Il teatro in Italia nel primo ‘900: da Marinetti a Chiariello

In Italia le forme ottocentesche del Teatro verista, il Teatro dialettale e il dramma borghese agli inizi del novecento, vengono messe in discussione e soppiantate da altri generi teatrali. I primi ad operare in questo contesto sono gli avanguardisti del movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti.
Tre sono i manifesti dedicati al teatro.

Tre sono i manifesti che i futuristi hanno dedicato al teatro. Il primo approccio alle questioni teatrali è costituito dal Manifesto dei drammaturghi futuristi del 1911, nel quale l’intero sistema del “mercato culturale” dell’epoca viene criticato per aver trasformato il prodotto artistico in merce. Un’arte che per essere venduta, si basa su luoghi comuni, lusingando e accrescendo la pigrizia del pubblico.
Il manifesto, al contrario, teorizza un teatro che induce a riflettere e ad avere un atteggiamento critico nei confronti di ciò che viene rappresentato. I procedimenti stilistici impiegati sono la deformazione, lo straniamento e la gestualità esagerata con lo scopo di stimolare reazioni ed impedire l’adesione passiva degli spettatori. I futuristi, in particolare, propugnano il disprezzo del pubblico: i fruitori non devono essere accontentati ma scossi con proposte estreme. Il manifesto arriva ad ostentare la voluttà di essere fischiati, perché nulla più dell’insuccesso garantisce la riuscita della provocazione.

Famose in questo senso sono le “serate futuriste” in cui i membri del movimento espongono testi poetici, declamano manifesti, presentano brani musicali e quadri futuristi. Le serate, per il loro intento provocatorio spesso si concludevano con diverbi, scontri fisici e risse tra i partecipanti e gli avanguardisti.

L’innovazione più grande consiste nel proporre una scrittura drammaturgica originale che riflettesse la vita moderna, «esasperata dalle velocità terrestri, marine ed aeree e dominata dal vapore e dall’elettricità» lontana dunque dall’esaltazione di eroi, dagli stereotipi come le storie d’amore travagliate, l’adulterio e racconti pietosi e commoventi tipici delle forme teatrali passate.

Con il manifesto Il Teatro di varietà del 1913 Marinetti individua nel Teatro di varietà la forma di spettacolo più vicina alle tendenze futuriste, ritenendolo «il più igienico fra tutti gli spettacoli, pel suo dinamismo di forma e di colore (movimento simultaneo di giocolieri, ballerine, ginnasti, cavallerizzi multicolori, cicloni spiralici di danzatori trottolanti sulle punte dei piedi). Col suo ritmo di danza celere e trascinante, trae per forza le anime più lente dal loro torpore e impone loro di correre e di saltare».

Due anni dopo nel 1915 esce l’altro manifesto Teatro futurista sintetico in cui si propone una forma di teatro «sintetico», «atecnico» (al contrario della scrittura drammatica del teatro borghese, naturalista e tecnica), «dinamico» e «simultaneo» («cioè nato dall’improvvisazione, dalla fulminea intuizione, dall’attualità suggestionante e rivelatrice»), «autonomo», cioè svincolato dalla tradizione, «alogico» e «irreale». Nascondo così le sintesi futuriste: azioni teatrali sintetiche cioè brevi <<stringere in pochi minuti, in poche parole e in pochi gesti innumerevoli situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli>>.

Il Teatro grottesco

L’altra tipologia di teatro nata in opposizione al dramma borghese e alle forme teatrali tradizionali è il Teatro del grottesco. Di poco successivo al teatro futurista, si sviluppa nel periodo della prima guerra mondiale fino agli anni venti. Il termine grottesco appare per la prima volta nel 1916 come sottotitolo del dramma la Maschera e il volto di Luigi Chiariello. Il dramma avvia una tendenza tutta nuova e da l’impulso per quello che sarà poi definito teatro del grottesco. Il tema centrale di questo genere è il costante conflitto tra l’apparire ed l’essere: tra quello che siamo o crediamo di essere e come invece appariamo agli altri e le innumerevoli maschere che l’uomo deve indossare per essere accettato dalla società.

