‘Cioccolata calda per due’ il romanzo storico sulle Foibe di Nunzia Gionfriddo

Un libro dal titolo romantico all’apparenza, perché il romanzo di Nunzia Gionfriddo, in edizione rinnovata, parla di tutt’altro. L’autrice, nota per la sua abilità nello scrivere di fatti storici, per non dimenticare i massacri delle foibe e l’esodo istriano, torna in libreria con “Cioccolata calda per due”. Romanzo edito da Phoenix Publishing, già vincitore del Premio Milano International. È un romanzo articolato, che tutto ha meno del romantico anche se il titolo trae in inganno. Nelle 214 pagine sapientemente scritte dalla Gionfriddo, il lettore potrà leggere di un amore antico e dal sapore altro che dolce, dove al centro dei fatti che verranno narrati ci saranno storie tragiche: di guerra, sofferenza, rassegnazione, dolcezza, sgomento e inesauribili attese.

“Il viaggio di ritorno in treno fu molto triste.

Non la consolarono la bellezza delle Alpi, che questa volta vide al tramonto e all’imbrunire, quando si intravedeva solo la loro sagoma nera.

Il veloce e affusolato serpente di acciaio, correndo tra le valli e sui ponti, le concesse la vista delle case dei montanari che si illuminavano per la notte, palpitanti di vita.”

Nel libro l’autrice riporta sotto forma di storia romanzata i fatti tragici del “secondo Dopoguerra che hanno interessato Istria, Dalmazia, Fiume, Trieste e, anni dopo nel 1992-95 il tentativo d’invasione serba della Bosnia, le atroci sofferenze e le decimazioni subite dalle popolazioni, nell’indifferenza delle grandi nazioni europee.

Giovanni è uno dei protagonisti principali, ispirato a un caro amico della scrittrice, compresa la sua famiglia e la misteriosa scomparsa della moglie. La scrittrice ci ha messo quasi due anni a dare luce a questo romanzo ed è stata sollecitata più volte anche da colleghi scrittori illustri.

Sta di certo che, attraverso un fitto dialogo e delle immagini storiche, ha fatto parlare i protagonisti anche quando ha raccontato di fatti raccapriccianti che sapevano di morte.

La stessa autrice afferma nella sua prefazione: “Quando l’ho scritto non sapevo dove sarei arrivata”.

 

Sinossi dell’opera

Con l’obiettivo di approfondire le sue ricerche sulle vicende drammatiche avvenute nell’ex-Jugoslavia, Florinda chiede aiuto a Giovanni, giornalista. Ben presto, la donna si scontra con il dolore profondo, mai superato, dell’uomo che in quegli eventi terribili ha perso la moglie. Ne nasce un amore fatto di scambi d’idee, ricordi, piccole condivisioni, riti comuni come una cioccolata al bar, una passeggiata nel quartiere, una gita al mare. I fatti tragici del secondo dopoguerra che hanno interessato Istria, Dalmazia, Fiume, Trieste, il tentativo d’invasione serba nella Bosnia, le atroci sofferenze e le decimazioni subite dalle popolazioni, nell’indifferenza delle grandi nazioni europee irrompono nella loro quotidianità.

 

Biografia dell’autore

 

