Non solo ‘Twilight’: come il Novecento ha rivoluzionato la figura del vampiro

Quella del vampiro è sicuramente una delle più amate dalla letteratura, tanto che da almeno duecento anni a questa parte non si è mai smesso di parlarne e di creare moltissime narrazioni, non solo su carta, che hanno come protagonista questa figura.

Negli anni, però, il vampiro si è quasi completamente trasformato da una creatura sanguinaria e senza pietà a un’anima tormentata e molto più umana di quanto ci si aspetta. È quindi interessante analizzare l’evoluzione di questa enigmatica figura nella letteratura.

L’origine del vampiro nella letteratura

Intesi come essere soprannaturali che si nutrono del sangue delle loro vittime, solitamente umane, i vampiri esistono da millenni e sono presenti nel folklore di moltissimi popoli di tutto il mondo.

Le prime testimonianze scritte, ma non solo, che raccontano delle gesta di queste creature sono quasi altrettanto antiche: creature simili ai vampiri appaiono nel Kathāsaritsāgara indiano risalente all’XI secolo d.C., mentre i persiani rappresentarono questi esseri attraverso la pittura, come si evince da alcuni cocci ritrovati dagli archeologi.

La stessa Lilith della tradizione ebraica sembra condividere alcune caratteristiche con quelle dei vampiri e anche le lamie greche e le empuse romane erano famose per la loro passione per il sangue umano. Per tutto il Medioevo continuarono a diffondersi leggende riguardanti i vampiri e piano piano la figura che oggi identifichiamo con quella del vampiro iniziò a prendere forma in est Europa.

L’illuminismo e i vampiri

Nel 1764 nel suo Dizionario filosofico Voltaire inserisce una voce riguardante i vampiri, dando la prova che l’Illuminismo non fu in grado di estirpare questa credenza e nel campo della narrazione il vampiro moderno iniziò ad apparire verso la metà del XVIII secolo per mano di autori come Ossefender o Goethe.

Il Romanticismo

È però durante il Romanticismo e con la nascita del romanzo gotico che vede la luce in maniera definitiva il vampiro letterario per eccellenza, come creatura seducente ma pericolosa e senza scrupoli, grazie a opere come Il vampiro di Polidori o Carmilla di Le Fanu.

Non si può però parlare di vampiri nella letteratura senza citare il celeberrimo Dracula di Bram Stoker, l’opera forse più famosa che ha come protagonista questa creatura, pubblicato per la prima volta nel 1897.

Da allora il conte Dracula, a sua volta ispirato alla figura storica di Vlad l’impalatore, divenne quasi sinonimo di vampiro, portando con sé tutta una serie di stilemi duri a morire come la capacità di trasformarsi in pipistrello o la predilezione per la Transilvania.

 

La rivoluzione del vampiro

Dopo aver stabilito con certezza le caratteristiche del vampiro tradizionale, il XX e il XXI si sono senza dubbio impegnati a rivoluzionare questa figura, stravolgendone le regole e inserendola in setting insoliti. Un esempio lampante è il libro Io sono leggenda del 1957, ambientato in un futuro post-apocalittico abitato da terrificanti creature simili a zombie che si nutrono del sangue umano.

Stephen King nel 1975 con Le notti di Salem inserisce invece dei vampiri senza scrupoli in un’ambientazione a prima vista tranquilla: una normale cittadina americana degli anni ‘70.

Nel 2010, invece, i vampiri incontrano vere figure storiche nel romanzo Abraham Lincoln, Vampire Hunter di Seth Grahame-Smith, da cui è stato anche tratto un adattamento cinematografico, che immagina una versione alternativa del XIX secolo in cui gli USA sono popolati da vampiri che vengono sterminati da niente poco di meno che Abraham Lincoln in persona.

La più grande rivoluzione degli ultimi decenni riguardante il vampiro nella letteratura ha però reso questa figura quella del protagonista tormentato.

Il filone Twilight

A molti, a questo punto, verrà in mente la serie di libri Twilight firmata Stephenie Meyer, sul cui filone sono nate moltissime altre opere di finzione partendo da una serie di film di successo arrivando perfino a slot machine come Immortal Romance, i cui protagonisti sono appunto degli affascinati vampiri.