Molti esponenti della letteratura novecentesca aderiscono al teatro grottesco. Il più noto è senza dubbio Luigi Pirandello con i testi Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917), La patente (1918), Il giuoco delle parti (1918). Altro nome di rilievo è Pier Maria Rosso San Secondo. Siciliano e amico di Pirandello che porta in scena innumerevoli opere grottesche Marionette che passione, Tre vestiti che ballano, La bella addormentata.

L’esperienza del grottesco coinvolge anche Massimo Bontempelli con il capolavoro Minnie la Candida. Questi drammi sono accomunati dalle stesse tematiche: vengono rappresentate, discusse, parodiate la bassezza e l’inautentica dei rapporti sociali.

Tutte queste nuove forme teatrali non solo hanno disgregato le strutture teatrali tradizionali, ma hanno gettato le premesse su cui si fonderanno gli sperimentalismi della seconda metà del novecento, grazie ai quali il teatro conoscerà un periodo davvero fortunato.

Fonti: Luperini: La scrittura e l’interpretazione
Baldi-Giusso: La letteratura

 

Eduardo De Filippo, dieci frasi per amarlo

Eduardo De Filippo nasce a Napoli il 24 Maggio del 1900. Figlio del celebre Eduardo Scarpetta ha modo sin da subito di entrare a contatto con quello che sarà per sempre il suo mondo. Grande maestro di drammaturgia, attore ma anche poeta ed intellettuale del nostro secolo (non dimentichiamo la sua candidatura al premio Nobel per la letteratura), Eduardo De Filippo è stata la prova vivente di come si possa essere artisti a trecentosessanta gradi senza mai smettere di mettersi in discussione e sperimentare. La nostra cultura deve sicuramente tantissimo al più comunemente noto ”Eduardo”. Grazie alla sua indiscussa bravura, professionalità e all’impegno costante di un’intera esistenza, Eduardo De Filippo viene nominato senatore a vita dal presidente della repubblica Sandro Pertini.

Se c’è una cosa su cui non possiamo nutrire alcun dubbio è che l’autore della commedia Natale in casa Cupiello dedica la sua vita al teatro, come egli stesso sostiene, visibilmente provato, anche nell’ultima apparizione in pubblico, a Taormina. Una vita di sacrificio ed amore la sua, in cui non mancano momenti di crisi e difficoltà come quello che lo vede non più accanto al fratello Peppino (come dimenticare la maschera di ‘Pappagone’) e alla bravissima sorella Titina De Filippo.

Eduardo De Filippo ci ha raccontato una realtà espressione del dopoguerra con i suoi drammi e gli stravolgimenti di anni che restano ”a cavallo”, dolorosi e forse incomprensibili (pensiamo a Napoli Milionaria) ma anche storie individuali che non hanno tempo e che potrebbero riguardare, oggi come ieri, ognuno di noi (Filomena Marturano ne è sicuramente un esempio).

Non sempre capito dalla sua amata Napoli, Eduardo è sempre sul palcoscenico ma mai distante dallo spettatore e dalla gente, fino alla fine. Si spegne a Roma il 31 Ottobre del 1984, lasciandoci un’eredità culturale dal valore inestimabile assieme a dei grandi interrogativi su quella che è la nostra realtà attuale.

 

  1. ”Voglio dire che tutto ha inizio, sempre da uno stimolo emotivo: reazione a una ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi”.

 

  1. ”Voi sapete che io ho la nomina (non di senatore, per carità) che sono un orso, ho un carattere spinoso, che sfuggo… sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere cinquantacinque commedie”.

 

  1. ”Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male”.

 

  1. ”A vita è tosta e nisciuno ti aiuta, o meglio ce sta chi t’aiuta ma una vota sola, pe’ puté di’: «t’aggio aiutato»”.

 

  1. ”Essere superstizioni è da ignoranti, ma non esserlo porta male”.

 

  1. ”Non possiamo essere noi a distribuire il bene e il male: non conosciamo le proporzioni”.

 

  1. ” Se un’idea non ha significato e utilità sociale non m’interessa lavorarci sopra”.

 

  1. ”Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare… è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto”.

 

  1. ”Con la tecnica non si fa il teatro. Si fa il teatro se si ha fantasia”.

 

  1. ”Buongiorno, Signor De Filippo, qui è la televisione.” “Va bene, aspetti che le passo il frigorifero”.