Nunzia Gionfriddo, è nata a Napoli e si è laureata in Lettere e Filosofia, presso l’Università “Federico II”, ha insegnato negli Istituti Medi Superiori. Ha collaborato con il “Dipartimento di Italianistica” e con la cattedra di “Storia della Scienza” dell’Università “La Sa­pienza” di Roma. Si è interessata dei rapporti tra scienza, storia e letteratura, partecipando al dibattito culturale con alcuni saggi, tra cui L’incanto della camera oscura in Giacomo Leopardi, pubblicato dalla Rivista Letteraria “R I S L” (Rivista Internazionale di Studi Leopardiani), diretta da Emilio Speciale e L’Ultrafilosofia si fa poesia, in “Leopardi e il pensiero scientifico”, a cura di Giorgio Stabile.  Ha collaborato con la rivista “La Rassegna della Letteratura Italiana” di Firenze, a cura di A. Ghidetti, per la recensione di saggi storici e letterari.  In questi ultimi anni si è dedicata alla stesura di romanzi, di cui Chiocciole vagabonde è stato il primo, pubblicato nel 2013, a cui ha fatto seguito Raccontami la mia storia, ed. Robin, 2016 e Gli angeli del rione Sanità, Kairos edizioni, 2017.  Nel 2019 è uscito nelle librerie il romanzo Cioccolata calda per due, Pegasus Edition, vincitore del secondo premio al concorso Milano International”, di cui la presente è la seconda edizione. Proprio in questi giorni è stato presentato alla critica “Scrivere di donne”, Homo Scrivens. Tutti i libri sono stati insigniti di numerosi premi, sia da non editi che da editi. Dal 2019 è rappresentante dell’associazione “I.P.L.A.C.” per la diffusione della cultura letteraria e artistica in Campania.  Dal 2018 è stata invitata a far parte di giurie per i concorsi per autori di narrativa o poesia, tra cui “Voci” a Roma e “Zingarelli” a Cerignola.  Il 12 agosto 2019 ha presentato al Festival dell’Isola del Cinema di Roma, durante la rassegna IPLAC “Un Ventaglio di Carta” il suo romanzo “Cioccolata calda per due”.

La pluriennale esperienza nel mondo culturale italiano e in quello universitario storico e scientifico ha reso possibile alla scrittrice di privilegiare nei suoi romanzi la componente storica, non per offrire uno sfondo superficiale ai suoi racconti, ma per dare agli avvenimenti storici il ruolo di coprotagonista, tale da interessare il lettore o uno studente. A volte un “romanzo storico” non di parte e scritto bene può insegnare ed educare di più di un manuale scolastico, come ci dimostrano autori come Ippolito Nievo, Federico De RobertoPrimo Levi, senza dimenticare il triestino, di lingua slava Boris Pahor, tanto per citarne alcuni.

 

Editore: Phoenix Film Production

Collana: Talos

EAN: 9788894480887

Pagine: 214 p., brossura

Anno edizione: 2022

 

Contatti:

 

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Carlo Levi e l’arte della politica al Casino dei Principi in mostra dal 29 novembre ai musei di Villa Torlonia

Il Casino dei Principi di Villa Torlonia ospita dal 29 novembre 2019 al 22 marzo 2020 la mostra “Carlo Levi e l’Arte della politica. Disegni e opere pittoriche”, nata su iniziativa del Centro Carlo Levi di Matera e in associazione con la Fondazione Carlo Levi.

L’esposizione, che presenta 58 disegni politici e 46 opere pittoriche, è a cura di Lorenzo Rota, Mauro Vincenzo Fontana (Centro Carlo Levi di Matera) e di Daniela Fonti e Antonella Lavorgna (Fondazione Carlo Levi), in collaborazione con Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Polo Museale della Basilicata – Museo di Palazzo Lanfranchi.

La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura. Per i possessori della MIC Card l’ingresso alla mostra è gratuito.

L’esposizione scaturisce dalla presa d’atto che nella multiforme ricostruzione delle diverse modalità di espressione artistica della poliedrica personalità di Carlo Levi (dalla letteratura alla poesia, dalla pittura al disegno), operata dalla storiografia artistica letteraria e politica negli oltre quattro decenni che sono trascorsi dalla sua morte, mancava un tassello: quello della riflessione sistematica sulla sua ‘grafica politica’, che si è per gran parte realizzata a cavallo degli anni 1947-1948, sulle pagine del quotidiano “L’Italia Socialista” diretto da Aldo Garosci.

I 58 disegni politici in mostra raccontano, in forma artistica sintetica e ironica, la stagione politica di formazione dell’Italia Repubblicana e registrano il passaggio cruciale che porterà, dal 1949, alcuni protagonisti di quella stagione (Olivetti in primis) all’impegno nella “politica del fare”.

Questa sezione espositiva e il relativo catalogo, si propone di dare un contributo alla valutazione critica complessiva della grafica politica di Levi, collocata nell’ambito della sua ampia produzione artistica, e della grafica italiana a lui contemporanea.

