Protagonisti e contenuti del romanzo ‘Sulla strada’ di Kerouac

Non c’è niente di stantio in Sulla Strada di Kerouac. Niente di retorico, niente di superfluo, niente di invecchiato male. Se si torna al libro- lasciando perdere la sua abusata mitologia, l’esasperata devozione dei suoi cultori- si ritrova una vitalità intatta, splendida, seducente. È un libro che parla di oggi, perché, anche se all’epoca divenne di moda, non ha nessuna concessione alle cose più stereotipate della beat generation, alle cose che sono diventate più presto logore. Parla di cose eterne. Parla di amicizia, innanzitutto: ed anzi, prima ancora che di strada e di viaggio, mi sento di dire che questo libro sia innanzitutto l’enorme atto di amore che Jack Kerouac- Sal Paradise nel romanzo- tributò al suo amico fraterno Neal Cassady- reso immortale con l’ormai leggendario nome di Dean Moriarty.

Il beat di Kerouac

A ben vedere, Kerouac- così come si dipinge nel suo libro, almeno- non è del tutto addentro alla follia del beat, non sposa del tutto quella vita, ed anzi: in lui rimane sempre un’impostazione sostanzialmente borghese, una resistenza a rinunciare del tutto ad una certa idea di stabilità, di realizzazione personale, di compimento “classico” della propria vita. Più profondamente, in Sal Paradise (alter ego di Kerouac) resta, in tutto il libro, la nostalgia di un paradiso perduto- forse in questo senso il suo è un nome parlante- di un eden nel quale riposarsi, di una casa nella quale finalmente placare la propria irrequietezza, la propria ansia famelica di vita.

Probabilmente, è proprio questa posizione mediana tra salute mentale e follia, tra vita regolare e viaggi pieni di eccessi, tra aspirazione alla monogamia e promiscuità, tra una solida base letteraria (nel libro si mostra evidentemente che Kerouac conosce Dostoevskij, Hemingway, Melville) e concessioni allo slang e al linguaggio disarticolato e primitivo del beat, che Kerouac riesce a diventare il cantore più autentico di quella generazione, quello che abbia saputo trarre l’opera più longeva e capitale da quella stagione fatta di cose effimere e fugaci. È rimasto dentro il beat quanto bastava per poterlo raccontare- e raccontarlo come si racconta qualcosa che si ama, senza snobismo, alterigia, paternalistico distacco-, ma abbastanza a distanza da non farsene fagocitare, da non soccombere dentro di esso.

Dean Moriarty, un personaggio consapevolmente confuso

E questa devozione a quella stagione, a quegli autori, a quei viaggi, a quel tentativo folle e disperato di dettare una nuova visione al mondo, è anzitutto la devozione al suo amico, a Neal. Dean Moriarty è un personaggio tra i più riusciti della letteratura mondiale, e si vede che Kerouac descrive qualcuno che ha profondamente amato, il suo più fraterno amico, quello del destino. C’è qualcosa di commovente, tremendamente commovente e straziante in questa amicizia che sostiene tutto il romanzo, che anima tutti questi viaggi senza meta. Sal Paradise è un giovane di belle speranze, mantenuto dalla zia, che vuole fare le cose a modo, in fondo: fare l’università, diventare scrittore, mettere su famiglia, fare una buona carriera. I suoi sogni sono ancora sogni borghesi, sogni di una borghesia onesta, che sa cogliere la nobiltà di una certa quotidianità, senza farla precipitare in mediocrità, in spirito gregario, in acquiescenza.