Tre sorelle: l’umanità dolente di Anton Cechov

Considerata una delle opere più alte di Anton Cechov, il dramma teatrale intriso di lirismo e realismo esistenziale, Tre sorelle (1900), apre il ‘900 (in scena il 31 gennaio 1901) e ha per protagoniste tre sorelle, figlie di un generale russo morto da appena un anno: Ol’ga la maggiore è insegnante in un liceo femminile, la seconda Maša è sposata a Kulygin un professore di ginnasio che non ama e la terza sorella Irina, la più giovane e bella. Le tre sorelle sono più che desiderose di emanciparsi col lavoro e di trasferirsi a Mosca per sfuggire alla soffocante e mediocre vita di provincia. Vivono insieme al fratello Andrej, ragazzo poliedrico e aspirante ad un futuro da brillante intellettuale. La loro casa di provincia è frequentata da giovani ufficiali quali il barone Tuzenbach, Solënyj e i cadetti Fedotik e Rodè, dal sessantenne dottor Čebutikyn, disilluso e nichilista e infine dal colonnello Veršinin uomo maturo, mal maritato, filosofo continuamente assillato dall’interrogativo di come sarà il mondo dopo di noi. L’ultimo personaggio è Nataša, ragazza di cui Andrej è innamorato e che diventerà sua moglie. Nataša non è vista di buon occhio dalle tre sorelle, che la ritengono inadatta al fratello. Tra feste annullate, scuse fittizie, tradimenti, desideri, perdite al gioco la vita dei protagonisti va avanti, noiosamente braccata da quella monotonia che precede le tempeste.

Il tempo passa e ogni desiderio e ogni aspettativa viene delusa, il destino è inappellabile e concede all’uomo, forse, solo pochi istanti di breve felicità. Poi un incendio scuote la calma in famiglia, il fuoco sembra avere il potere di far saltare tutti i rapporti tra i personaggi; Ol’ga litiga con Nataša che mal sopporta la presenza di un servo ormai troppo vecchio per lavorare; Ol’ga a sua volta sta per essere nominata direttrice del ginnasio femminile nonostante vorrebbe evitare la carica, Irina continua a lamentarsi del proprio impiego insoddisfacente e infine Maša si strugge d’amore per Veršinin tradendo il marito Andrej che nel frattempo abbandonati i sogni di gloria di gioventù è diventato socio del locale consorzio. Alla fine la brigata militare viene trasferita e tutti i militari devono partire.

Ogni personaggio si avvia a vivere un personale e tragico epilogo: ognuno di essi sconvolto, deluso e disingannato non potrà far altro che interrogarsi Ol’ga è la direttrice per lasciare la casa e portare con sé l’anziana balia mentre Irina decide di sposare sul perché di tante sofferenze. La battuta finale con cui si chiude il penultimo dramma di Čhecov ,“Poterlo sapere, poterlo sapere!”, racchiude tutto il senso o meglio tutto il non senso di una vita trascorsa fra corpi sospesi, inadeguati, tristemente cominci e tragici che fingendo di preoccuparsi d’altro sentono tutto il peso della sofferenza e dell’ingiustizia e non riescono a non chiedersi “Il senso dove sta?”

Tre sorelle è dunque una riflessione sul tema della disillusione, della felicità e dell’infelicità, sospesa tra falsa allegria e crepuscolarismo, tra ilarità e angoscia, attraverso l’analisi psicologia dei protagonisti. Una costante ricerca dell’attimo e dell’ ascolto; una storia di assenza e di vuoto. La vita diventa agonia e naufragio. Sono proprio i desideri più intensi che non si realizzano perchè i gesti non corrispondono alla intensità dei desideri, non c’è volontà, la realtà intorpidita collude e distrugge la profondità dei sogni. Il futuro migliore, invocato fin dal principio con dissertazioni filosofiche che sembrano dargli forza, resta un sogno impossibile, irrealizzabile. Uno girare a vuoto, aspettando che si realizza l’eterna promessa di una società migliore. È questa l’umanità del Novecento, un’umanità che aspetta invano mister Godot. Un’umanità dai piccoli personaggi con i loro rituali quotidiani, le piccole ipocrisie e i grandi fallimenti.

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