Una seconda sezione della mostra verte su un nucleo di 46 opere pittoriche dell’artista (nella maggior parte di proprietà della Fondazione Carlo Levi, con alcuni prestiti inediti di collezioni private) riferibili al periodo cronologico 1932-1973.

Queste opere integrano lo scorrere delle vicende storiche toccate dal giornale e dalle vignette, segnalando di volta in volta affinità stilistiche, riprese tematiche, ma assai più spesso l’assoluta originalità e autonomia del Levi illustratore satirico rispetto all’artista o all’autore di Cristo si è fermato a Eboli o de L’orologio, uscito nel 1950.

Quest’ultimo romanzo condivide con le tavole grafiche esposte lo stesso humour ironico e l’acuta capacità di analisi storica. Fra gli oli presenti in mostra, molti ritratti dei protagonisti dell’ambiente politico di quegli anni, quadri legati agli anni della guerra e nature morte, fino alla ripresa, in chiave di “realismo sociale”, delle tematiche meridionaliste tanto care all’autore.

Il catalogo della mostra, edito dall’Editore Giannatelli di Matera, raccoglie i testi di Lorenzo Rota, Giampaolo d’Andrea, Filippo Laporta, Nicola Filazzola, Mariadelaide Cuozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Michele Tavola, Daniela Fonti e Antonella Lavorgna.

Femministe d’assalto, prendete esempio da Maria Maddalena Rossi e dedicatele la festa della donna!

Femministe di lotta e di denuncia, compagne di piazza e di corteo, parlamentari progressiste e radicali, combattenti antifasciste, antisessiste e attrici che considerate gli uomini “pezzi di merda” (senza porvi il problema che le loro madri dovrebbe essere della stessa materia di cui sono composti i loro figli), vi invito a fare una piccola ricerca in occasione dll’8 marzo. Andate a scoprire chi era Maria Maddalena Rossi e dedicate a lei la festa della donna. Per aiutarvi nella ricerca vi dirò che aderì al Partito comunista quand’era ancora clandestino, fu arrestata dalla polizia fascista, mandata al confino, espatriata. Poi fu eletta nell’assemblea Costituente nel gruppo comunista, fece battaglie per la parità dei diritti delle donne; fu parlamentare del PCI, sindaco, Presidente dell’Unione Donne Italiane. Morì novantenne nel ’95. Insomma ha tutti i titoli per essere celebrata da voi.

Perché vi parlo di lei? Perché nel ’52 aprì in un’interrogazione parlamentare un capitolo scabroso e rimosso della Seconda guerra mondiale nelle vulgate storiografiche sulla liberazione: le marocchinate, ovvero le 25mila o forse più donne italiane, soprattutto nel basso Lazio, stuprate, violentate dalle truppe marocchine venute a “liberare” l’Italia con gli alleati. In Ciociaria, in particolare, fu uno scempio, di cui restò traccia molti anni dopo nel film La ciociara di Vittorio De Sica con Sophia Loren, tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Donne stuprate, bambini violentati, più di mille uomini uccisi per aver cercato di difendere le loro donne, madri, mogli, sorelle, fidanzate, figlie.

Nel dibattito parlamentare che seguì all’interrogazione della Rossi venne fuori che il numero più attendibile era di 25mila vittime, ma se si considera che il campo d’azione dei magrebini andava dalla Sicilia alla Toscana, il numero di 60mila marocchinate è considerato plausibile. Il pudore nel raccontare queste storie ne ha perfino ridotto la portata: si voleva tutelare col silenzio l’onorabilità di quelle donne, e non sottoporle anche a una gogna umiliante. La responsabilità oltre che dei soldati marocchini, fu dei vertici dell’esercito francese che dettero loro sostanziale impunità e carta bianca, come un tribale bottino di guerra con diritto di preda. Non furono i soli, intendiamoci, in questa barbarie. Ma un fenomeno così vasto e quasi pianificato, su donne inermi che non avevano colpe, genera raccapriccio per la ferocia animalesca, più una scia di aborti coatti, nascite segnate, famiglie distrutte. Una pagina rimasta in larga parte impunita e rimossa.