Ma dentro questo ragazzo borghese alberga anche una confusa consapevolezza: e cioè che tutto ciò che il mondo gli sta lasciando in eredità è ripugnante e falso. Falsa la politica, falsa l’arte, falso il vivere civile, falso lo spettacolo e falso l’intrattenimento; falso anche tutto ciò che si dice sull’amore, sulla fedeltà e il matrimonio; falsa la scienza prona al potere e che in quegli anni raffinava la bomba atomica e faceva aleggiare sul mondo lo spettro dell’apocalisse imminente, falso lo stesso potere, falsa la religione nelle sue forme ingessate, piccolo-borghesi, istituzionalizzate, moribonde. Malgrado il suo temperamento e la sua formazione siano sempre nostalgiche dell’ordine, del senso e della direzione; Sal Paradise si trova spaesato in un mondo dove l’ordine ha lasciato spazio al caos, in cui nessuno sa più dove andare, cosa seguire, chi cercare, e dunque tutto diventa un folle e caleidoscopico viaggio senza direzione e senza requie.

Un viaggio tra bellezza e follia

Una sola cosa conforta, una sola cosa salva: la vita stessa, quella che si dispiega lungo il viaggio, i volti i nomi e le strade, l’America infinita e sterminata, l’ebbrezza del vento in faccia e la vertigine di voler arrivare ai confini del mondo, la folle libertà dei pionieri, lo spettacolo inesauribile dell’umanità malgrado tutto stupenda, la bellezza della strada, di una macchina, della velocità. Tutto questo sarebbe rimasto solo un confuso sogno di uno scrittore introverso e senza una particolare disposizione al viaggio- Sal Paradise, si apprende quasi a metà del romanzo, detesta guidare, ha una paura vera degli incidenti-, se Sal non avesse conosciuto Dean.

Dean è la personificazione della coscienza infelice di Sal, la follia incarnata, l’uomo che ha il coraggio di essere ciò che lui- con la sua attenzione malgrado tutto riservata alla sicurezza, al sogno di una moglie, alla propria rispettabilità, alla propria sopravvivenza- non avrebbe mai il coraggio di diventare. Abbandonato presto dal padre alcolizzato, cresciuto senza famiglia e allevato dalla strada, capace di perdere la verginità a dodici anni, di ingerire quantità abnormi di alcool e di guidare senza sosta da un capo all’altro dell’America, Dean non è solo un amico: è l’epifania della vita di Sal, l’illuminazione di ciò che deve fare, qualcosa che dà un nome e un volto alla sua perenne irrequietezza, alla sua insoddisfazione segreta e prorompente per la sua vita borghese.

Nulla ferma la pazzia di Dean: né le due mogli sperse in angoli sempre distanti dell’America, né la figlia, né l’incedere dell’età: la sua è un’esistenza da esteta, a cui Sal perdona tutto, la sua totale mancanza di affidabilità, il suo procedere verso zone di riflessione sempre più lontani dal senso comune e dalla comprensibilità, il suo essere essenzialmente avvitato su sé stesso, capace anche di grandi slanci di generosità ma in definitiva egoista, addirittura solipsista nel suo modo di vivere la vita ed i rapporti. Sal vede che Dean non è un amico: non gli dà, dell’amico, né le garanzie né il vero conforto affettivo. Ma gli dà la possibilità di viaggiare, l’ebbrezza delle notti, i versi dei poeti, il cemento della strada, le vaste e ineffabili prateria d’America.

Per lui- ma non solo per lui- la presenza di Dean va goduta per quello che è: uno spettacolo, una manifestazione inedita e esorbitante di energia, l’esplosione assurda e incessante di una vitalità estrema, insensata, che arde al punto di arrivare al parossismo. Nessuno è disposto a seguire Dean in questa folle corsa all’annientamento: ma tutti gli sono grati di essere così, di scuotere le esistenze degli altri altrimenti così grigie, monotone, ripetitive. Sal lo sa, come lo sanno tutti: ma lui è il solo e riconoscerlo, il solo a proclamare amore per quel grande e spettacolare matto. In lui Sal vede una scintilla che non ha niente di manieristico, di costruito, di artificioso- così diversa dalla finta pazzia di tanti artisti o sedicenti tali, che si atteggiano, magari proprio ispirandosi al beat, a folli solo come posa letteraria… Sal ama di Dean la sua genuinità, malgrado tutto conservata: la sua purezza.