Stephenie Meyer non è però stata la prima a chiedersi “cosa succederebbe se i vampiri fossero buoni e ce ne potessimo perfino innamorare?”.

A partire dagli anni ‘70 con le opere di Anne Rice, infatti, la letteratura ha iniziato a passare il microfono ai vampiri offrendo loro la possibilità di raccontare il loro punto di vista. Romanzo dopo romanzo sono emerse sempre più spesso creature travagliate, con un passato sofferto e una forte lotta interiore e che interagiscono con i protagonisti umani.

Altri libri di successo

Ne sono un esempio i più di venti libri di Laurell K. Hamilton, il cui primo volume è Nodo di sangue, in cui i vampiri sono sia gli avversari dei protagonisti che alleati e perfino oggetti del loro amore.

Alcune opere, inoltre, hanno riscosso un successo quasi paragonabile a quello di Twilight; è il caso ad esempio della serie di romanzi Il diario del vampiro, che ha ispirato a sua volta la serie tv di successo The vampire diaries e un videogioco omonimo.

Se negli ultimi anni sembra essere passata la febbre per i vampiri, il mondo della letteratura difficilmente abbandonerà questa creatura affascinante. Fin dall’antichità, infatti, abbiamo sentito il bisogno di raccontare le gesta, spesso terrificanti, dei vampiri, rendendo però questa figura negli anni sempre più complessa e meno crudele del previsto.

I mostri a due Teste dell’Istruzione Americana: i Dottorati di Scrittura Creativa

Dottorati in inglese e scrittura creativa. Sembra assurdo, all’occhio dell’italiano sepolto tra i tomi di letteratura e critica letteraria. Un’analisi femminista dell’opera di Molière. Letterature comparate come se piovesse. La schiena dello studente che s’incurva sempre di più, le gocce di sudore che cadono inesorabilmente sulle righe fitte fitte scritte da uno studioso estone dal nome impronunciabile. Questo significa fare un dottorato in materie umanistiche. Nient’altro.
D’accordo, sto esagerando. E’ vero anche che, secondo una qualche convinzione comune, studiare scrittura creativa in Italia va bene come hobby della domenica alla scuola privata o al club del libro di paese.

Non fraintendetemi: sono tutte esperienze che arricchiscono sempre, nel bene e nel male. I libri dell’aspirante scrittore, soprattutto se ha l’obiettivo di vendere parecchio, saranno letti non solo dagli intellettuali e dai critici, ma soprattutto dalla gente “comune”. Quindi il parere del circolo del libro è importante tanto quanto quello del professorone di letteratura. D’altro canto, per noi italiani, pensare di specializzarsi a livello di dottorato in una materia come Creative Writing sembra quantomeno bizzarro. Eppure il PhD in Creative Writing, o meglio, il “PhD in English, with Emphasis on Creative Writing” (Inglese con focus sulla Scrittura Creativa), esiste. E, a seconda della specializzazione dello studente, può vertere su fiction, poetry, non-fiction e altri generi (playwriting, screen writing, etc.). Insomma, quando hai finito i quattro anni di corso non dovresti (teoricamente) essere soltanto un cervellone, ma anche uno scrittore. Come se essere una sola delle due non fosse abbastanza complicato.

Il PhD in Inglese e Scrittura Creativa non è una passeggiata. Non è tutto readings (così sono chiamate le letture pubbliche) e discussioni su racconti al chiaro di luna accompagnati da birre e sigarette. O meglio, a volte lo è, ma ne è solo la parte più piacevole. Per essere un buon dottorando è opportuno imparare a insegnare inglese, scrivere secondo i canoni accademici e, ovviamente, fare ricerca. Ma non solo. Perché ovviamente, tra una conferenza, un meeting e un corso, lo studente dovrebbe anche cercare di scrivere i suoi sofferti romanzi. O racconti. O poesie. O memoir. Le cosiddette giornate di venticinque ore non sono mai abbastanza per il dottorando.