Vi risparmio le migliaia di storie strazianti e di interi paesi violentati, quando ormai il sud era “liberato”. Per chi voglia approfondire, rimando ai libri sulle marocchinate di Emiliano Ciotti, Stefania Catallo e di una francese d’origine italiana, Eliane Patriarca. Un corposo e documentato dossier uscì alcuni mesi fa sulla rivista ‘Storia in rete’ di Fabio Andriola.

Ma volevo sottolineare che una donna comunista, leader delle donne in lotta, antifascista col fascismo imperante – non come i grotteschi militanti postumi dell’Anpi d’oggi – ebbe il coraggio e l’onestà di denunciare questo obbrobrio, che per ragioni di antirazzismo e antifascismo ora si preferisce mettere a tacere. Le stesse ragioni che portano a non scendere in piazza se una ragazza oggi è stuprata e uccisa da branchi di migranti. Come dimostra lo strazio di Pamela a Macerata, c’è la sordina sul femminicidio se a compierlo sono migranti, per giunta neri. O dimenticare quelle donne violentate, rasate a zero e uccise solo perché ausiliarie della Repubblica sociale o seviziate e uccise nelle foibe solo perché italiane.

Magari scoprirete che persino il Pci sessista di quegli anni aveva più donne rappresentative nei suoi ranghi rispetto al Pd femminista di oggi che non ha neanche mezza donna ai suoi vertici: non una tra i candidati alle primarie, non una tra i suoi premier e i suoi presidenti, non una tra i capi e capetti di questi ultimi anni, non un sindaco di una grande città. Il partito più maschilista d’Italia.

Probabilmente la Rossi dovette vedersela anche allora con le reticenze dei suoi compagni, lo strisciante maschilismo del vecchio Pci e l’omertà storica e ideologica sulle pagine nere dei “liberatori”. Anche perché ne avrebbero richiamato delle altre, per esempio gli eccidi nel Triangolo rosso. Ma noi volevamo indicare per l’8 marzo alle boldrini d’oggi e alle femministe d’assalto o in odore di mimosa, una femminista verace, comunista e antifascista, che non si tirò indietro a raccontare le scomode verità e le pagine nere della Liberazione.

 

Femministe, prendete esempio

‘Red Land’, un film sul massacro di una ragazza istriana per ricordare le Foibe

In occasione dell’anniversario delle Foibe, consigliamo la visione del film Red Land, terra rossa, uscito lo scorso anno, dedicato alla storia di una ragazza istriana, Norma Cossetto, che fu violentata, massacrata e gettata nelle foibe dai partigiani comunisti di Tito, sostenuti dai partigiani comunisti nostrani, solo perché era la figlia del segretario politico del fascio locale. Norma era una studentessa, laureanda a Padova con una tesi dal titolo Istria rossa, rossa come la terra istriana, ricca di bauxite. Quella tesi, e quella terra rossa diventa la metafora che dà il titolo al film ed evoca il sangue versato sulla terra istriana e il colore dell’ideologia che condusse allo sterminio.

È un film duro anche se sa essere delicato nelle scene dello stupro. Il regista è un argentino, Maximiliano Hernando Bruno, la protagonista è Serena Gandini. Il corpo di Norma fu ritrovato dai pompieri nel ’43, l’ultimo testimone è un vigile del fuoco di 98 anni e ha raccontato che la ragazza la ritrovarono quasi seduta nella fossa carsica, con gli occhi che cercavano la luce all’imbocco della foiba. Una storia terribile in cui il Male appare quasi assoluto, diabolico, più che bestiale.

Estate del 1943. Il 25 luglio Mussolini viene arrestato e l’8 settembre l’Italia firma quell’armistizio separato con gli angloamericani che condurrà al caos. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a se stessi nei teatri di guerra ma anche e soprattutto per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini avendo la sola colpa di essere Italiana e figlia di un dirigente locale del partito fascista.

Perché è così difficile parlare di foibe nel cinema italiano ma anche nelle scuole e nei media? Perché evoca il capitolo più infame del Novecento, il comunismo e i suoi orrori, che si spargono lungo settant’anni, tre continenti, centinaia di milioni di vittime e di oppressi. Una catastrofe che non ha paragoni. Ma tutto questo va rimosso, come ben sappiamo.

