto fondamentale è trovare un più adeguato rapporto nell’ideologia-linguaggio che darà poi luogo allo sperimentalismo senza limiti sia nella lirica che nella narrativa. Si parte nel in realtà nel 1956 con le prime e non poche esperienze istaurate dal «Verri» la rivista milanese fondata da Luciano Anceschi che aggrega i cosiddetti poeti «novissimi»: Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta e Alfredo Giuliani. La poesia dei novissimi è una poesia capace di agire, di una considerevole efficacia linguistica e confrontandosi con le più vivaci e svariate forme del linguaggio tradizionale non ne dava solo un meccanico rispecchiamento. La nuova poesia si propone come strumento per creare un rapporto attivo con le cose, riducendo la presenza dell’io e affidandosi ad uno schizomorfismo (dissociazione della visione e delle forme) come tappa fondamentale della nuova ricerca.

Stimolati e allo stesso tempo insoddisfatti dei nuovi passi che si stavano muovendo un gruppo di scrittori e critici, tra i quali Umberto Eco, Renato Barilli, Francesco Leonetti, Giancarlo Marmori, Lamberto Pignotti, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli, Luigi Malerba, in occasione di un convegno tenutosi a Palermo nel 1963, creano il «Gruppo 63» affermando il carattere provocatorio della nuova letteratura, la protesta contro il realismo e contro l’assetto della realtà, il carattere dell’opera moderna come «opera aperta», la disgregazione dei linguaggi e l’uso del plurilinguismo. Edoardo Sanguineti diventa l’organizzatore teorico della neoavanguardia, in   In libri come Erotopaegnia (1960), Triperuno (1964), Catamerone (1974), Sanguineti libera i suoi blocchi esemplari di scomposizioni che disgregati fluiscono e producono relazioni solo in modo psichico-onirico. Sanguineti infatti si esercita a scomporre e ricreare «finimondi liquido-sintattici» nella poesia come nel romanzo e nel teatro; è necessario disarticolare ogni struttura della lingua per esprimere una realtà più complessa sempre in relazione con l’onirico e il ludico.

Impegnati nella medesima ricerca e accomunati dalla stessa concezione del linguaggio gli altri componenti del «Gruppo 63» sono Balestrini che salta lasciando spazi bianchi parole e crea collages; Porta che fa l’inventario di contenuti assurdi e sadico-infernali senza speranza di liberazione; Giuliani che con lo schizofrenismo del reale rimanda tutto ad un altro luogo da cui tutto nasce. Lo stravolgimento dei modi di comunicazione è continuamente inseguito e rappresentato ogni bizzarria è significazione di una comunicazione che non può avvenire o che forse può avvenire solo non comunicando come al solito.

Il Gruppo 63 non ha polemizzato contro l’establishment; si è trattato in realtà di una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno  nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Ha senza dubbio infastidito la cosiddetta cultura impegnata fondata sull’unione tra poetica del realismo socialista e marx-crocianesimo, ma non si deve confondere un movimento d’avanguardia con una letteratura sperimentale. Renato Poggioli nella sua Teoria dell’arte d’avanguardia ha fissato le caratteristiche di questi movimenti: attivismo, antagonismo, nichilismo, culto della giovinezza, ludicità, prevalenza della poetica sull’opera, autopropaganda, rivoluzionarismo e terrorismo in senso culturale, ed infine agonismo.
Lo sperimentalismo invece è amore per la singola opera, tendente ad una provocazione al suo interno. Nel Gruppo 63 sono convissute le due anime, ed è ovvio, come afferma ancora Eco, che l’anima avanguardistica abbia prevalso nel creare la sua immagine massmediatica.

Tra le scelte di chi voleva difendere la specificità dell’esperienza letteraria e il libero valore di conoscenza, di chi voleva invece politicizzare l’arte e la letteratura, di chi era preso dall’ossessione dell’attualizzazione e chi invece negava addirittura la letteratura non ci fu scampo e l’ultima occasione di lavoro del <<Gruppo63>> fu la rivista mensile <<Quindici>> durata appena due anni.

Il Gruppo 63 si è consegnato alla storia? è stata davvero un’esperienza utile? Cosa rimane di quel vortice di idee? Del Gruppo 63, rimangono soprattutto l’esempio della abilità a sollevare polemiche faziose e spesso gratuite, come quella scatenata contro Carlo Cassola e Giorgio Bassani,  e ad agguantare buona parte del potere culturale italiano, nonché un certo snobismo.

La neoavanguardia: sperimentalismo ad oltranza

La Neoavanguardia è un movimento letterario cui hanno dato vita critici e scrittori italiani sul finire degli anni 1950, con la crisi dell’entusiamo post-resistenziale, con la presa di coscienza che la situazione politica venisse a rinchiudersi e con la messa in discussione della “teoria del rispecchiamento” (propria del neorealismo che aveva dato vita ad opere come Cristo si è fermato a Eboli, Uomini e no, Se questo è un uomo) da parte della fenomenologia e dello strutturalismo. È nel campo letterario il riflesso più vistoso del generale impulso alla modernizzazione che ha investito la cultura italiana nella seconda metà degli anni 1950. L’ impulso a favorire l’incontro con nuove discipline e indirizzi di pensiero quali la sociologia, l’antropologia, la linguistica, la psicanalisi e la fenomenologia, apre le porte ad un consistente aggiornamento scientifico nel lavoro dei critici, a cui segui anche il rifiuto della letteratura allora in auge.