“Lui era soltanto un ragazzo tremendamente eccitato dalla vita, un imbroglione, certo, ma solo perché aveva quest’ansia di vivere e di mescolarsi a gente che altrimenti non gli avrebbe prestato la minima attenzione”

I viaggi del libro di Kerouac sono quattro, uno per ogni parte del romanzo. La prima volta Sal parte da solo, in autostop e con i mezzi, da New York, raggiunge Dean a Denver, dove lo trova impegnato in folli dispute notturne con Carlo Marx- alter ego di Allen Ginsberg-, e allora se ne va nel West, dove trova impiego come poliziotto. Deve essere un fatto vero della vita di Kerouac questo, ma non crediamo sia casuale la scelta di inserirlo nel romanzo. Questo infatti mi sembra anche un grandissimo libro sulla lotta intestina che si svolge da sempre dentro l’America, la stessa lotta che oggi infuria e che minaccia di far saltare l’unità stessa di quella nazione.

All’epoca infatti gli Stati Uniti iniziavano a vivere quel paradosso di nazione nata sul concetto stesso di libertà ma, ad un tempo, sempre più obbligata dal peso internazionale di stato più potente del mondo a convertirsi silenziosamente in uno stato di polizia, e poi in poliziotto globale. C’è un’America che sogna la prateria, i lunghi viaggi sterminati, la natura, amare i propri fratelli che si trovano in fondo alla strada; e un’America che invece ha tutte le esigenze di uno stato sempre più accentratore, securitario, pervasivo.

L’America di Kerouac

C’è l’America libertaria e l’America della burocrazia. Sal Paradise che veste di malavoglia i vestiti da poliziotto è allegoria stupenda di questa America che esercita da anni ordini senza crederci più, vedendo in modo lampante la loro assenza di legittimità. Quando Sal torna, ogni volta è la stessa storia: proprio quando sta per accomodarsi nella sua vita borghese, nella placida tranquillità della sua vita ordinaria, Dean arriva alla sua porta e lo trascina in un nuovo viaggio verso l’Ovest. Troppe le cose raccontate, in quello stile nervoso e sincopato, in quella scrittura che si muove sempre più aderente alla vita, senza più mediazioni artificiose, sempre più attaccata alla pelle delle cose, per poterle citare tutte. Citiamo alcuni brani a campione, per dire la pazzesca maestria che aveva Kerouac nel mostrare non soltanto l’estasi del viaggio- del sesso, della strada, degli incontri- ma anche la malinconia sottile di questa vita fatta tutta di gente sfiorata e poi dimenticata, il senso di afflizione di non poter tenere tutto il mondo con sé, nella sua commovente vastità e varietà, di doversi rassegnare a perdere tanto di ciò che s’è visto.

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e perdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio”.

<<Dissi a Terry che me ne andavo. Lei ci aveva pensato tutta la notte ed era rassegnata. Mi baciò senza emozione nel vigneto e si allontanò lungo il filare. Dopo una decina di passi ci girammo, perché l’amore è un duello, ci guardammo per l’ultima volta. “Ci vediamo a New York, Terry”, dissi. Terry aveva in programma di raggiungermi di lì ad un mese, in macchina con suo fratello. Sapevo entrambi che non ce l’avrebbe fatta. Dopo una trentina di metri mi girai a guardarla. Lei continuò a camminare verso la baracca con il piatto della colazione in mano. Chinai il capo senza smettere di guardarla. Ero di nuovo sulla strada, ahimè>>.

“Avrei voluto andare a prendere di nuovo Rita per dirle molte altre cose, e far veramente l’amore con lei, e calmare la sua paura degli uomini. Ragazzi e ragazze hanno rapporti così tristi in America; snobismo vuole che cedano immediatamente al sesso senza adeguate parole preliminari. Non parole di corteggiamento, ma sincera apertura dell’anima, perché la vita è sacra e ogni momento è prezioso.”