Ricordiamo i guai che passarono alcuni che sollevarono il velo d’omertà sulle foibe; per esempio Renzo Martinelli, regista di Porzus, un bel film sull’eccidio dei partigiani bianchi della brigata Osoppo (tra cui il fratello di Pasolini) da parte dei partigiani rossi. E di recente, la barbarie di chi augurava la riattivazione delle foibe per infoibare i “sovranisti” di oggi.
Solo di recente lo Stato italiano riparò al vergognoso oblio, la trucida omertà, e il presidente Ciampi consegnò una medaglia d’oro alla memoria di Norma Cossetto. La meritoria iniziativa partì allora da Franco Servello, vecchia guardia dell’Msi in versione An. La studentessa aveva già ricevuto nel ’49 la laurea honoris causa postuma, alla memoria, su proposta del latinista e comunista Concetto Marchesi dall’Università di Padova. Ma una lapide nello stesso ateneo la ricordava assurdamente tra le “vittime del nazifascismo”. Lei che era stata barbaramente trucidata dai comunisti di Tito. Un vile oltraggio alla verità e alla memoria, che la uccideva una seconda volta. Red Land è stato realizzato da Rai cinema col sostegno della Regione Veneto.

La memoria non si dovrebbe identificare solo con l’orrore ma anche col positivo ricordo di epoche, eroi, eventi del passato. Bisognerebbe stancarsi di questa guerra postuma a colpi di sterminio, temere le speculazioni politiche, le approssimazioni nei giudizi, i piccoli interessi del momento, le cecità dell’odio; detestare il già detto mille volte, seppure invano. Ma non possiamo sottrarci – per una sorta di dovere civico, etico, spirituale – dal ricordare quella storia che l’Italia ufficiale, sempre premurosa davanti a ogni ricorrenza purché antifascista, preferisce sbrigare con brevi, fredde, formali cerimonie. Perciò raccontiamo quella storia che invece andava cancellata. Era fuori norma.

 

Fonte:

Istria rosso sangue

I martiri delle foibe scomparsi dai libri di storia e dalla memoria collettiva

«Non abbiamo ormai detto tutto su vicende di 70 anni fa? Ha senso ritornarci sopra ad ogni ricorrenza? Ebbene sì, ha senso. Riconciliazione non significa rinuncia alla memoria». Queste le parole dell’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione delle celebrazioni per la Giornata del Ricordo delle Foibe del lontano 2013, degne di un Capo di Stato responsabile e attento a voler tenere vivo nel ricordo di tutti il dolore che ancora provano le vittime delle persecuzioni titine. Eppure, quando nel febbraio 2011 l’Unione degli Istriani denunciò pubblicamente la presenza del maresciallo Tito tra i cavalieri di Gran Croce della Repubblica, nessuno si indignò. «Chiedo al presidente della Repubblica di voler procedere all’annullamento immediato della benemerenza», il presidente dell’associazione in questione, Massimiliano Lacota, scrisse proprio a Giorgio Napolitano. «È semplicemente orribile e disgustoso che lo Stato italiano riconosca il dramma delle Foibe e allo stesso tempo annoveri tra i suoi più illustri insigniti proprio chi ordinò i massacri e la pulizia etnica degli Italiani d’Istria, ovvero il dittatore comunista Tito».

Ma quello sfogo non sortì alcun effetto. La grande stampa, la politica moraleggiante e Napolitano quasi si nascosero, ignorando l’appello di chi, ancora ferito, si sentiva umiliato dalla permanenza del proprio carnefice nell’elenco più importante dei benemeriti della Repubblica. Fa rabbia pensarlo. Il suo successore, Sergio Mattarella, ha impiegato settimane intere per comunicare chiaramente la volontà di ricevere al Quirinale le associazioni di esuli, dopo giorni e giorni di silenzio assordante. Non solo, come sottolinea in una nota che dovrebbe essere riconciliatoria Giovanni Grasso, direttore dell’Ufficio stampa e Comunicazione del Quirinale, Mattarella nel 2015, appena insediatosi, si limitò ad intervenire alla Camera con due note sull’accaduto, mentre lo scorso anno era in visita a Washington. Quest’anno, ancora una volta, si trova all’estero, a Madrid.

