Cosimo Argentina, scrittore irriverente e nostalgico: “La decadenza e il degrado fanno piangere, ma è sempre importante trovare il modo di ridere delle miserie proprie”

Lo scrittore tarantino Cosimo Argentina è un uomo generoso e sensibile, sebbene leggendo alcuni suoi libri si possa far fatica a crederlo, data la sua penna affilatissima, irriverente e cruda. Laureato in giurisprudenza con una specializzazione in criminologia, e dopo aver praticato l’attività di procuratore legale e giornalista a Taranto, nel 1990 Argentina si trasferisce in Brianza dove vive ed insegna Diritto ed Economia.

Esordisce nel 1999 con il romanzo Il cadetto edito da Marsilio, vincitore del Premio Letterario Edoardo Kihlgren Opera Prima e del Premio Oplonti. Nel 2002 con lo stesso editore pubblica Bar Blu Seves e nel 2004 il suo Cuore di cuoio edito da Sironi, selezionato per il Premio Bancarella Sport; poi è la volta di Maschio adulto solitario (Manni 2008), Beata ignoranza (Fandango 2009), Vicolo dell’acciaio (Fandango 2010),  Per sempre carnivori (Minimum Fax, 2013) L’umano sistema fognario (Manni, 2014), Le tre resurrezioni di Sisifo Re (Meridiano Zero, 2016) e Legno verde. Educazione sentimentale di un adolescente (Oligo, 2019).

Argentina è un fine narratore di storie dove i protagonisti sono “gli sfigati”, coloro che vivono nel degrado, collocati all’ultimo posto della scala sociale. Se Baudelaire ha saputo raccontare come nessun altro prima l’angoscia esistenziale, Argentina ci mostra tutte le sfumature del disagio sociale all’interno di quella sgangherata lotta di classe che in Italia vede la fazione dei ricchi (spesso indebitati e cafoni) scagliarsi contro quella dei poveri (quasi sempre rappresentati da chi povero non è affatto), rei di non voler fare nulla, di essere degli sfaticati che non soprattutto i poveri del sud. Questi ultimi, specialmente i tarantini sono patrimonio interiore di Argentina che li omaggia con uno stile grottesco e con una profonda empatia che non può non lasciare indifferente il lettore, il quale inevitabilmente si chiederà se nell’essere consapevole del degrado e della miseria umana e sociale si giunga al pianto dopo un riso amaro o viceversa.

Si avverte una certa nostalgia tra le pagine dei libri di Argentina, in primis per una letteratura che è stata ma che certamente è immortale, non a caso i punti di riferimento dello scrittore pugliese sono Conrad, Dante, Céline, Dostoevskij, Kafka, Pessoa, Cormac McCarthy, ecc, e per un sana provincia che non c’è più come si evince dal delizioso e malinconico romanzo Cuore di cuoio, dove il campo da calcio funge da metafora della vita, e per l’adolescenza che fu, spensierata e piena di sogni.

I libri di Argentina ci consegnano uno scrittore che non ama scendere a compromessi (“Chi legge le mie storie spesso capisce dove voglio arrivare e tanto mi basta” afferma) e che riesce a vedere il lato positivo anche nella tragedia, anche perché a volte l’essere umano non è trascinato nella tragedia dalle sue mancanze e disvalori, bensì dalle sue qualità come ci insegna Haruki Murakami.

L’universo di Argentina è costituito da visioni, realtà concrete, caos, paranoie, invettive, neologismi, contorsioni linguistiche, preveggenze, tenebre, ma anche ricordi, luce, sentimento. Senza dubbio tra i migliori e veri romanzieri italiani che la noiosa, prevedibile e markettara letteratura contemporanea nostrana è capace di offrire.

 

 

1 Lei ama definirsi narratore di storie. Qual è la differenza principale tra narratore e descrittore?

Il narratore, a mio avviso, deve avere per le mani una storia. Tutto parte dalla storia e dallo stile. Stile e storia fanno il narratore. Se non c’è questa base non si va da nessuna parte. Ecco perché un narratore dovrebbe iniziare a scrivere tardi, chessò, dopo i trent’anni come afferma Henry Miller. Questo perché prima deve vivere e immagazzinare storie da raccontare, altrimenti si limiterà a copiare le storie degli altri e i suoi diventeranno libri che imitano altri libri. Il narratore si prende dei rischi in quanto nelle storie che racconta mette inevitabilmente se stesso. Si mette a nudo e non ha paura di farlo. Lo scrittore descrittore invece è capace di scrivere su qualunque cosa. Puoi mostrargli una sedia e lui tirerà fuori pagine e pagine descrivendo ogni minuzia di quella sedia. È un professionista che è in grado di scrivere a prescindere da tutto. È un intellettuale, uno che può dire la sua in politica, finanza, società, lavoro, ecologia, farmaceutica, geografia…

2 In tal senso in Italia vede più narratori o descrittori?
I narratori si vedono alla distanza. Se le loro storie reggono devono essere leggibili da qui a cinquant’anni. Ci sono romanzi che invecchiano bene e diventano classici, altri che perdono valore col tempo. Quando venne chiesto a Marlon Brando cosa ne pensasse del film Il selvaggio che aveva lanciato una moda poi seguita da tutti i giovani ribelli del tempo lui rispose non mi piace perché è invecchiato male. Questo vale anche per i libri e i narratori. Perciò risponderò tra cinquant’anni. Gli scrittori descrittori sì, ce ne sono molti e alcuni molto bravi. Io non amo chi spacca il capello in quattro, ma devo ammettere che saper tenere la penna in mano è una dote che apprezzo sempre.