Alla fine questa folle corsa dove conduce? Strano a dirsi, in Messico, dove Sal e Dean sembrano trovare requie perché incontrano un popolo strano e gentile, dagli sguardi accoglienti, un modo di vivere sano e semplice, attaccato ai ritmi della terra, senza tutta quell’insensata diffidenza e quella morbosa paura che stava avvelenando l’America. Il segreto del mondo sembrano trovarlo dentro gli occhi degli indios, il popolo più negletto e mortificato della terra. Dice di loro Dean

“Non c’è sospetto, qui, niente del genere. Tutti sono rilassati, tutti ti guardano in faccia con i loro occhi scuri e non ti dicono niente, guardano soltanto, e nel loro sguardo ci sono ancora tutte le qualità umane più dolci e tenui. (…) gente onesta e gentile, che non fa scherzi.”

Tra viaggio e fuga

Forse tutta quest’ansia di viaggiare era solo una folle fuga, un’incapacità di riconciliarsi con la propria terra, i propri luoghi, i propri volti più famigliari. Lo stesso Dean Moriarty, forse, non fa che cercare per tutto il continente quel padre che non ha più rivisto, dal quale non si è mai sentito amato. Ma, sia come sia, questa psicologia non è interessante. Ciò che è bello e struggente è che Sal Paradise, anni dopo, quando ormai avrà raggiunto quell’agiatezza e quella realizzazione borghese di una vita in ordine, come antidoto contro l’incedere della vecchiaia e la ripetitività dei giorni non ha nient’altro che pensare a quell’amico, a quello che è stato il brandello della sua vita accanto a lui, che altri liquidano ormai come un periodo di perdizione giovanile ma che in realtà lui custodisce in sé come il momento più vero e autentico della sua vita. Il momento in cui tutto roteava attorno a loro come uno spettacolare caleidoscopio- le donne, i volti, i luoghi, l’America tutta- e dentro il cuore rovente del mondo c’erano solo lui e il suo amico, disposti a ogni cosa pur di cogliere fino in fondo il segreto della vita.

<<E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta questa terra nuda che si srotola in un’unica incredibile massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty>>.

Sulla strada, il “testo sacro” di Jack Kerouac e della Beat Generation

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare». 
(Jack Kerouac, Sulla strada)

Sulla strada (1951), il più famoso e discusso lavoro dello scrittore statunitense Jack Kerouac, è considerato un cult intramontabile, un mito da generazioni e assurto quasi a testo sacro, una vera e propria “Bibbia” di quello che è stato il movimento generazionale degli anni ’50: la Beat Generation.
Tale movimento artistico, poetico e letterario, sviluppatosi soprattutto nel secondo dopoguerra, propugnava uno stile di vita basato sul nomadismo, il rifiuto dell’opulenza americana e la ricerca di nuove dimensioni visionarie nella droga. Temi certamente cari a Kerouac che, dopo aver vagabondato per gli Stati Uniti, per essere “purificato” dalla strada, non solo ha praticato personalmente questo stile di vita (soprattutto a New York e a San Francisco con i suoi cari amici W.S. Burroughs e A. Ginsberg), ma ha deciso di esporlo direttamente nel suo capolavoro On the road, Sulla strada.

Il romanzo è fortemente autobiografico. Pur presentando sostanzialmente una trama molto semplice è stato suddiviso in cinque parti, scritto sotto forma di episodi e ambientato negli anni ’40.
I protagonisti  Sal Paradise (sotto le cui spoglie si cela l’autore stesso), un ragazzo squattrinato spinto da ambizioni letterarie a viaggiare verso l’Ovest, e l’amico Dean Moriarty che, uscito dal riformatorio, è animato dalla voglia di vivere esperienze intense, affrontano insieme un “viaggio”, viaggio inteso come abbandono e alienazione dalla società di massa, abbracciando quella che è la vita “sulla strada” e che si concretizza poi materialmente quando i due affrontano una serie di esperienze insieme, sperimentando cose nuove e proibite portandoli a realizzare successivamente la loro insofferenza e incapacità di adattarsi alla società.