Non proprio due grandi esempi di autorevolezza istituzionale da parte degli ultimi due presidenti della Repubblica, ecco. Ma ciò che getta ancor più nello sconcerto è constatare come questa non sia ancora la più grande delle ingiustizie perpetrate ai danni delle vittime di quella pulizia etnica. Peggio ancora del parlare nel modo sbagliato di una tragedia è, infatti, non parlarne affatto. Ed è proprio il silenzio su questo tema che ha caratterizzato la storia repubblicana del nostro Paese: ignorare, apporre una pagina completamente bianca sui libri di storia. Ciò che ha cancellato per anni la tragedia del popolo giuliano-dalmata è stata anzitutto un’operazione culturale.

Scrive Nicola Imberti su Il Tempo: “Il Trattato del 1947 chiedeva all’Italia di «restituire» alla Jugoslavia l’Istria, con le città di Fiume e Zara e le isole di Cherso e Lussino (836.129 abitanti). Nonché prevedeva il diritto da parte jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani. A luglio il testo approdò davanti all’Assemblea Costituente per la ratifica. E fu un plebiscito: su 410 presenti 262 votarono sì, 68 no, mentre in 80 si astennero. Storico (e citato nel libro) resta il discorso pronunciato in quell’occasione da Vittorio Emanuele Orlando che sottolineò tutta la drammaticità di un’Italia che si vedeva «amputata» di città e territori dove «l’italianità è più profonda, più intima, più pura».

A settembre il Trattato entrò in vigore ed iniziò una lunga e travagliata vicenda. In realtà già nel 1945 il presidente del Consiglio Ferruccio Parri e il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi avevano denunciato la scomparsa di 8.000 deportati italiani in Jugoslavia.
Insomma sapevano. Sapevano che, dopo la fine del conflitto, i vincitori jugoslavi avevano utilizzato qualsiasi mezzo per ottenere la «slavizzazione» della Venezia Giulia. I bilanci peccano spesso in difetto, ma si calcola che tra il 1945 e il 1956, circa 350.000 italiani fuggirono dall’Istria, da Zara, Fiume e dalle isole, e si ritrovarono profughi lungo la Penisola.

Il «Parere sull’importanza dell’insegnamento della Storia e del ruolo del docente» scritto dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nel settembre del 1960 recitava testualmente: «la trattazione dei fatti contemporanei… dovrà essere svolta… ai fini di apologia democratica, pacifista, antifascista».

Gli infoibati, non rientrando nella suddetta categorizzazione, restarono alla stregua di veri e propri fantasmi. Parlarne diveniva quasi controproducente, si rischiava di essere additati, etichettati, messi ai margini.

Qualcosa cambiò nel 1996 quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con decreto ministeriale, stabilì che i programmi dovessero «contemperare l’esigenza di fornire un quadro storico generale». Da qui la «necessità di studiare l’intero Novecento e non solo la parte che possa far piacere, senza omettere, ma anche senza dimenticare che non si fa opera di verità confondendo vittime e aguzzini».
Da quel momento qualcosa iniziò a smuoversi, timidamente. La celebrazione di questa tragedia storica diventò man mano una questione politica: da destra si premeva affinché venissero riconosciute le responsabilità dei partigiani titini, da sinistra si gridava all’apologia di fascismo. Fino ai giorni nostri il dramma delle foibe ha rappresentato tutta l’immaturità dell’uomo moderno nel non saper rispettare, con il silenzio del cordoglio e non con quello dell’indifferenza, le vittime dell’ingiustizia, a prescindere dalle circostanze e dal periodo storico.

Proprio questa è la più importante testimonianza di come si debba parlare delle vittime delle foibe ancora per molto, in tutti i modi possibili, visto che per troppo tempo un popolo intero si è reso complice dell’infamia del silenzio che ha mietuto vittime del tutto prive di colpa.