3 Chi sono i suoi punti di riferimento?
I grandi vecchi della letteratura mondiale. Sono loro. Ernest Hemingway, Ungaretti, Philip Dick, Boccaccio, Céline, Garcia Marquez, Dostoevskij, Kafka, quel pazzo di Dante Alighieri, Pessoa. Tra i recenti Tabucchi, Mario Rigoni Stern, James Ellroy, Cormac McCarthy, insomma quelli da cui si può sempre imparare.

4 Il primo libro che ha letto?
Corsa al Polo Nord. Un libro per ragazzi che mi aveva entusiasmato per via della gara tra Amundsen e Scott. E poi il fatto che il tecnologico perdeva e quello con la slitta tirata dai cani vinceva, non so, aveva un che di epico. Lo lessi in tre ore sdraiato sul letto dei miei in pomeriggio afoso. Poi sono passato ai racconti di Edgar Allan Poe e ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere. Leggendo Poe ho pensato: ehilà, questo mi mette i brividi e mi fa emozionare mettendo una parola accanto all’altra… mondiale!

5 Tre libri che l’hanno illuminata?
Fiesta di Ernest Hemingway per via dello stile. Anche una gita al fiume per pescare trote diventa poesia e poi lo scandagliare la psiche dei personaggi a quel modo. Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline perché, lì c’è tutto. È per il Novecento europeo ciò che Moby Dick è per la letteratura americana e la Divina Commedia è per il mondo. Cuore di tenebra di Conrad perché è pieno di simboli e ogni simbolo è al suo posto e in poche pagine riesce a mettere in scena l’orrore, l’avventura l’esotismo e le forza che sono in gioco nella vita degli uomini.

6 In Maschio adulto e solitario e L’umano sistema fognario Lei raggiunge vette di grottesco davvero sorprendenti. La decadenza e il degrado umano fanno più piangere o ridere alla fine? Vede l’umanità senza speranza, scivolare in un vortice autodistruttivo oppure è un modo di guardare con distacco la miseria umana perché è l’unico modo di non disprezzarla totalmente?

A volte la realtà supera la mia immaginazione. Altre volte metto su carta ciò che ho visto come la tigre nel cortile di MAS. La decadenza e il degrado fanno piangere, ma è sempre importante trovare il modo di ridere delle miserie proprie e non solo. Le malattie, lì non ci sono santi, sul resto si può passare una verniciata di ironia. Di grottesca presa di coscienza. Non fa male a nessuno. No, quanto al disprezzo no. Come mi disse una volta Fernanda Pivano già il fatto che metti in scena una tragedia stai facendo una scelta e la stai omaggiando, quella tragedia, e ne stai prendendo le parti e cerchi involontariamente una soluzione alla vita. La Pivano mi disse che chi scrive è capace di amare anche laddove si è oltre il baratro.

7 Perché le interessa raccontare soprattutto gli ultimi della scala sociale? Qual è l’aspetto peculiare che li caratterizza e che risulta interessante ai suoi occhi?
Mi ci sono sempre trovato bene. Certo, se uno ha vissuto 57 anni sa bene che spesso ultimi e primi hanno dinamiche crudeli differenti ma assimilabili. Un ultimo vorrebbe passare al di là della barricata, senza dubbio, e poi magari comportarsi come gli aguzzini sociali che lo hanno tenuto alla catena. Ma io ho vissuto per strada e tutt’oggi i miei amici e conoscenti sono gente da fabbrica, alienati, gente che fa le pulizie in casa di altra gente, muratori che però conoscono a menadito Nietzsche, avventurieri che aprono locali che poi vengono chiusi in battuta dalle autorità sanitarie; gli ultimi, gli sfigati sono più simpatici. Hanno una genuinità che proviene dal non aver nulla da perdere. E hanno storie terribili da raccontare e uno che scrive è una spugna.