I due ragazzi non sanno cosa li spinga, ma sanno che devono andare, devono procedere nel loro cammino, quasi come se la strada fosse un richiamo; il viaggio è dunque il filo conduttore dell’opera. Sal e Dean vivono alla giornata, sono “costretti” a confrontarsi con nuove realtà, a mettersi in gioco, la noia per loro non esiste. il problema ridondante nel libro è sicuramente la fede, arrivando poi a sostenere l’esistenza di una forza maggiore che si identifica con la vita stessa e che si manifesta con la libera espressione della personalità umana. I mezzi  più efficaci per raggiungere tale stile di vita sono la droga, il sesso promiscuo, l’esaltazione musicale (nello specifico il jazz).

Dunque il motivo del viaggio va inteso anche in modo virtuale: attraverso l’uso di sostanze stupefacenti i due ragazzi si ritenevano liberi di abbandonarsi ai piaceri, che però, anche se risulta difficile, non deve essere visto come simbolo di un degrado, ma come sinonimo di creatività e immaginazione ormai soffocate dagli ideali dell’uomo moderno. Tuttavia, tra le pagine traspare anche la voglia di “mettere la testa apposto”: Dean capisce che lo stile di vita giusto non è quello che porta avanti, tra scappatelle, alcool e droghe, ma non riesce a farne a meno, la voglia di trasgredire è troppo forte, o meglio il desiderio tutto umano di afferrare un pezzetto di eternità, di essere a modo nostro “divini”. In questo senso, la tematica della gioventù bruciata si presenta soprattutto come una ricerca (che coincide con la fuga) di ciò che si è perduto e che si sente il bisogno di ritrovare, fuggendo dalla società consumistica e da se stessi e dalle proprie certezze.

La quinta e ultima parte del romanzo che tratta del viaggio dei protagonisti da Città del Messico a New York, mette quasi un punto a queste numerose esperienze, ma che in realtà non hanno fine in quanto la loro è considerata una fuga dal conformismo e destinata a proseguire, seppur solo nella loro mente. I due protagonisti si ritrovano dunque alla fine di un percorso, questo lungo cercare una vita perfetta che termina purtroppo con l’accettazione della realtà.

Merita una notevole attenzione lo stile narrativo utilizzato da Kerouac, così ritmato e spontaneo, frenetico, spesso ripetitivo e meno coinvolgente nel finale, di grande potenza evocativa, tale da rendere ancora più vere le sensazioni e le emozioni dei protagonisti. Sembra quasi che l’autore americano registri quello che vede, le descrizioni di paesaggi, la natura, la gente. Nell’opera scorrono i paesaggi di tutti gli stati americani, la California, il Texas, l’Ohio e tanti altri, fino a raggiungere il Messico.

Bisogna ammettere quanto Kerouac col suo romanzo faccia davvero viaggiare la mente in un modo molto più forte e intenso rispetto ad un viaggio reale e per chi ama viaggiare e “perdere paesi”, come ha sottolineato Pessoa, “la lettura di On the road è davvero qualcosa di speciale”, facendoci riflettere anche sulla questione della fede e sulla differenza tra la società borghese e conformista americana e quella nascente. Ma davvero oggi il tema della ribellione è così attraente? Davvero la ricerca della felicità debba avvenire (e soprattutto con esiti positivi) fuori dai cliché dettati dalla malvagia società capitalista?. Certo all’epoca Sulla strada ha “stregato” l’America e poi l’Italia in cerca di scrittori “di sinistra” (che in realtà non lo erano) per la nostra imminente rivoluzione.

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