 

http://www.ilconservatore.com/idee/martiri-delle-foibe-scomparsi-dai-libri-storia-dalla-memoria-collettiva/

Segreti e no, indagine sul potere di Claudio Magris

<<La vita politica è costellata di segreti, di misteri sanguinosi, la cui verità viene occultata e confusa con una efficienza sconosciuta a quasi tutte le altre attività umane. Il potere ha sempre bisogno del segreto; non c’è Stato, per quanto liberale e democratico, che non abbia i suoi servizi segreti che operano avvolti da un’aura tenebrosa in cui la lotta col male si confonde, nell’immaginario ma spesso anche nella realtà, col male stesso. Ma c’è un’altra, molto più interessante sfera del segreto, che ha a che fare con la vita individuale e con una umanissima protezione della propria libertà. È il segreto che ha a che fare con la tutela dell’intima dignità umana – una tutela messa sempre più a repentaglio, oggi, dal nostro sistema mediatico>>.

Sono sempre più attuali queste parole del grande scrittore Claudio Magris presenti nel libricino suddiviso in sei capitoli, Segreti e no (Bompiani, 2014), un minisaggio il cui obiettivo è quello di mostrare come sia importante e doveroso difendere l’intimità e la privacy della persona minacciata dal circuito mediatico, da leggere tutto d’un fiato. Claudio Magris indaga sul significato del segreto nelle vite private e nella sfera politica di ogni società, quali pericolose macchinazioni possa nascondere, quanti errori sotterrare. I segreti della storia italiana più recente (da Ustica alla strategia della tensione, dagli scandali finanziari a quelli religiosi) sono rimasti tali per decenni, e probabilmente lo rimarranno per sempre, o almeno fino a quando non saranno più in grado di nuocere. Per continuare a fare paura, a minacciare la nostra società, secondo l’autore triestino, “è necessario che il segreto, qualsiasi esso sia, diventi il Sacro, l’Ineffabile e l’Inconoscibile; una verità superiore accessibile soltanto agli iniziati, a chi è autorizzato da una misteriosa, divina autorità superiore a conoscerlo e a impedirne la conoscenza al volgo”. “Volgo” che tuttavia dovrebbe vedersi garantito il suo diritto alla privacy, conservando per sé i suoi fatti personali, senza dover essere subito messo alla gogna o sospettato di chissà quali reatio magagne.

Magris rivendica il diritto individuale “all’opacità, a non essere passato da parte a parte…dai raggi X di alcuna conoscenza globale”, e alla difesa della propria libertà, di un proprio spazio in cui essere liberi da tutto e da tutti, anche dalla persona amata, perfino da se stessi. Quando la comunicazione si trasforma in espropriazione della vita degli altri, ecco che scade nel voyeurismo, perché “il segreto e la sua custodia sono un elemento fondamentale del potere. Ma c’è un’altra, molto più interessante custodia del segreto: è una umanissima protezione della propria libertà”.

Segreti e no è un affascinante pamphlet, una guida alla contemporaneità, che in pochissime pagine di ampi caratteri affronta un tema spinoso ancora oggi al centro del dibattito politico e sociale, intriso di citazioni colte e di aneddoti storici che ci raccontano come il segreto politico è forse quello che dimostra più di ogni altro la natura di potere insita nel segreto stesso, in ogni segreto e anche la sua franchigia rispetto alle leggi della morale e come il ruolo di un capo di Stato è anche dato dall’alone di mistero che lo avvolge. Tuttavia può accadere che spesso i segreti rivelino verità inutili o che servono a ben poco: i segreti sull’omicidio di Kennedy, sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia negli anni Settanta verranno alla luce quando, secondo Magris, non avrà più importanza, almeno per quello che riguarda l’esercizio del potere, conoscere la loro verità. Anche sapere se Gesù è stato processato dai romano o dagl iebrei potrebbe avere delle conseguenze politiche ed è per questo che non lo si sa ancora con sicurezza.

Alla custodia del segreto non è dunque sufficiente il labirinto dei depistaggi politici e della falsificazione documentaria, ma è necessaria una interdizione d’accesso a quelli che non devono conoscere il segreto che diviene mistero, sacro ed ineffabile, accessibile solo a chi ha un mandato religioso. Non a caso l’essenziale di tutti i culti misterici è rappresentato dal segreto del rituale: mistero deriva dal greco myein che vuol dire “chiudere gli occhi e le labbra”, ed è concesso solo agli introdotti ai culti dalle guide (mystagoi).

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