8 Come la prenderebbe se la accostassi a nomi come Palahniuk? Si sente di appartenere a quel modo di concepire la scrittura, cruda ed incisiva?
Fight Club mi era piaciuto, non tanto per la storia, troppo surreale, quanto per la scrittura, davvero efficace. È un accostamento che mi onora. La mia scrittura segue canoni che corrono su due direttrici: la storia che voglio narrare e l’onestà che ci metto nel momento in cui la racconto. Se devo scrivere “cazzo” lo scrivo e non cerco sinonimi improbabili. Uno non è che è tenuto a scrivere per forza. Se metto su pagina una scena di sesso crudele lo faccio e basta. Cose troppo letterarie mi disturbano. Io voglio scrivere quello che vedo e come lo vedo. D’altra parte c’è sempre una evoluzione e un cammino verso una scrittura sempre nuova che però mi permetta di conservare il marchio di fabbrica.

9 Cosa rappresenta la sua città natale Taranto, protagonista dei suoi romanzi e quanto l’ha condizionata?
Uno è ciò che è per via della famiglia che ha frequentato e i luoghi dove ha vissuto nei primi quindici sedici anni, sicché Taranto è roba mia, mio patrimonio interiore. E quindi condiziona il mio modo di pensare, ironizzare, agire. Pur avendo padre brindisino e madre bolognese io sono uno di Taranto. È il mio scenario ideale, soprattutto la Taranto degli anni ’70 ’80 e prima metà degli anni ’90. Oggi la riconosco di meno. Ma i tarantini sono sempre loro, la mia tribù preferita.

10 La massima di Gide per il quale per fare buona letteratura ci vogliono cattivi sentimenti sembra calzarle a pennello…
Bè, qui ti sorprendo perché quelli che mi hanno conosciuto mi hanno trovato una persona perbene. “Con quello che scrive”, mi dicevano “ci aspettavamo un orco”. Un ragazzo stava facendo la tesi di laurea in lettere sui miei romanzi e voleva avvicinarmi. Però gli avevano suggerito di non farlo perché io ero un bastardo e lo avrei preso a calci. Quando la sua fidanzata mi ha intercettato durante una presentazione e poi ha organizzato un incontro con il suo fidanzato si sono accorti che ero un pacifico insegnante di mezz’età. Però concordo che nel mettere in scena una storia bisogna bere il calice amaro fino in fondo e i cattivi sentimenti, a giocare la partita con sincerità, ci sono e vanno mostrati.

11 Perché secondo lei a volte molte persone sembrano “amare” sguazzare nel loro degrado? Mancanza dell’”appiglio trascendentale” o perché a volte tutti amiamo “sporcarci un po’”, scendere nel sottosuolo, per dirla alla Dostojevskji?
Non saprei. In me, ad esempio, c’è un po’ di autolesionismo. Ho conosciuto una ragazza a cui tenevo maledettamente. Ero molto preso. Ma al primo o secondo incontro le ho raccontato tutte le mie debolezze e quanto fossi sfigato e quanto ero negativo come persona e banale e mediocre. Lei era sorpresa perché aveva sempre avuto a che fare con uomini che soprattutto all’inizio facevano di tutto per apparire fighi, misteriosi, interessanti, attraenti. Poi c’è l’essere naturalmente disadattati. Io non ho mai incontrato una famiglia sana, totalmente sana. E poi scendere nei bassifondi a volte genera anche lo smarcarsi dalle responsabilità. E poi c’è il desiderio del suicidio. Un tossico, un tabagista, un ludopatico in fondo cosa vogliono se non farla finita?

12 Cuore di cuoio è un inno all’adolescenza spensierata spezzata da un morte prematura in cui prevale la tenerezza. Lei è nostalgico? Che rapporto ha con i ricordi e cosa ne pensa degli adolescenti di oggi?
Sì, mi dicono che essendo del cancro sono mammone e nostalgico. Ma uno che scrive dovrebbe ricordare ogni sasso che ha calpestato e, per dirla con Stephen King, ricordare ogni ferita. Io rivisito il passato spesso e volentieri. Il problema è che a volte lo faccio anche con gli altri. Domando dei vecchi amori, di come si amavano, dei lutti, domando se odiavano i genitori e cose così. L’adolescenza è terribile e al tempo stesso è un momento magico dove tu stai uscendo dal bozzolo. Io da insegnante dico che gli adolescenti di oggi sono troppo intubati nei social e nei telefonini. Troppo soli. Ma a parte questo riconosco in un quattordicenne ciò che ero io a quattordici anni e poi so che, ad ascoltarli, gli adolescenti hanno dentro tanta anima che un mondo distratto non sa cogliere.

13 Si autocompiace quando dice che a lei poi non importa più di tanto di vendere e di essere letto, di aver vinto, ad esempio, un Premio Strega?
No, è solo invidia, hai presente la volpe e l’uva? Però non sono disposto a snaturarmi, quello no, quello sarebbe scorretto innanzitutto verso me stesso. Scrivo le mie storie e il mio sogno è conquistare milioni di lettori vincere lo strega e il Nobel per la letteratura. Ma snaturarmi no. Non lo trovo giusto. Chi legge le mie storie spesso capisce dove voglio arrivare e tanto mi basta. Se invece che mille fossero un milione però, detto fra noi, farei un giro di campo a braccia sollevate.

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