Autori come Giorgio Bassani, Carlo Cassola, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini sono accusati di tradizionalismo provinciale e disimpegno intellettuale. La neoavanguardia recupera l’audacia sperimentale delle avanguardie storiche, innanzitutto del futurismo, battendosi per la definitiva consacrazione di Carlo Emilio Gadda. L’ingegnere milanese è assunto a paradigma del nuovo, insieme ad una programmatica rinuncia alla comunicazione e ad uno sconvolgimento dell’ordine linguistico. In una realtà negativa la neoavanguardia vede la poesia come «mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato». La tesi della nuova scuola è un nuovo concetto del rapporto ideologia-linguaggio che dà luogo allo sperimentalismo ad oltranza nella lirica e nella narrativa. Tutto per negarsi al consumo promosso dall’industria culturale e per smascherare la falsità dei modelli di comunicazione imposti dallo sviluppo neocapitalistico.

La neoavanguardia vuole contestare il carattere ideologico della comunicazione linguistica e della struttura economica e sociale da cui la comunicazione deriva. Edoardo Sanguineti (1930) genovese, organizzatore teorico della neoavanguardia, in Ideologia e linguaggio (1963) e in Avanguardia, società, impegno (1966), riconosce la mercificazione della comunicazione linguistica e dell’opera d’arte perché esse dipendono dal mercato capitalistico. L’arte dell’avanguardia vive brevemente, rompendo col suo grido la mistificazione capitalistica. Come poeta di neoavanguardia, Sanguineti scompone la collocazione delle parole tenute legate dai segni convenzionali, le allinea in modo mistilingue mescolando latino medievale, greco, neologismi scientifici, cifre alfabetiche e numeriche, rappresentando così il caos schizofrenico, la nevrosi del tempo vissuto. Lo sconvolgimento linguistico é perciò un’omologia strutturale della realtà che sconvolge la coscienza, così come era avvenuto col futurismo o con il surrealismo (come si può notare nell’opera sperimentale Laborintus)

Il principale luogo di elaborazione di tali idee sono le riviste. In particolare <<Il Verri>>, rivista fondata nel 1956 da Luciano Anceschi; importanti contributi provengono anche dalle pagine di <<Menabò>>; e dalle riviste <<Malebolge>>, 1963-67, <<Il Marcatré>>, 1963-72 e <<Grammatica>> del 1964.
La coscienza di aver giocato un ruolo fondamentale nell’aggiornamento della letteratura italiana rispetto la resto della letteratura europea e del mondo è sempre accompagnata dalla consapevolezza che il paradigma culturale con il quale ci si stava mettendo al passo non era esattamente ‘novissimo’. Esemplare è quanto scrive Giorgio Celli parlando del ‘parasurrealismo’ di <<Malebolge>>:

“Il nostro paese non aveva potuto vivere l’esperienza surrealista […] Si poteva far qualcosa per colmare questo gap culturale?” La risposta è chiarissima: “[…] non era più lecito essere dei surrealisti in senso proprio, se negli anni Sessanta Breton era ormai un fossile storico. […] Volevamo, insomma, rivisitare da filologi, e riprodurre da falsari, la poetica e i metodi del surrealismo storico” proponendone “una rilettura, in chiave, per così dire, manierista”.

Angelo Guglielmi scrive:

“Ritenemmo (e lo facemmo), che fosse necessario aprire le nostre lettere, fin lì chiuse in un provincialismo non più pregnante, alle grandi correnti del pensiero moderno, dalla psicanalisi, alla fenomenologia alla teoria della relatività di Einstein, dallo strutturalismo alla semiologia, al formalismo russo, alla Scuola di Praga, alla linguistica che oltralpe, in Francia, in Germania, in Inghilterra, erano da tempo vive e operanti e avevano condizionato e nutrito i grandi capolavori della modernità dalla Waste Land di Eliot, ai Cantos di Pound, all’Ulysses di Joyce, all’Uomo senza qualità di Musil, al Processo di Kafka, alla Ricerca di Proust. Questi e molti altri appartenenti alla stessa temperie culturale erano i testi che allora leggevamo e tenevamo a modello”.

La cultura dei ‘Novissimi’ si fonda in larga misura su opere di filosofia, di etnologia, di antropologia culturale, di psicoanalisi, di linguistica, di semiotica e perfino di fisica e di economia; fra gli autori più frequentati ci sono Marx, Freud, Jung, Saussure, Gramsci, Husserl, Heidegger, Wittgenstein, Lévi-Strauss, Foucault, Althusser, Derrida.
Con la “scoperta” della centralità del linguaggio e con la questione della “riduzione del soggetto” i Novissimi hanno toccato un punto centrale dell’arte contemporanea. Tuttavia, hanno probabilmente scelto soluzioni difettose, che ne limitano il campo d’azione, basti pensare all’elaborazione di un linguaggio incomprensibile, incapace di comunicare ai più, ma appannaggio degli specialisti della letteratura.

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