Ma alla fine – che poi è questo il punto focale – alla fine, questi studenti, questi ipotetici cervelloni, un contratto a una casa editrice lo strapperanno prima o poi o no? E se anche la risposta fosse sì, è davvero necessario prendere un dottorato per essere pubblicati? Assolutamente no. Per quello ci vogliono solo fortuna e talento.
Per quanto comprenda a pieno le controversie riguardo l’effettiva utilità di un corso di scrittura creativa, non solo a livello di workshop presso una scuola privata ma anche a livello accademico, riconosco che la scelta di conseguire un master (qui si chiamano MA o MFA, Master of Arts o Master of Fine Arts) o un dottorato in Creative Writing sia più intelligente di ciò che possa sembrare. Questo vale sia per lo scrittore in erba che per quello già pubblicato.

Diciamoci la verità: per quanto il sistema editoriale statunitense sia molto più fluido e prospero di quello italiano, pochissimi scrittori possono permettersi di vivere esclusivamente delle vendite dei propri romanzi o raccolte. Stephen King riceve anticipi da capogiro, e per questo può tranquillamente starsene a casa a fare foto alla sua canina Molly “The Thing of Evil” per postarle su Facebook (se non lo avete ancora fatto, a proposito, seguitelo. Non ve ne pentirete). Ma la maggior parte degli scrittori non può certo vantarsi di ricevere cifre simili per i propri lavori. Per questo motivo, però, grazie all’altissimo numero di programmi di Creative Writing in tutti gli USA, gli autori possono comunque vivere della propria scrittura, insegnando ciò che hanno imparato a una nuova generazione di aspiranti scrittori. In altre parole, gli scrittori pubblicati hanno bisogno di “finanziarsi” per permettersi di svolgere il mestiere che vorrebbero fare i loro stessi studenti, ovvero coloro che un giorno avranno lo stesso identico problema economico, a meno che tra le loro fila non si nasconda una nuova J.K. Rowling o James Patterson.

Conseguire un dottorato o un master significa quindi incontrare i criteri per poter insegnare all’università, dedicando una buona fetta di tempo alla didattica, ma garantendosi la tranquillità che basta per sedersi alla scrivania e scrivere senza doversi svegliare nel bel mezzo della notte col pensiero delle bollette che incombono.
Non sto dicendo che il motivo per cui i programmi in scrittura creativa a livello accademico abbiano avuto un enorme successo sia solo quello di sostenere gli scrittori pubblicati alla canna del gas. Alcuni docenti e scrittori credono profondamente nella didattica della scrittura creativa e provano un’enorme soddisfazione nel vedere i propri studenti crescere e sviluppare quella che chiamiamo “voce”. Non tutti hanno il talento né la costanza di continuare a scrivere a prescindere da ciò che viene richiesto dal professore, ma quello che conta è che in un dottorato di inglese e scrittura creativa non siano solo i corsi di poesia e narrativa ad arricchire l’esperienza dello studente. Il dottorando seguirà corsi di letteratura, di composizione, di linguistica. Non tutti strapperanno un contratto alla casa editrice, ma magari, tra le fila di chi vorrebbe diventare un grande scrittore, si nasconde anche chi diventerà un importante critico letterario, uno spietato agente, un talentuoso editore, un magnifico insegnante di letteratura o un brillante giornalista.

Studiare scrittura, leggere i grandi autori, analizzare le loro storie, vite e opere non può mai fare male, anche se non dovesse risultare in un anticipo da due milioni di dollari alla Penguin per il romanzo del secolo. Ecco perché, forse, dovremmo imparare dalla fiducia che gli Americani hanno nell’idea che ognuno prima o poi troverà la propria strada, dall’orgoglio di aver fatto parte di una comunità specifica (quella del campus) e di aver studiato una materia così interessante. Fidiamoci di noi stessi, senza mai darci importanza. Crediamoci. Negli Stati Uniti purtroppo l’istruzione è molto costosa, ma con una buona dose d’impegno è possibile lavorare all’università, e solitamente gli studenti del dottorato sono pagati profumatamente per studiare. Pagati per studiare ciò che vogliono, che sia letteratura, scrittura, linguistica. Solo questo dovrebbe convincerci che, dopotutto, fare un dottorato in Scrittura Creativa poi così male non è.

 

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