Sarebbe troppo facile non occuparsi di Filippo Tommaso Marinetti, soprattutto adesso che un giudizio su di lui può far sospettare qualcuno di “partito preso”. Come scrivere su Marinetti? La maniera più semplice ce la fornirebbe, come ha notato Giacomo Debenedetti, ancora quel famoso enfant terrible che, davanti un quadro d’avanguardia, sentenziava: “Tutto bene: ora bisogna terminarlo”. In effetti le poesie di Marinetti suscitano in chi le legge un: “bisogna terminarle”. Marinetti ha saputo crearsi degli ostacoli, delle difficoltà espressive, esplodendo però in sensuali rivelazioni della materia.
Tuttavia Marinetti, che ambisce a trovare punti di incontro tra i suoi ideali, il suo destino e la sua figura letteraria, spesso si riduce ad un eco di se stesso, lasciandosi cadere dalla penna la parola <<tattilismo>>. Anche nel suo Poema africano della Divisione <<28 ottobre>> del 1937, vi si trovano molti tattilismi: da quello delle ambe, al cobalto e tattilismo di piuma di pulcino, al tinnulo tattilismo lascivo di mosconi di lapislazzuli. L’interessante qui è che Marinetti tappi con questa parola, diversi buchi. Ciò significa che il suo movimento poetico lo porterebbe a prendere possesso delle cose in modo diretto e semplice, primitivo, possesso di cui deve limitarsi a segnare l’equivalenza tattile affinché si consegua un’arte che racchiude le rivelazioni di tutti i sensi:
<<quegli alti roccioni di ruggine aprire aprire tra gli speroni calcare la più fonda fresca delle gole viola nera densa di lentissimo vischioso piacere condensato>>.
Un’opera troppo ambiziosa
Il sempre imminente barocchismo qui è sventato dalla nota sensuale che culmina nel languore e questi motivi del notturno e dell’idillio rappresentano il tono prevalente del poema. La materia meglio resa è quella che si stempera in dolcezza: le freschezze, i chiari di luna, la musica di Chopin; del resto l’opera di Marinetti, il quale identifica la materia nella parola, è una straripante nomenclatura di sensazioni che obbedisce alla poetica dell’impressionismo. Marinetti è come posseduto da un demone energetico che il più delle volte trasformano la sua sensuale scoperta in una rabbiosa rabbia di possedere l’oggetto della sua scoperta. Ed ecco scaturire numerose metafore che controllano tutti i possibili rapporti tra il poeta e ‘la cosa’ scoperta.
La rivoluzione futurista di Marinetti è stata in fondo un episodio di quello sforzo per liberare la poesia dal discorso che caratterizza una delle massime tendenze del gusto a partire da Rimbaud. Se l’autore avesse saputo rimanere nell’ambito di una poesia impressionistica, lasciando perdere le smanie propagandistiche, la sua rivoluzione avrebbe potuto rispecchiare gli impulsi della sua natura di artista. I temi sui quali è costruito il Poema africano sono esaltazione civica, patriottica e imperiale della guerra, guerra affrontata in toni epici. C’è poi il tema della fratellanza dei soldati e il moto collettivo del popolo. Siamo dunque di fronte ad un’opera di grosso impegno, dove Marinetti, attraverso le sue sensazioni, vuole impadronirsi del mondo intero, dimostrando di essere un abile oratore. Le sue parole in libertà comportano un frettoloso recupero della sintassi:
<<L’orgoglioso mesto ed epicureo di molti gruppi di palme-bambù bn lungi dal rivoltarsi accetta le ampie tettoie di fogliame che alte acacie spinose sparano orizzontalmente>>.
La frase è attaccata subito con il massimo fiato e da quel punto prosegue con la stessa intensità sonora in una sintassi impacciata, al limite della elementarità.
Ma non basta autodefinirsi il poeta della civiltà meccanica o della guerra sola igiene del mondo per silenziare le antiche ragioni del cuore: per quanto riguarda gli affetti umani, Marinetti, per sua fortuna, è molto “umano e si avvale si un timbro che oscilla tra il virile e la tenerezza dell’abbandono, disprezzando l’inimicizia. A colpi di verbi all’infinito, il contraddittorio ed irrequieto Marinetti maschera il racconto sotto una balletto di parole altamente esplosive. L’ambizione del poema ha forse contrastato la nascita del più bello tra i libri documentari e narrativi della guerra abissina.